La comunità di Pitigliano ricorda con dolore l’anno 1938, quello delle leggi razziali. Un dolore che, certo, è provato dall’Italia tutta, ma che qui è particolarmente acuto, dal momento che, fin dal Cinquecento, questo borgo che sorge su di uno sperone tufaceo nella Maremma grossetana accoglie una piccola comunità di ebrei, che hanno sempre vissuto nella più completa armonia con gli altri abitanti. Nel 1938, la comunità ebraica di Pitigliano conta una settantina di membri, la metà degli ebrei che vivono in Maremma. È l’inizio della fine: alcuni vengono deportati nel vicino campo d’internamento di Roccatederighi, dal quale partono i convogli diretti a Fossoli, che a sua volta funge da campo di concentramento per l’invio degli ebrei italiani nei lager della Germania nazista. Altri invece fuggono altrove per non fare più ritorno. Altri ancora si disperdono nelle campagne per nascondersi, potendo contare su una fitta rete di solidarietà messa in piedi dai maremmani, alcuni dei quali sarebbero stati poi nominati “Giusti tra le Nazioni” dallo Yad Vashem.
Terminata la guerra, la comunità ebraica di Pitigliano, che aveva animato quel centro storico noto a tutti come la “piccola Gerusalemme” proprio perché fortemente caratterizzato dalla loro presenza, era stata quasi completamente azzerata: ancora oggi conta poche unità, benché non manchino i progetti di valorizzazione del loro patrimonio plurisecolare.
“Terra situata singolarmente sopra un masso di tufo in mezzo ad una stretta vallata, con terreni fertilissimi, coltivati a viti e frutti, con pochi benestanti, ma vi è un gran numero di ebrei che vi hanno sinagoga, e massai che fanno un traffico di pannine collo Stato del Papa; il popolo vi è ardito, querulo e litigioso”: così si legge in una relazione di Pietro Leopoldo di Toscana del 1773, che insiste sui topoi che storicamente hanno accompagnato Pitigliano. Vale a dire: la sua incredibile posizione, la fertilità dei suoi terreni (e, in certa continuità, la salubrità dell’ambiente, su cui il granduca sarebbe tornato successivamente, in un altro rapporto: un elemento molto importante, in secoli in cui la Maremma era “terra amara” di paludi malsane), la povertà degli abitanti, la presenza degli ebrei.
Veduta di Pitigliano. Ph. Credit |
Interno della Sinagoga di Pitigliano. Ph. Credit Musei di Maremma |
Via Zuccarelli, cuore del ghetto ebraico di Pitigliano. Ph. Credit |
Ghetto di Pitigliano, un cancello a forma di candelabro ebraico. Ph. Credit |
Ma perché questa folta presenza? C’è da tornare alla metà del Cinquecento, quando Pitigliano era una contea indipendente, feudo degli Orsini, terra di confine tra il Granducato di Toscana, il Ducato di Castro e lo Stato Pontificio, e godeva di diversi privilegi, tra cui quello di poter accogliere (seppur con alcune limitazioni) cittadini di altri paesi che erano stati cacciati dai loro territori. I provvedimenti restrittivi emanati dallo Stato Pontificio negli anni Cinquanta del Cinquecento e da Cosimo I di Toscana nel 1570 costrinsero molti ebrei di quelle aree d’Italia a lasciare le loro terre, e dal momento che a Pitigliano avrebbero trovato un luogo dove poter vivere e lavorare in pace, ecco che molti di loro si trovarono a convergere sul borgo maremmano (dove forse gli ebrei vivevano già da tempi più antichi, ma di certo non erano così tanti, e le origini di tale presenza sono ancora tutte da scoprire).
Fu per secoli una minoranza operosa, che si diede alle attività bancarie, al commercio, all’artigianato. In questi secoli, gli ebrei di Pitigliano, ha scritto lo storico Renato Salvadori, “mostrano una vitalità e un’intraprendenza sconosciuta ai goym, ai non ebrei. Comprano e vendono tessuti (pannine, come si diceva allora) e ogni altro genere di mercanzia, si fanno appaltatori di tabacco e di carta, prestano a interesse in forme più o meno legali, rassettano vestiti usati, tentano l’escavazione di minerali, progettano manifatture, fanno i sarti o i calzolai, stipulano contratti di soccida, trafficano in grano e in valuta straniera, praticano il contrabbando, acquistano terreni, vigne, case, cantine, oggetti preziosi. In una parola: arricchiscono”.
Dove trovare oggi le loro tracce di questa comunità che, poco prima dell’Unità d’Italia, era arrivata a costituire circa un quarto della popolazione di Pitigliano, mentre oggi non rimangono che pochi ebrei che si contano sulle dita delle mani? Il viaggio nella Pitigliano ebraica può partire dalla cinquecentesca Sinagoga e dall’annesso Museo ebraico, per poi proseguire nel ghetto istituito nel 1622 dai Medici, che subentrarono dopo la caduta degli Orsini (il ghetto è il quartiere che si sviluppa lungo l’odierna via Zuccarelli), e poi ancora la cantina kasher, il forno degli azzimi, la tintoria, il cimitero ebraico. Sopravvivenze tangibili si trovano poi nella cucina, e in particolare nel tipico dolce locale, lo “sfratto”.
La Pitigliano cattolica (anch’essa di forti tradizioni, anche per il fatto che qui vicino, a Sovana, nacque uno dei papi più rilevanti del Medioevo, Gregorio VII), nonché quella “istituzionale”, si sviluppano invece sull’asse parallelo, via Cavour, che poi proseguendo prende i nomi di via Roma, via Generale Orsini e via Aldobrandeschi. S’apre all’inizio di via Roma la piazza della Repubblica, il punto d’accesso alla parte più antica del borgo: qui si trova il severo Palazzo Orsini, che accoglie il museo d’arte sacra. All’interno, opere di artisti di scuola senese (Jacopo della Quercia su tutti, ma c’è anche una folta rappresentanza di quell’importante e sottovalutata scuola senese del Seicento che vide alla sua testa il grande Francesco Vanni, di cui si conserva una straordinaria Madonna del Rosario con santi nel Duomo), tele settecentesche di Francesco Zuccarelli, tra i più noti pittori maremmani di sempre, una biblioteca con incunaboli, e il reliquiario col braccio di Gregorio VII, opera a cui i pitiglianesi tengono molto.
Palazzo Orsini. Ph. Credit |
Gli archi dell’Acquedotto Mediceo. Ph. Credit Matteo Vinattieri |
Il Duomo di Pitigliano |
La chiesa di San Rocco. Ph. Credit Hans Peter Schaefer |
Voltando lo sguardo, s’incontrano gli archi dell’Acquedotto Mediceo: lo vollero i granduchi di Toscana negli anni Trenta del Seicento. L’esuberante facciata tardobarocca della Cattedrale, dedicata ai santi Pietro e Paolo, si trova poco più avanti: tripartita, con le sezioni scandite da imponenti lesene, ricchissima di stucchi, chiusa da un alto timpano con un bassorilievo in marmo di Carrara con al centro la Vergine Assunta e ai lati i santi Rocco e Francesco. Si prosegue, e s’incontra il piccolo oratorio di San Rocco, che oggi ci appare nella sua elegante veste rinascimentale, con una facciata ordinatissima e geometrica, ma che in realtà risale al XII secolo ed è probabilmente la più antica chiesa del centro storico di Pitigliano. Continuando, via Aldobrandeschi finisce con una terrazza panoramica da cui si gode la vista che offre questa scoscesa rupe di tufo sulle valli circostanti. E l’unicità di questi paesaggi è nota da tempo. Non solo il succitato Pietro Leopoldo aveva parlato di questa terra “ariosa, ventilata” e sana in occasione del suo viaggio: varrà la pena riprendere le parole del celebre geografo Luigi Vittorio Bertarelli che, nella sua guida all’Italia Centrale pubblicata nel 1923, parlava di Pitigliano, “sorgente sull’alto banco di tufo completamente isolato”, come di una “apparizione fantastica nella tranquillità del paesaggio”.
Articolo scritto dalla redazione di Finestre sull’Arte per la campagna “Toscana da scoprire” di UnicoopFirenze
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