È di una naturalezza scontata e disarmante trovarsi a girare tra i luoghi di Ravenna e portare il naso all’insù, aggrovigliando lo sguardo tra i mosaici dorati fino ad arrivare, più o meno morbosamente, al punto più alto in cui l’occhio si perde e confonde i tracciati. Ma è guardando verso il basso che si scoprono segreti altrettanto interessanti e flebilmente sussurrati come quello del labirinto alla Basilica di San Vitale. “C’è un labirinto raffigurato sul pavimento di fronte all’altare”, scriveva Gustav Klimt alla madre durante uno dei viaggi che intraprese proprio a Ravenna: “è un percorso di purificazione che conduce al centro del tempio e che quando lo si percorre fa sentire più leggeri”. Non sarà solo l’opulenza dell’oro, dunque, ad affascinare l’artista viennese, ma anche la geometrica trama che si srotolava sotto i suoi piedi.
È un esercizio che sfida l’acutezza della vista poiché la basilica di San Vitale rappresenta inequivocabilmente un’eccellente opera di un’epoca che segna la transizione dalla dominazione ostrogota all’inizio del dominio bizantino in Italia, seguendo la conclusione della guerra goto-bizantina. La sua edificazione, inaugurata nel 525, trovò la sua consacrazione nel 547 sotto l’egida dell’arcivescovo Massimiano e si inserisce in modo distintivo nella tradizione bizantina, adottando una pianta ottagonale protetta da un nucleo centrale, sormontato da una maestosa e delicata cupola. Il nucleo centrale si sviluppa ulteriormente nella zona del presbiterio, dove l’altare trova la sua collocazione, culminando in un’abside che abbraccia lo stile ravennate, con una forma circolare interna e un esterno poligonale. Nonostante il suo avvio durante il periodo ostrogoto, sotto la protezione di Teodorico e il finanziamento del rinomato banchiere ravennate Giuliano Argentario, la basilica rivela chiare influenze bizantine e ciò non sorprende, considerando i profondi legami di Ravenna con Bisanzio fin dai tempi di Galla Placidia e l’esperienza giovanile di Teodorico come ostaggio a Bisanzio.
Divergendo dall’approccio architettonico delle strutture romane e romaniche, le costruzioni bizantine evitano la massiccia muratura con pilastri possenti, volte profonde e ampie arcate, ma piuttosto mirano a comunicare una sensazione di leggerezza ed eleganza: le pareti, perforate da finestrature consentono alla luce di filtrare da ogni lato senza creare netti contrasti tra zone illuminate e ombre e i mosaici che adornano le pareti, assumendo tonalità dai vividi colori delle tessere vitree e dall’oro sfavillante degli sfondi.
Proprio all’interno dell’area ottagonale si scopre una pavimentazione affascinante, dove lo sguardo dell’osservatore si posa sulla raffinata rappresentazione del labirinto dalla forma circolare che trae origine dalla figura suggestiva di una conchiglia. Dal diametro di quasi tre metri e mezzo, questo motivo iconografico divenne parte integrante della basilica dopo la ristrutturazione del pavimento marmoreo fortemente voluto dai monaci benedettini di San Vitale tra il 1538 e il 1545. La pavimentazione non venne rifatta solamente per mero vezzo estetico, ma per alzare il piano di calpestio di 80 centimetri per provare a contrastare le frequenti inondazioni causate dal progressivo abbassamento dell’intero edificio religioso.
L’elaborata opera di ristrutturazione legittimò l’impiego di pregiati marmi antichi, i quali trovarono nuova vita sia nel complesso labirinto che nella sontuosa decorazione del pavimento basilicale. Materiali nobili come il pregiato porfido rosso, il serpentino, il giallo antico, il raffinato nero di Paragone, il pregiato marmo di Verona e il sontuoso cipollino rosso furono accuratamente selezionati. Il labirinto, così come l’intero pavimento, vennero ulteriormente abbelliti dall’inclusione di paste vitree dai cromatismi vivaci delineando con precisione il percorso circolare dei triangoli isosceli in marmo bianco che conducono alla conchiglia e arricchendolo ulteriormente mediante l’inserimento dell’opus scutulatum: uno sfondo impreziosito da un raffinato disegno prospettico di cubi.
Tutto questo riesce a condurre l’osservatore alla meditazione mentre prova a trovare l’uscita, ma è bene ricordare come dietro la rappresentazione del labirinto cristiano unicursale non si celi alcun inganno; piuttosto emerge la consapevolezza, sia per chi si avventura all’interno che per chi ne percorre l’uscita, di poter arrivare al dialogo con il divino. Ed è così che i labirinti murali verticali, impassibili e quindi puramente simbolici ed evocativi, insieme a labirinti pavimentali offrono un’alternativa valida al viaggio fisico e si configurano come metafora del pellegrinaggio inteso come mezzo di salvezza.
A partire dalle miniaturizzate opere carolingie del IX secolo, il labirinto assume un’importante impronta cristiana dando impulso alla sua tangibile materializzazione entro vari edifici di culto di impronta gotica. Tale metamorfosi sottolinea un’incorporazione graduale del simbolismo labirintico nel tessuto culturale e architettonico dell’epoca, immergendo le sue radici in una sofisticata tradizione iconografica e manifestandosi, quindi, come un simbolo di convergenza tra la dicotomia tra vita e morte, bene e male, innalzandosi come emblema dell’insaziabile ricerca di un qualche tempo infinito. Partendo dal mito di Teseo, che trionfa grazie alla determinazione razionale di Arianna, arrivando all’età barocca che introduce il labirinto multicursale, simbolo dell’umano capace di sperimentare e padrone del proprio destino, passando al contesto cristiano in cui Satana può essere sconfitto unicamente attraverso la forza della fede in Cristo, si scopre quanto i labirinti siano così intensamente permeati di valori e significati che si somigliano.
Da sempre, il labirinto incarna la complessità rischiosa del mondo, riflettendo su vita e morte, bene e male, perdizione e redenzione: si erge come emblema supremo dell’assenza di limiti che si apre verso una dimensione nuova, ancora da esplorare per noi esseri finiti e limitati. Chi si avventura o contempla il labirinto diventa consapevole che il confine tra umano e divino, tra finito e infinito, è misteriosamente permeabile e non a caso, la sua sola apertura ci attrae irresistibilmente al passaggio.
Il labirinto della basilica di San Vitale, tuttavia, non rientra nella categoria di quelli che inducono smarrimento, ma il percorso che appare ai piedi del viandante è predefinito e conduce ineluttabilmente dalla conchiglia al cuore della trama. Appare quindi come simbolo di pellegrinaggio delle anime verso la Terra Santa e il suo centro incarna la destinazione finale, l’apice degli intricati legami spirituali con il divino, rappresentando il culmine del cammino del fedele in cui la conchiglia è sintesi del pellegrinaggio.
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