È poco nota la tragica storia del Campo di internamento di Renicci, situato nel comune di Anghiari, in Valtiberina: eppure rappresenta uno degli episodi più drammatici e meno conosciuti della storia italiana durante la Seconda Guerra Mondiale. Il campo, ufficialmente Campo di internamento n. 97, si trovava in località Renicci, frazione di Anghiari, fu attivo dal 1942 (il primo arrivo è datato 10 ottobre) al 1943, e fu utilizzato per internare civili e militari jugoslavi, soprattutto provenienti dai territori della Jugoslavia occupati dall’Italia.
Dopo il 25 luglio 1943, vennero rinchiusi a Renicci anche alcuni anarchici che erano reduci dalla guerra di Spagna, e che furono trasferiti qui dalle isole di Ustica, Ventotene e Ponza (dove si trovavano carceri in cui vennero imprigionati diversi oppositori politici). Questa struttura, inizialmente poco nota, ha avuto un impatto significativo non solo sulle vite dei detenuti, ma anche sulle comunità locali e sulla memoria storica collettiva.
Dopo l’occupazione italiana di ampie parti della Jugoslavia, conseguente alla firma dell’armistizio tra il Regno di Jugoslavia e le Potenze dell’Asse nel 1941, la situazione nei Balcani divenne rapidamente insostenibile. Le forze partigiane, composte da elementi comunisti e nazionalisti jugoslavi, iniziarono a opporsi con forza all’occupazione, organizzando una guerriglia diffusa. Di fronte a questa resistenza, il regime fascista italiano adottò politiche di repressione violenta, che comprendevano arresti di massa e la deportazione di civili ritenuti collaboratori dei partigiani o potenziali fiancheggiatori.
Il governo fascista decise così di allestire campi di internamento in varie parti d’Italia, dove inviare queste persone provenienti dai territori jugoslavi occupati. Uno di questi campi fu proprio quello di Renicci, creato nel settembre del 1942. La scelta della Valtiberina, una zona relativamente isolata e distante dai grandi centri abitati, si rivelò tristemente strategica per contenere un numero considerevole di prigionieri senza troppe interferenze dall’esterno.
Il Campo di Renicci era ubicato in una località collinare, a circa 10 chilometri dal centro di Anghiari. La struttura, composta da baracche rudimentali suddivise in tre settori da 12 baracche ciascuno, vide rinchiusi al suo interno, nel momento di massimo affollamento, più di 4.000 detenuti, uomini in età dai 12 ai 70 anni: i prigionieri dormivano in baracche mal riscaldate (250 prigionieri per ogni baracca, e nel periodo di massima affluenza la capacità massima venne superata, tanto che venne allestita una vera tendopoli con tende da 12 prigionieri ciascuna), senza letti adeguati e spesso senza coperte. La mancanza di cibo era un problema costante, con razioni minime che causavano malnutrizione e decessi. Le malattie erano diffuse a causa delle scarse condizioni igieniche e della mancanza di assistenza medica adeguata. Mancava inoltre acqua potabile, non c’era riscaldamento, quando pioveva il fango invadeva il campo. Nel giro di un anno, si contarono a Renicci circa 150 decessi, per lo più a causa delle condizioni di vita estreme, insostenibili.
I detenuti erano per lo più civili. La loro unica “colpa” era quella di essere sospettati di simpatie filo-partigiane o di avere legami con i movimenti di resistenza jugoslavi. Anche se ufficialmente non si trattava di un campo di concentramento nel senso più stretto del termine, le condizioni a Renicci erano tali da farlo assomigliare a una prigione di punizione e di tortura psicologica, dove i prigionieri soffrivano il freddo, la fame e la disperazione.
Diverse testimonianze di sopravvissuti al Campo di Renicci forniscono un quadro vivido delle sofferenze patite dagli internati. Un aspetto importante della vita del campo era la resistenza dei prigionieri, che cercavano in vari modi di mantenere la loro dignità nonostante le privazioni. Questo soprattutto grazie alla presenza degli anarchici che, decisi a non sopportare i soprusi delle guardie fasciste, non di rado si ribellavano ai loro carcerieri, e il loro atteggiamento d’insofferenza comportò qualche miglioramento delle condizioni di vita nel campo, pur nel contesto di una disciplina ferrea, insopportabile, ai limiti della brutalità, imposta dal comandante del campo, il colonnello Giuseppe Pistone.
Le testimonianze raccolte negli anni successivi descrivono anche l’atteggiamento della comunità locale, con gesti come il passaggio di cibo in clandestinità, anche se questi atti erano sporadici e insufficienti a migliorare in modo significativo la vita degli internati. “La popolazione”, ha scritto lo storico Giuseppe Bartolomei, “aveva una simpatia istintiva verso quella gente sconosciuta. Era il sentimento della sofferenza ad accomunare i semplici. A volte, qualche donna con la scusa di far l’erba nei campi più prossimi, approfittando della distrazione, vera o no, delle sentinelle, buttava una mezza pagnotta oltre il recinto. Anche se era come buttare una goccia nel mare, quel gesto ricollegava quegli esseri aggrappati al reticolato, con gli altri. Infrangeva la separazione”.
Nande Vidmar (Ferdinand Vidmar; Trieste, 1899 – Lubiana, 1981), uno dei maggiori artisti sloveni del primo Novecento, e suo fratello Drago Vidmar (Mattuglie, 1901 – Lubiana, 1982), anche lui artista, furono tra gli internati nel campo di concentramento di Renicci. I due ebbero modo, coi loro disegni, di documentare la vita nel campo. Nande e Drago Vidmar, che peraltro avevano già subito un periodo di detenzione nel campo di Gonars (e anche lì non mancarono di disegnare), utilizzarono l’arte come mezzo per testimoniare ed elaborare l’esperienza vissuta.
