Si trova tra il verde dei Colli Euganei il più antico labirinto di verzura esistente al mondo: è il labirinto di Villa Barbarigo a Valsanzibio, una frazione di Galzignano Terme, situata ai piedi del monte Gallo che si eleva per 385 metri sul livello del mare. La villa esisteva già nel XV secolo ed era proprietà dei Contarini, una delle più illustri famiglie di Venezia. Passò ai Barbarigo alla fine del Cinquecento, e la storia del complesso, a questo punto, diventa decisamente singolare: il nobile Giovanni Francesco Barbarigo (a volte indicato alla veneta, come “Zuane” Francesco Barbarigo), volle circondarla di un maestoso giardino simbolico, caso raro nel nostro continente, da leggere e soprattutto da percorre come un percorso di purificazione. Il giardino è infatti un colossale ex voto: la famiglia Barbarigo era riuscita a scampare alla peste del 1630-1631, quella narrata da Manzoni nei Promessi Sposi, rifugiandosi proprio nella valle di Sant’Eusebio (da qui il nome “Valsanzibio”) sui Colli Euganei, e Giovanni Francesco, che aveva da poco acquistato villa e terreno, per ringraziare Dio d’aver salvato lui e i suoi figli (la moglie, purtroppo, era venuta a mancare prima della decisione di lasciare Venezia dove infuriava il morbo) decise di avviare l’impresa.
Il giardino che circonda la villa, dunque, non venne realizzato per dimostrare il prestigio della casata, ma per rendere gloria al Signore. Doveva pertanto avere uno scopo spirituale, più che uno scopo ludico. Zuane Francesco, tuttavia, morì prematuramente e non riuscì a veder finito per tempo il lavoro: furono quindi i suoi figli, Antonio e Gregorio (quest’ultimo diventato cardinale e poi canonizzato nel 1960 da Giovanni XXIII, oggi è venerato dunque come santo dai cattolici), a porre fine ai lavori da lui cominciati. Così, nel 1669, il giardino, progettato dall’architetto pontificio Luigi Bernini (Roma, 1612 – 1681), fratello minore del più noto Gian Lorenzo Bernini, poteva finalmente dirsi concluso. Dopo l’estinzione del casato Barbarigo nel 1804, la villa e il suo giardino passarono agli eredi: prima i Michiel, poi i Martinengo da Barco, poi ancora i Donà delle Rose e infine i Pizzoni Ardemani, che sono oggi i proprietari di Villa Barbarigo.
L’itinerario di purificazione nel giardino di Villa Barbarigo comincia dal Padiglione di Diana, una sorta di grande facciata in stile barocco, che costituiva l’ingresso al giardino passando per le vie d’acqua (anticamente infatti Valsanzibio si poteva raggiungere direttamente in barca da Venezia). Il percorso intreccia spiritualità cristiana e mitologia: Diana, dea della caccia, è infatti ritenuta patrona del giardino e viene considerata anche una sorta di rappresentante di Dio sulla terra. Si attraversa il padiglione attentamente osservati dal mascherone barbuto che allude alla famiglia Barbarigo e si giunge nel Teatro d’Acque, alimentato da acqua nuova e pura, simbolo dell’inizio del percorso e della liberazione dal peccato, dal momento che si lascia l’acqua stagnante che ha condotto il visitatore al Padiglione di Diana. Si abbandona dunque l’acqua e s’incontra l’aria nella Peschiera dei Venti, simbolo della prosecuzione del percorso di purificazione, che investe qui il visitatore con aria fresca e pulita. Si giunge in seguito nel cuore del giardino, dove si trova la Fontana della Pila, il centro esatto del parco, da dove comincia il percorso attivo del visitatore, che adesso è chiamato a cimentarsi in prima persona con quello che il giardino gli presenta, a cominciare dal labirinto.
Nei pressi dell’entrata, le statue di Argo e Mercurio ammoniscono il visitatore: Argo, il guardiano del dedalo, addormentato ma impossibile da imbrogliare in quanto il suo corpo è interamente punteggiato di occhi che vedono qualsiasi cosa (e nonostante Argo dorma alcuni occhi rimangono aperti), simboleggia la coscienza del visitatore che non può essere ingannata, poiché non è possibile ingannare se stessi. Mercurio è intento a suonare il flauto, a significare che in questo momento non si sta dedicando agli inganni che lo contraddistinguono, e invita il visitatore a misurarsi in serenità col labirinto. Eccoci dunque nel dedalo, interamente realizzato in siepe di bosso, e risalente al 1664-1669 (le piante sono in gran parte quelle piantumate all’epoca e subiscono un’accurata manutenzione ogni anno). Lo schema riprende molto da vicino quello dei labirinti romani a meandri divisi in quattro quadranti, di quelli che si possono trovare negli antichi mosaici (come quelli di Cremona e Piadena).
Il labirinto rappresenta le difficoltà che il cristiano incontra nel suo percorso, come in tanti altri giardini in cui un dedalo viene rivestito di significati legati alla religione. Il visitatore è chiamato a compiere delle scelte che lo portino verso il centro, cercando di evitare gli ostacoli. La prima è la stessa ricerca dell’ingresso, situata in una posizione non facile da trovare, a significare che anche solo per cominciare la propria ricerca è necessaria forza di volontà, occorre esercitare la virtù. I vicoli ciechi che s’incontrano nei quadranti, sette in tutto, sono allegorie dei sette vizi capitali: fermarsi di fronte ai vicoli ciechi significa abbandonarsi alla perdizione, e dunque solo evitandoli, oppure tornando indietro sul proprio cammino, è possibile raggiungere il centro. Il percorso nel labirinto è lungo in tutto circa un chilometro e mezzo, e lo schema impone che si debbano attraversare tutti i quadranti per arrivare al centro. Ed è fatto di continui ostacoli che impongono di tornare sui propri passi, situazione che si fa metafora del cristiano che si pente dei suoi peccati, si ravvede e recupera la via della salvezza, salvo poi essere di nuovo sviato da altri errori, altri problemi da correggere, altre trappole da evitare. Solo alla fine di questo percorso si arriva al centro, dove si trova una torretta da cui si vede il dedalo dall’alto, allegoria del cristiano che riconosce il ruolo che ha sulla terra, un’acquisita consapevolezza che gli consente di proseguire il suo viaggio.
Dopo una breve sosta nella Grotta dell’Eremita, per riflettere e meditare sui risultati conquistati, si può continuare il percorso. Le statue raffiguranti l’allegoria della Fecondità e della Salubrità impongono di attraversare l’Isola dei Conigli, un isolotto che simboleggia la fecondità che porta le generazioni ad alternarsi e consente dunque al visitatore di superare i confini del tempo, che è impersonato da una statua che lo raffigura nelle vesti del mitologico dio Cronos: è proprio questa statua a simboleggiare lo spirito umano che riesce a travalicare spazio e tempo aprendosi dunque alla purificazione e alla salvezza. L’itinerario prosegue sul Gran Viale dove s’incontra dapprima la Fontana dei Giochi, simbolo delle insidie che si possono trovare lungo il cammino: chi si siede sulle panche attorno alla fontana, credendo di aver raggiunto la purificazione, viene infatti colpito a tradimento da schizzi d’acqua (l’opera è infatti nota anche come la Fontana degli Scherzi). La fontana è attorniata da quattro statue: le prime due sono quelle di Polifemo e Timeo, simboli rispettivamente di cecità e sconfitta, ed esortano a riflettere sulle nostre fragilità, che possono indurci a fermarci quando siamo vicini ai nostri obiettivi (come è avvenuto poco fa alla Fontana dei Giochi). Le due statue femminili sono Ope e Flora, la prima allude alla fecondità e la seconda alla primavera: sono dunque un invito a proseguire il cammino nel segno del rinnovamento.
Proseguendo lungo il Gran Viale si arriva alla Scalinata del Sonetto, dove si legge, appunto, un sonetto, di cui non conosciamo l’autore (forse lo stesso Gregorio Barbarigo), ma che racchiude il senso del percorso (e siamo costretti a leggerlo poiché alcuni zampilli ci sbarrano il cammino): “Curioso viator che in questa parte / Giungi e credi mirar vaghezze rare / Quanto di bel, quanto di buon qui appare / Tutto deesi a Natura e nulla ad Arte // Qui il sol splendenti i raggi suoi comparte / Venere qui più bella esce del mare / Sue sembianze la Luna ha qui più chiare / Qui non giunge a turbar furor di Marte // Saturno quivi i parti suoi non rode / Qui Giove giova et ha sereno il viso / Quivi perde Mercurio ogni sua frode // Qui non ha loco il Pianto, ha sede il Riso / Della corte il fulmine qui non s’ode / Ivi è l’Inferno e quivi il Paradiso”. Siamo dunque pronti per accedere alla meta, il Piazzale delle Rivelazioni: otto statue allegoriche (Bellezza, Abbondanza, Delizia, Felicità, Riposo, Virtù o Agricoltura, Genio, Saggezza o Solitudine) attorniano la Fontana dell’Estasi, simbolo dell’avvenuta purificazione, dell’avvenuto incontro con Dio.
Considerato uno dei giardini barocchi più importanti d’Italia e d’Europa, il giardino di Villa Barbarigo dispone tutti i suoi elementi simbolici in modo da guidare il visitatore attraverso un’esperienza di riflessione e crescita personale. Oggi, Villa Barbarigo è aperta al pubblico, il suo giardino mantenuto con cura per preservarne la bellezza e il significato storico. Visitarla significa avere un’occasione unica e autentica per immergersi nella storia e nella bellezza del barocco veneto, e dentro un giardino concepito come un percorso di salvezza, all’interno di un tesoro del patrimonio italiano.
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