Siamo giunti alla terzultima tappa del nostro viaggio alla scoperta degli animali e dei luoghi fantastici nei musei italiani. Per questo capitolo numero diciotto del nostro itinerario ci trasferiamo in Sicilia: ecco cosa abbiamo trovato sull’isola. Il progetto è condotto da Finestre sull’Arte in collaborazione con il Ministero della Cultura per far scoprire al pubblico i musei, luoghi sicuri e adatti a tutti, da un punto di vista diverso.
Il Peccato del tedesco Franz von Stuck (Tettenweis, 1863 – Monaco di Baviera, 1928), uno dei più grandi artisti del simbolismo europeo, è una delle opere più intriganti di questo importante pittore. Von Stuck raffigura una bellissima donna, a torso nudo, velata di sottile erotismo, che viene avvinghiata da un inquietante serpente che guarda dritto negli occhi l’osservatore: è il diavolo che tenta la donna, in uno scontro tra Bene e Male che è alla base del significato di questo dipinto. Esistono undici versioni di quest’opera: quella di Palermo fu acquistata proprio per la Galleria d’Arte Moderna della città siciliana quando l’artista la espose, nel 1909, all’VIII Biennale di Venezia. L’opera è inquadrata da una grande cornice con due colonne alla cui base è riportato il titolo in tedesco del dipinto: Die Suende.
Il Museo Archeologico “Antonino Salinas” di Palermo conserva un bel balsamario a forma di sirena: era un contenitore in cui venivano conservati unguenti e balsamo per il corpo. I balsamari potevano assumere le forme più disparate: in questo caso ha le sembianze di una sirena, la creatura che, secondo la mitologia antica, aveva metà corpo di donna e metà di uccello, ed era in grado d’irretire i naviganti con il suo canto melodioso. Il balsamario del museo palermitano, che si presenta con una forma non insolita (la sirena assume l’aspetto di un passeriforme, con il corpo molto allungato, e le zampe nascoste sotto il ventre, mentre il volto, quello di una bella donna, osserva il possessore dell’oggetto), proviene dal tempio della Malophoros di Selinunte. Il balsamario fu probabilmente realizzato in una bottega di Rodi e prese poi la strada della Sicilia all’epoca in cui l’isola era un colonia greca.
Secondo la mitologia greca, la cerva di Cerinea era una favolosa cerva con le corna d’oro e le zampe d’argento e di bronzo, che aveva la capacità di fuggire chi la inseguiva senza mai fermarsi, e al contempo incantando l’inseguitore, che veniva così trascinato lontano da casa senza possibilità di fare ritorno. Sempre secondo il mito, sarebbe stata catturata da Ercole, che la liberò a Micene dal momento che, essendo animale sacro ad Artemide, non si poteva uccidere. Al Museo Archeologico di Palermo è presente un gruppo scultoreo rinvenuto nel 1805 a Pompei, nella Casa di Sallustio, e giunto in Sicilia con tutta probabilità quando Ferdinando I di Borbone fu esiliato da Napoli in epoca napoleonica. Venne poi donato nel 1831 al Museo dell’Università di Palermo e nel 1866 venne trasferito al Museo Nazionale dell’Olivella, ovvero l’attuale Museo Archeologico Regionale “Antonio Salinas” dove il gruppo bronzeo è tuttora esposto. Opera di grande raffinatezza, databile tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., raffigura Ercole mentre tiene la cerva per le corna.
Il Satiro versante conservato al Museo Archeologico di Palermo raffigura un satiro, un essere mitologico metà uomo e metà capra, che però in quest’opera ha le sembianze di un bellissimo giovane: si comprende che è un satiro solo per la presenza delle orecchie appuntite, come quelle di una capra, tipiche di queste creature leggendarie. È una copia antica (di epoca romana, del I secolo d.C.) di un originale greco di Prassitele: il Satiro versante è la prima opera nota del grande scultore greco, il principale del periodo tardo classico della scultura greca. L’opera di Palermo venne trovata nel 1797 nelle rovine di Villa Sora a Torre del Greco, e fu poi donata da Ferdinando II di Borbone al Museo Archeologico di Palermo. Il satiro è raffigurato mentre solleva una oinochoe, ovvero una brocca per il vino, per versare il contenuto in una kylix, una coppa per bere. Si trovano in questa scultura tutte le principali caratteristiche dell’arte di Prassitele: l’armonia delle proporzioni, il volto quasi inespressivo, la delicatezza del corpo.