Fu in particolare Nande Vidmar a realizzare ritratti di detenuti, gruppi di internati, ma anche vedute del campo o del paesaggio che si vedeva al di là del campo. Realizzava anche prodotti più piccoli, solitamente souvenir. Nande era solito donare ai suoi compagni di prigionia i ritratti realizzati: alcuni volevano un ricordo per sé o per i propri parenti, in modo da conservare la loro immagine nel caso non fossero riusciti a sopravvivere alle dure condizioni del campo. Ci sono poi, anche se sono più rari, disegni che raffigurano prigionieri del campo moribondi oppure morti.
I disegni di Nande Vidmar realizzati dopo l’esperienza del campo di internamento a Renicci rappresentano principalmente la brutalità, la sofferenza e la disumanizzazione che lui e gli altri internati furono costretti a subire. Attraverso linee intense e immagini spesso cupe, Vidmar cercò di catturare la drammaticità delle condizioni di vita nel campo. Anche prima dell’inizio della guerra, Nande Vidmar e suo fratello Drago erano due artisti molto espressivi, drammatici. Questa carica, paradossalmente, si attenua però nei disegni realizzati nel campo: probabilmente i due fratelli intendevano impregnare i loro disegni di un’aura di quell’umanità che era sconosciuta ai loro carcerieri.
Non furono i disegni le uniche opere che Nande e Drago Vidmar realizzarono durante la loro prigionia. A Renicci esisteva infatti una baracca laboratorio dove gli internati realizzavano piccoli lavori di artigianato: si trattava per lo più di lavorazioni necessarie al fabbisogno dei prigionieri (per esempio riparazioni sartoriali), ma era stato impiantato a Renicci anche un laboratorio di arti varie, coi manufatti che venivano venduti alla popolazione locale e il ricavato utilizzato per la gestione del campo. Al Museo Nazionale di Lubiana è conservato un drago di lamiera e osso che Nande Vidmar realizzò proprio in questo contesto.
Il campo di Renicci rimase pienamente operativo fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, che segnò il collasso del regime fascista e l’occupazione tedesca dell’Italia. Anche a Renicci giungevano le notizie della caduta del regime, e i prigionieri chiesero le armi per potersi opporre agli occupanti. Il 9 settembre ci fu una ribellione da parte degli internati: in circa 400 si assembrarono cantando cori contro il regime. Le guardie del campo spararono contro i rivoltosi, si registrarono quattro feriti, e la sedizione venne momentaneamente soffocata (non solo col sangue, ma anche con le minacce: il comando del campo infatti ordinò che le razioni di cibo venissero tagliate).
La fine del campo di Renicci tuttavia era segnata. L’11 settembre un gruppo di circa dieci internati riuscì a fuggire dal campo. E tre giorni dopo, i prigionieri organizzarono tempestivamente una fuga di massa dal campo n. 97. L’occasione venne fornita dal passaggio di tre autoblindo tedesche: gli internati temevano la deportazione in Germania, così abbatterono i cancelli del campo e si diedero tutti alla fuga. Gli evasi vennero aiutati dalla popolazione locale che si rese protagonista di gesti di grande umanità, generosi e al contempo estremamente rischiosi, fornendo ai fuggitivi ogni genere di assistenza, cibo, vestiti, alloggio, spesso anche denaro. Ad Anghiari vennero fatte anche collette agli abitanti per raccogliere denaro da destinare agli jugoslavi che volevano tornare nel loro paese. A Sansepolcro si formò un comitato clandestino finalizzato ad assistere gli ex prigionieri di Renicci. Alcuni non riuscirono a sopravvivere, molti si diedero alla clandestinità tra i boschi della Valtiberina, altri ancora andarono a combattere sui fronti di guerra, alcuni furono catturati e deportati nei campi nazisti in Germania, altri si unirono alla Resistenza entrando tra le fila dei partigiani. Il campo n. 97 sarebbe stato ancora utilizzato durante il periodo della Repubblica di Salò, sebbene in maniera molto limitata.
Dopo la guerra, il campo di Renicci cadde in un lungo oblio, come accadde per molte altre strutture simili sparse per l’Italia. Solo in anni recenti si è tornato a parlare nuovamente del campo, grazie al lavoro degli storici e delle associazioni impegnate nella tutela della memoria storica. Oggi, il campo di Renicci è ricordato come un luogo di sofferenza e ingiustizia, ma anche come simbolo di resistenza morale.
Nel 2009, nell’area occupata dal campo di concentramento, è stato aperto un parco della memoria che ogni anno ospita le commemorazioni legate alla Giornata della Memoria, che qui prendono la forma del prigionieri del campo, con la partecipazione di autorità locali e nazionali, e di ex prigionieri o dei loro discendenti.
Il Campo di internamento di Renicci rappresenta una pagina oscura della storia italiana, un luogo di sofferenza che è rimasto a lungo dimenticato. Le condizioni disumane vissute dai prigionieri slavi e anarchici, la brutalità delle guardie e il coraggio di quanti che cercarono di resistere e di aiutare sono elementi cruciali di questa vicenda. Il recupero della memoria del campo di Renicci si inserisce nel più ampio sforzo di riconoscere i crimini di guerra commessi durante l’occupazione fascista e nazista. È un processo fondamentale non solo per rendere giustizia alle vittime, ma anche per educare le nuove generazioni sul valore della pace, della democrazia e dei diritti umani.