Diciannovesima e penultima tappa del nostro viaggio alla scoperta degli animali e dei luoghi fantastici nei musei italiani. Ci rechiamo oggi in Trentino-Alto Adige per scoprire quali creature si celano negli istituti della regione più settentrionale d’Italia. Il progetto è realizzato da Finestre sull’Arte in collaborazione con il Ministero della Cultura per portare il pubblico alla scoperta dei musei italiani, luoghi sicuri e adatti a tutti, da un punto di vista diverso dal solito. Cominciamo il nostro viaggio tra le montagne!
Affascinante opera eseguita in marmo di Carrara, la Sfinge dello scultore piemontese Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, 1859 - La Loggia, 1933) è il modello per il monumento funerario che l’artista realizzò per la famiglia Pansa nel cimitero di Cuneo, dov’è possibile vederlo, ed è conservato al Mart di Rovereto dov’è in deposito da una collezione privata. Ideato nel 1889, il monumento fu installato nel camposanto di Cuneo nel 1892. Bistolfi ha una sua particolarissima idea della sfinge, l’essere mitologico con il corpo di leone e il volto femminile: nella sua opera, infatti, la sfinge altro non è che una personificazione della morte. “L’idea originale”, spiegò nel 1896 alla giornalista inglese Helen Zimmern, “era di rappresentare con una figura simbolica la Morte, la Morte come la vediamo noi moderni; anche se non versiamo lacrime per le crudeli pene del fuoco dell’Inferno del Padre Eterno, siamo sempre disturbati ed inquietati dal pensiero inafferrabile dell’infinito sconosciuto. Nell’esprimere questa idea, quasi incoscientemente, e certamente senza premeditazione, la figura della Morte assumeva l’aspetto di una sfinge”. L’opera ebbe un grande successo: la sfinge di Bistolfi divide l’opera in due parti, quella alla sua destra colma di fiori (papaveri, crisantemi, gigli) e quela alla sua sinistra completamente vuota, allusione alla vita da una parte e alla morte dall’altra.
Non è una raffigurazione tradizionale quella che Alberto Savinio (Alberto de Chirico; Atene, 1891 - Roma, 1952) offre all’osservatore della storia di Ulisse e Polifemo, raccontata da Omero nell’Odissea: giunto alla grotta del ciclope Polifemo, l’eroe greco, fu costretto ad accecare il mostruoso e violento essere per potergli sfuggire, dopo aver già perso per sua causa alcuni suoi compagni. Nel dipinto di Savinio, la raffigurazione assume i contorni di un sogno: il momento è quello della fuga di Ulisse, che è già sulla sua nave che prende il largo. Polifemo è raffigurato come un agglomerato di oggetti decorati di varie forme e colori, mentre Ulisse è rappresentato soltanto dalla sua barca: è il modo che Savinio utilizza per contrapporre da una parte il disordine, il caos, la violenza di Polifemo e dall’altra la ragione, l’intelligenza e lo spirito di avventura di Ulisse.
Il Romanino (Girolamo Romani; Brescia, 1485 - 1566) decorò la Loggia Grande del Castello del Buonconsiglio (oggi nota anche come “Loggia del Romanino” perché totalmente legata alle sue pitture) tra il 1531 e il 1532, dietro incarico del vescovo principe Bernardo Clesio. Il potente committente desiderava un’opera fatta in economia, che evitasse soggetti sconvenienti e che soprattutto fosse di semplice lettura (tanto che mancò la figura di un intellettuale che elaborasse il programma iconografico). Sul tema, pertanto, Clesio garantì ampia libertà al Romanino, suggerendo però la realizzazione di “qualche fabula de Ovidio”. Insomma, non ci furono precise indicazioni, e il Romanino spaziò pertanto dagli episodi biblici ai soggetti mitologici fino alle allegorie. L’artista bresciano affrescò anche l’ambiente attiguo alla Loggia, il Corridoio delle Cucine, così chiamato in quanto metteva in comunicazione la Loggia con le cucine. Tra gli affreschi si nota una singolare dama con l’unicorno: raffigurazioni simili non erano rare nell’arte del Cinquecento (basti pensare alla Dama col Liocorno di Raffaello Sanzio conservata alla Galleria Borghese), poiché l’unicorno era considerato simbolo di purezza e castità (nel Medioevo si riteneva infatti che il suo corno avesse potere taumaturgico e fungesse da antidoto universale per tutti i veleni), e secondo le credenze del tempo si riteneva che, una volta incontrata una vergine, corresse verso di lei e dopo aver posato il muso sul suo grembo si addormentasse (ecco il perché della particolare posa dell’unicorno del Romanino). Sulla nostra rivista puoi trovare un approfondimento sulla Loggia del Romanino.