La scena dell’accecamento di Polifemo, che compare su questo frammento di sarcofago conservato al Castello Ursino di Catania, è tratta dall’Odissea di Omero: Ulisse fa ubriacare il ciclope Polifemo, che teneva in ostaggio lui e i suoi compagni, e aspetta che si addormenti per accecarlo con un palo arroventato. Nel frammento del Castello Ursino il ciclope è al centro della scena, disteso: secondo la mitologia, i ciclopi erano esseri giganteschi (infatti le proporzioni del suo corpo sono più grandi rispetto a quelle degli altri personaggi), dotati di un unico occhio. Ulisse è sopra di lui, che indossa la calotta che lo identifica come comandante o sovrano (era re di Itaca), mentre i suoi compagni lo assistono per portare a termine il compito. Eseguito in marmo giallo, il rilievo, di età imperiale, mostra tuttavia una particolarità: il ciclope è qui raffigurato con due occhi, probabilmente per rendere più “umana” la sua figura.
Il Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa conserva un’antichissima terracotta dipinta, del VI secolo a.C., che raffigura la gorgone Medusa, anticamente situata nel Tempio di Atena della città. La mostruosa creatura è raffigurata secondo la tipica iconografia: un volto orrendo, la bocca con le zanne e la lingua di fuori, i capelli lunghi con una scriminatura in mezzo e riccioli sul capo, gli occhi sgranati, due grandi ali. La Medusa di Siracusa tiene anche sotto al braccio il cavallo alato Pegaso, che secondo la leggenda sarebbe nato dal suo corpo dopo che venne sconfitta dall’eroe Perseo. Raffigurazioni come questa situate in edifici religiosi avevano la funzione di allontanare il male. Spesso della Gorgone era tuttavia raffigurato soltanto il volto: la particolarità della Medusa di Siracusa sta soprattutto nel fatto che vediamo l’essere mostruoso raffigurato per intero.
Quest’anfora dipinta a figure nere conservata al Museo Archeologico di Siracusa è opera del cosiddetto pittore di Pasikles, risale al 520 a.C. circa e venne ritrovata nella necropoli dell’ex Giardino di Spagna di Siracusa, in particolare nel corredo della tomba 4. La raffigurazione è rara e singolare: vediamo infatti Eracle che combatte con una divinità del mare, Tritone, figlio di Poseidone (il dio del mare), dotato di un corpo a forma di pesce, e dal volto umano. Il combattimento con Tritone non fa parte delle dodici fatiche e gli studiosi hanno a lungo discusso su raffigurazioni come questa: il primo a scrivere di una lotta tra Eracle e Hálios Géron (il “vecchio del mare”, una divinità non meglio specificata) è lo scrittore greco Ferecide di Siro e si può ipotizzare che questo racconto fosse la fonte degli artisti che raffiguravano l’eroe impegnato in questa lotta. Una lotta che immaginiamo successiva, quanto meno, alla prima fatica, dal momento che Eracle indossa nell’anfora la pelle del leone di Nemea, sconfitto nella prima delle dodici imprese.
Esattamente come il Satiro versante di Palermo, anche il Satiro danzante di Mazara del Vallo, conservato in un museo a lui interamente dedicato, non ha zampe animalesche, e lo si riconosce soltanto dalla forma delle orecchie: anche l’opera di Mazara venne infatti eseguita in un momento storico in cui gli scultori greci intendevano umanizzare figure come questa. Attribuita alla scuola di Prassitele, la statua fu trovata nel 1997, quando fu individuata la gamba (seguì poi nel marzo del 1998 il ritrovamento del corpo e delle braccia). