Si può dire che, nel Cinquecento, la corte dei Gonzaga a Mantova nutrisse una vera passione per i labirinti. Chi percorre la Sala dei Cavalli di Palazzo Ducale e si sofferma sulla parete est, noterà facilmente un affresco in cui viene raffigurato il monte Olimpo protetto da un labirinto d’acqua: si tratta del più antico labirinto di cui abbiamo notizia nella città gonzaghesca. Fu scoperto nell’Ottocento, dopo un restauro che riportò alla luce il dipinto: inizialmente, lo studioso Clinio Cottafavi nel 1928 lo attribuì al pittore di corte Lorenzo Leonbruno, ma venne infine assegnato, nel 2002, da Stefano L’Occaso al pittore tedesco Bartholomaus Dill Riemenschneider. Non è comunque questo l’unico dedalo di Palazzo Ducale: il più famoso è quello della Sala del Labirinto all’interno dell’Appartamento Ducale, col soffitto che presenta la decorazione che riproduce, appunto, un labirinto, proveniente da Palazzo San Sebastiano.
Si tratta di un soffitto ligneo che fu trasportato qui nel 1601, per volontà di Vincenzo I Gonzaga, che fece ristrutturare la Domus Nova di Palazzo Ducale aprendo di fatto il nuovo Appartamento Ducale, il più grande e arioso del palazzo, eseguito su progetto dell’architetto di corte (oltre che valentissimo pittore) Antonio Maria Viani, presente a Mantova sin dal 1592. Il labirinto, sistemato qui all’epoca in cui Vincenzo I combatteva in Ungheria contro i turchi, come ricorda la scritta che lo decora (“Dum sub arce Canisiae contra turcas pugnabat”, cioè “Mentre combatteva sotto la rocca di Canissa contro i turchi”), si presenta con pareti dorate su fondo azzurro, a indurre il visitatore a pensare che quello che sta osservando non sia un labirinto terrestre, bensì un labirinto celeste. I corridoi sono decorati con il motto “Forse che sì forse che no”, probabilmente allusione agli ostacoli che occorre superare nella vita per raggiungere un fine, ovviamente simboleggiati dal labirinto: il motto è tratto da una frottola amorosa del compositore e cantore Marchetto Cara, pubblicata a Venezia nel 1504. Cara, che fu attivo alla corte dei Gonzaga a Mantova oltre che presso quella dei Medici a Firenze, era uno dei principali musicisti del suo tempo: una specie di star della musica dell’epoca, e le sue frottole (il genere di canzone più in voga tra Quattro e Cinquecento) erano tra le più celebri del suo tempo.
In realtà non sappiamo bene quali siano i significati celati dal labirinto di Palazzo Ducale. La frottola di Marchetto Cara parlava di amore, e in particolare la frase alludeva alla situazione d’incertezza in cui si trova un amante che non sa se è ricambiato dalla sua amata: “Forsi che sì, forsi che no / El tacer nocer non po / Forsi che sì... / Non fi a el mondo ognhor cossì. / Forsi che sì, forsi che no / El tacer nocer non po / Forsi che sì... / Non fi a el mondo ognhor cossi. / Forsi chi ode non intende / Questo vario mio disgresso / Che tal spesso altrui riprende / Che non pensa de si stesso; / A ciaschun hogi è concesso / De parlar, salvo che a mi. / Forsi che sì, forsi che no / El tacer nocer non po. / Forsi che sì... / Non fi a el mondo ognhor cossì. / Questo mondo falso errante / Horamai è conosciuto / Pur l’amor è lo imperante / Dalo ignaro non veduto / Ogni pel fa amor canuto / Poi si vol fa anchor falo. / Forsi che sì… / Va canzon sol da coloro / Che dal mondo hanno contrasto / Che’l rubin ligato in oro / Per el gallo è tristo pasto; / Chi ha bon vento drizi el trasto / Ch’io coi remi i me ne vo. / Forsi che sì... ”. Il fatto che il labirinto provenga da Palazzo San Sebastiano e l’anno di pubblicazione della frottola inducono a pensare che l’opera risalga all’epoca di Isabella d’Este, alla quale uno dei poeti di corte, Serafino Ciminelli, noto anche come Serafino Aquilano, dedica un sonetto “sopra un laberintho che portava la marchesana de Mantova per impresa”, dove il labirinto allude alla passione amorosa: “Come alma assai bramosa e poco accorta, / Che mai visto aveva amor se non depinto, / Disposi un di cercar suo laberinto, / Vedere el monstro, e tanta gente morta. // Ma quel fil del ragion che ebbi per scorta / Del qual fu tutto el ceco loco cinto / Subito, ahimè, fu da lui rotto e vinto, Tal che mai più trovar seppi la porta. // Così fui presa, e per mio più conforto / Avesse ancor con lui la parca oscura / Tronco quel fil vital che mi fa torto. // E per monstrar che amor non ha misura / E rompe ogne ragion, pre insegna el porto / Che è manco error chi l’altrui ben procura”. Il labirinto di Palazzo Ducale potrebbe dunque non esser altro che una allegoria dell’amore e in particolare dei tormenti causati dall’amore. Ed è proprio un amore passionale e travolgente il protagonista del romanzo Forse che sì forse che no che Gabriele d’Annunzio, ispirato da una visita a Palazzo Ducale nel 1907, pubblica tre anni dopo, nel 1910: in diverse parti del romanzo peraltro il labirinto è citato, mentre i protagonisti percorrono la stanza di Palazzo Ducale.
