Esplorare il concetto del labirinto comporta un’immersione in qualcosa di ancestrale e, forse, tanto antico quanto la stessa trama della storia umana. Significa avvicinarsi a un simbolo che presumibilmente ha tenuto salda compagnia all’umanità fin dai suoi albori, e al quale oggi si attribuiscono una molteplicità di significati. Sebbene siano stati intrapresi molteplici sforzi interpretativi, l’etimologia della parola “labirinto” rimane, sfortunatamente, avvolta nell’oscurità, ma forse fu proprio la veste intrinseca del labirinto, così sfuggente ed estremamente ambigua, ad attrarre il diplomatico Agostino Giusti (Verona, 1548 - 1615) nel corso del Cinquecento, quando decise di far creare il suo personale dedalo.
Durante il XVI secolo, la potente famiglia Giusti fece erigere un sontuoso palazzo e uno spettacolare giardino all’italiana dopo essersi trasferita a Verona, partendo dalla Toscana, verso la fine del Duecento, inserendosi nell’industria della tintura della lana. Tale industria all’epoca costituiva la principale fonte di ricchezza per la città scaligera e, così, nel 1406 il capofamiglia Provolo Giusti riuscì ad acquisire un terreno situato nelle vicinanze dell’antica via Postumia, la quale rappresentava il fondamentale collegamento viario da est a ovest nella pianura padana.
In questa zona, lungo le antiche mura cittadine, la famiglia utilizzò gli spazi dell’attuale giardino per due secoli, ed essi furono per molto tempo dedicati all’ebollizione dei calderoni utilizzati per il trattamento della lana e all’asciugatura dei tessuti. Nel corso del XVI secolo, ciò che inizialmente era un centro produttivo si trasformò, grazie principalmente ad Agostino Giusti, in un sontuoso palazzo di rappresentanza che seguiva lo stile dell’architetto e urbanista Michele Sanmicheli. Il ricco Agostino era un uomo colto con un’immensa passione per la musica e la pittura e, non meno importante, intesseva fitte relazioni con le famiglie Medici e Asburgo.
L’antico palazzo Giusti mantiene ancora oggi il suo status di dimora privata e non è aperto al pubblico, sebbene occasionalmente alcune delle sue stanze possano ospitare eventi culturali, mentre il giardino rimane spesso accessibile dalle prime luci dell’alba fino al crepuscolo diventando l’indiscusso protagonista. Attraversando l’imponente entrata, presidiata da due maestosi obelischi, ci si ritrova immersi in un lungo viale di cipressi secolari che conduce dal palazzo fino al colle di San Zeno. Proprio di questi cipressi scrisse l’illustre enciclopedista, antropologo francese Charles de Brosses, conte di Tournay, nel suo diario epistolare del viaggio compiuto in Italia tra il 1739 e il 1740, e li descrisse come “incredibilmente alti e aguzzi, piantati in tutto il giardino, danno al luogo l’aspetto di uno di quei posti in cui i maghi tengono il Sabba”. Ed è all’ingresso del giardino che spicca il cipresso più imponente, conosciuto anche come il “cipresso di Goethe”. Un albero, questo, che raggiunge i 25 metri di altezza e una circonferenza di 4 metri, che farebbe presupporre un’età superiore ai 500 anni. L’anziano arbusto prese il nome del poeta tedesco grazie a una leggenda alquanto singolare: si narra, infatti, che quando il giovane dimorò nel palazzo udì la storia secondo cui le fronde verdi del cipresso donassero la fertilità. Goethe credette così tanto in questa antica tradizione da raccogliere e conservare alcuni rametti dell’albero, sperando fossero efficaci amuleti per la virilità maschile.
Alla fine dell’incantato viale dei cipressi, sorge una collinetta con una grotta sovrastata da un grande mascherone mostruoso di pietra, simile a quello presente nel Parco dei Mostri di Bomarzo, coronato da una terrazza belvedere che veniva utilizzato dal diplomatico e mecenate Agostino Giusti per impressionare gli ospiti, facendo fuoriuscire lingue di fuoco dalle narici e dalle fauci.
La grotta, inoltre, era progettata per turbare i visitatori con specchi ed echi di scrosci d’acqua, ma era il labirinto arboreo in bosso la vera “trappola” del giardino. I dedali arborei cinque-seicenteschi hanno radici nei giardini dei conventi e castelli medievali, come testimoniano varie fonti letterarie. Questa pratica, apparentemente inconsueta per gli stereotipi dell’epoca, potrebbe derivare da influenze orientali, bizantine e arabe, e rappresenta un’evoluzione degli orti ed erbari conventuali. Contrariamente all’immagine comune di guerrieri truci, gli uomini del Medioevo si dedicavano anche a decorare le proprie dimore con questi giardini-labirinto, creando spazi complessi e intriganti. Il ricco mecenate Agostino Giusti era innamorato di tutto ciò che era gradevole alla vista, ma soprattutto divertente e, nonostante le siepi del suo labirinto non fossero mai tanto alte da fagocitare il visitatore in un mondo fatto di lussureggiante fogliame, era difficilissimo e a tratti quasi impossibile trovarne l’uscita. Al suo interno, infatti, rimase intrappolato persino l’enciclopedista Charles de Brosses, che vagò per ore alla disperata ricerca dell’uscita.
Purtroppo ad oggi non ci perviene l’originale cinquecentesco di Agostino Giusti, ma un esemplare del 1786 progettato da Luigi Trezza, con una pianta quadrata a otto ordini, simile a quella dei labirinti dei mosaici romani, che conserva diligentemente l’atmosfera del giardino originale che è comunque considerato uno fra i tre soli labirinti storici sopravvissuti in tutta Italia.
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