Un altro unicorno si può ammirare in un affresco della chiesa dei Domenicani (Dominikanerkirche) di Bolzano. È opera del pittore austriaco Friedrich Pacher (Novacella, 1440 circa - Brunico, 1508) e si trova nella lunetta della prima arcata del chiostro della chiesa. Risale all’incirca al 1496 e si presenta con un’iconografia piuttosto complessa, di origine medievale: la raffigurazione, nata in ambito profano nel Medioevo, viene qui legata all’episodio evangelico dell’Annunciazione. Vediamo infatti l’arcangelo Gabriele sulla sinistra che saluta la Vergine Maria sulla destra: l’arcangelo si presenta con quattro cani al guinzaglio (che simboleggiano la Giustizia, la Verità, la Misericordia e la Pace), con l’intento di cacciare l’unicorno. L’animale mitologico corre verso la Madonna e si appresta a essere accolto da lei: si riteneva infatti, come detto sopra, che soltanto una Vergine fosse in grado di catturarlo e ammansirlo. L’arcangelo lo spinge dunque verso di lei. Appare qui chiara, ha scritto la studiosa Laura Dal Prà, “la volontà di celebrare nell’ambito di una crescente devozione verso la figura di Maria il mistero della sua verginità declinato con una rassegna di elementi tipologici disposti attorno alla scena altrettanto simbolica dell’unicorno e la vergine”.
Secondo la mitologia greca, l’Idra di Lerna era un animale mostruoso, un grande serpente marino con nove teste in grado di uccidere solo con il respiro. Animale dotato di intelligenza sopraffina, aveva anche un’altra antipatica caratteristica per chi doveva affrontarlo: le sue teste, se recise, ricrescevano. Figlia di Tifone ed Echidna, terrorizzava gli abitanti della città di Lerna, nell’Argolide: fu uccisa da Ercole durante la seconda fatica, grazie all’aiuto di Iolao che impediva alle teste di ricrescere, cauterizzando le ferite. Fu così più agevole per Ercole utilizzare un masso per schiacciarle la testa centrale. Nel dipinto di Paolo De Matteis (Piano Vetrale, 1662 – Napoli, 1728), pittore campano tra i principali esponenti del tardo barocco, l’Idra è ormai inoffensiva, accasciata a terra, sconfitta, mentre Ercole, senza scomporsi, appoggiato alla sua clava, contempla serio e assorto il mostro, mentre riceve da un amorino una corona, simbolo di vittoria.
Quale luogo migliore di un antico castello per accogliere la raffigurazione fiabesca di un cavaliere che combatte contro un feroce drago? Il Castello di Avio, una delle fortificazioni più antiche del Trentino, accoglie infatti, nella Casa delle Guardie (uno degli edifici che lo compongono), una serie di affreschi trecenteschi raffiguranti duelli e battaglie, che dovevano servire per ricordare quali fossero gli elementi utili alla formazione del cavaliere, tra cui anche una scena che raffigura la lotta tra un cavaliere e un drago, purtroppo frammentaria (mancano le zampe anteriori del cavallo e praticamente tutto il corpo del mostro, di cui sono rimasti soltanto il collo, la testa, e un’ulteriore testa che sta minacciando le zampe posteriori dell’equino). Non sappiamo chi sia l’autore degli affreschi, probabilmente un artista trentino della metà del Trecento che si era formato a Verona ma guardava anche alla pittura d’Oltralpe. Il cavaliere con il drago richiama con tutta probabilità le raffigurazioni di san Giorgio, che nel Medioevo veniva sempre rappresentato nell’atto di salvare la principessa da un temibile drago, ed esprime il gusto cortese per le fiabe i cui protagonisti sono eroi, come il nostro cavaliere, che esprimono il loro coraggio e la loro audacia cimentandosi in imprese ai limiti dell’impossibile come, appunto, sconfiggere una creatura mostruosa.
La chiesa di San Martino a Campiglio, località appena fuori Bolzano, conserva uno dei cicli quattrocenteschi più interessanti e meglio conservati dell’Alto Adige. Non sappiamo tuttavia chi sia il loro autore. Sulla parete esterna si trova un’immagine, purtroppo molto rovinata per via della sua posizione, di san Giorgio che sconfigge il drago, salvando la principessa. Secondo la leggenda, infatti, san Giorgio si trovò a passare dalla città di Silena, in Libia, i cui abitanti erano terrorizzati da un terribile drago che doveva essere calmato con due pecore al giorno, ma quando le pecore cominciarono a mancare gli abitanti decisero di sacrificare una pecora e un giovane della città. Un giorno toccò alla figlia del re: nonostante i tentativi del sovrano per salvarle la vita, il suo destino appariva segnato. Il giovane cavaliere Giorgio, conosciuta la sorte cui andava incontro la fanciulla, la aiutò in nome di Cristo e, con il suo cavallo, affrontò il drago vincendolo con la sua lancia. Nell’affresco di Campiglio vediamo san Giorgio che si scaglia contro l’essere, già a terra, mentre la principessa assiste sullo sfondo: anche se le condizioni di conservazione della scena non sono ottimali, è interessante notare come il drago, più che a un serpente come accade il più delle volte, somigli qui a un mostruoso uccello.