Tutte queste suggestioni forniranno lo spunto per un vero labirinto di verzura che viene realizzato negli anni Trenta del Novecento alle porte di Mantova: si tratta del labirinto del Bosco Virgiliano, il parco pubblico che venne aperto negli anni del regime fascista per celebrare il bimillenario della scomparsa di Virgilio, il grande poeta mantovano. Il Bosco Virgiliano si estende su di un’area di cinque ettari situata tra il fiume Mincio e il quartiere di Palazzo Te: l’ingresso si trova lungo la trafficata statale che conduce verso il centro di Mantova, a pochi passi da viale Te. In virtù della sua collocazione, un poco lontana dal centro, non è tra i luoghi più frequentati della città, ma si tratta comunque di un’area verde di grande pregio, anche in virtù delle tante operazioni di riqualificazione che lo hanno interessato di recente, a partire dalla piantumazione di 90 nuovi alberi nel novembre 2022 e dalla dotazione di un nuovo, moderno impianto illuminotecnico con illuminazione adattiva realizzato da TEA Rete Luce srl: il nuovo impianto riduce i consumi quando nessun passante si trova nell’area, grazie a una rete di telecamere sensori installate da Bosch, che rilevano le presenze e adattano dunque la luce secondo la frequentazione del parco, riducendo in questo modo anche l’inquinamento luminoso. Il Bosco Virgiliano è oggi un grande parco che accoglie quasi tremila alberi (tra cui cinquecento conifere) e circa quindicimila arbusti di diverse specie, uno dei principali polmoni verdi della città.
Il progetto risale alla fine degli anni Venti e si deve all’architetto piemontese Giuseppe Roda (Racconigi, 1866 – Torino, 1951), che aveva una lunga esperienza in progettazione degli spazi verdi (aveva già lavorato nelle regge dei Savoia e al Quirinale): fu lui a vincere il concorso a inviti che nel 1929 il Comune di Mantova, su iniziativa di Arnaldo Mussolini, fratello di Benito e all’epoca presidente del Comitato Nazionale Forestale, aveva indetto per assegnare l’incarico di progettare il Bosco Virgiliano sull’area di proprietà demaniale che però il Comune aveva ricevuto in concessione. Roda, per la progettazione del suo grande giardino, si ispirò ai boschetti delle regge rinascimentali, immaginando un parco che ospitasse tutte le essenze botaniche citate da Virgilio nelle sue opere: varcato il cancello, ci si trova in un ampio viale monumentale, di circa 700 metri di lunghezza, costeggiato da due lunghe file di pioppi cipressini, che conduce verso una piazza circolare al centro della quale sorge il busto di Virgilio, collocato al centro del parco in omaggio al poeta. Dalla piazza partono a raggiera i sentieri che portano nel bosco propriamente detto, e poco distante, si trova il labirinto, che presenta una struttura del tutto simile (benché ingrandita) a quella del labirinto del soffitto di Palazzo Ducale.
Con la volontà di rifarsi ai labirinti di verzura seicenteschi, Giuseppe Roda immaginò un labirinto le cui pareti fossero formate da essenze arboree, e scelse una specie molto particolare, il carpino bianco (carpinus betulus delle betulacee) poi sostituito dall’amministrazione nel 1981 con il lauroceraso, che però venne a sua volta definitivamente rimpiazzato nel 2012 col ritorno alla pianta originaria, dopo che il parco era caduto in uno stato di degrado. Il carpino bianco che dunque ancor oggi forma il labirinto è una specie autoctona, una pianta tipica della Pianura Padana che ha una particolarità: pur essendo un’essenza a foglia caduca, le foglie non si staccano dalla pianta durante l’inverno, ma rimangono attaccate ai rami (verranno poi sostituite dalle nuove gemme in primavera). Di conseguenza, nei mesi freddi, il labirinto non perde le foglie ma assume le colorazioni tipiche dell’autunno, e per questa ragione il carpino bianco veniva scelto spesso nei giardini barocchi. Una peculiarità che fa spiccare dunque il labirinto di Bosco Virgiliano tra i tanti labirinti di verzura che oggi si possono visitare in Italia.
Inoltre, anche il percorso del labirinto (che è uno dei più grandi d’Italia) è molto particolare, perché non si tratta di un labirinto a percorso obbligato, dotato di un solo ingresso che conduce irrimediabilmente verso il centro. Gli ingressi sono ben quattro, e può darsi l’eventualità che scegliendo una pista non si raggiunga il centro del dedalo, ma si sbuchi fuori dall’ingresso opposto, dato che non necessariamente i percorsi sono collegati al centro (per avere un’idea è possibile osservare un bel video realizzato da Gravel Club). Può dunque accadere che, a un certo punto, il percorso riporti il visitatore suoi suoi passi e lo conduca fuori dal labirinto: c’è infatti una sola via che conduce al cuore. E sta al visitatore trovarla... !
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