Nelle sale di Castel Roncolo (Schloss Runkelstein), castello medievale che si trova sopra uno sperone roccioso nei pressi di Renon, si trova un importante ciclo decorativo trecentesco che illustra molti aspetti della vita di corte nel Medioevo, oltre a diverse favole e leggende. Tra queste, quella di Tristano che uccide il drago: la leggenda bretone di Tristano e Isotta narrava infatti che in Irlanda era stato emanato un editto reale secondo il quale chi fosse riuscito a uccidere un minaccioso drago avrebbe potuto prendere in sposa la principessa Isotta. Tristano affrontò il mostro, lo uccise tagliandogli la lingua per avere la prova dell’avvenuta impresa. Tuttavia il veleno del drago lo fece svenire, e un suo rivale, Agingherrano, portò la testa del drago al palazzo del re per prendersi il merito. Sarebbe stata poi Isotta a scoprire la verità. Nell’affresco di Castel Roncolo, Tristano è raffigurato a cavalcioni del drago proprio mentre è intento, con grande concentrazione, a tagliare la lingua del drago, afferrandola con una mano, e tenendo un coltello con l’altra. Da notare come Tristano sia catafratto della sua pesante armatura, tipica di un cavaliere medievale. L’episodio fa parte di un ciclo raffigurante le storie di Tristano e Isotta: non ci è noto l’autore degli affreschi.
Nella chiesa di San Giacomo a Termeno, placido borgo situato sulla Strada del Vino, si trova una serie di insolite raffigurazioni di animali fantastici: un centauro, un tritone, strani mostri marini tra cui uno con il corpo di uomo, la testa di cane e le zampe palmate, la rara raffigurazione di uno sciapode (un essere che si riteneva vivesse in India e fosse dotato di un piede solo, con il quale si pensava si facesse ombra), e anche una sirena con la coda di pesce doppia, che ripete un’iconografia diffusasi a partire dal IX secolo (secondo la mitologia greca, la sirena era invece metà donna e metà uccello). Gli affreschi risalgono al XIII secolo e rispondono all’idea di sistemare sulla parete della chiesa una sorta di bestiario, ovvero di raccolta di animali (in questo caso fantastici), che potevano essere legati a certi simbolismi. La sirena bicaudata (cioè dalla doppia coda) veniva spesso raffigurata nelle chiese medievali: non conosciamo bene il perché dell’insistenza su questa creatura mitologica, ma è probabile che venisse associata al peccato della lussuria.
Il karnyx era uno strumento musicale celtico (il suo uso è attestato tra il 300 a.C. e il 200 d.C.), una sorta di grande tromba che terminava con la testa di un animale, reale o fantastico. Negli anni Cinquanta del XX secolo, a Sanzeno, in Val di Non, furono trovati dall’archeologa Giulia Fogolari alcuni frammenti della canna di un karnyx: si trattava del primo ritrovamento di questo tipo nella regione (peraltro a lungo non si capì cosa fossero quei frammenti: lo si poté scoprire solo grazie al confronto con alcuni karnykes rinvenuti in Francia), e di per sé i ritrovamenti di resti di karnyx sono rarissimi. In Italia, l’unico altro ritrovamento di questo tipo è avvenuto a Castiglione delle Stiviere, nel mantovano. Per questa ragione, la Soprintendenza della Provincia autonoma nel 2008 avviò un progetto di ricerca sul karnyx ritrovato a Sanzeno, culminata poi con l’accurata ricostruzione dello strumento musicale. Si ritiene, sulla base di fonti letterarie, che il karnyx venisse usato soprattutto in battaglia, in virtù del suo aspetto imponente (raggiungeva quasi i due metri d’altezza e in più la protome a forma di animale doveva incutere timore). Lo si suonava tenendolo in verticale, in modo che il muso della belva si vedesse bene. La ricostruzione oggi presente al Museo Retico di Sanzeno è stata realizzata in bronzo presso la fucina Ervas, e si presenta con una protome a testa di cinghiale: un animale non fantastico, d’accordo, ma che in antico aveva un aspetto che lo rendeva poco realistico e simile a una creatura leggendaria.
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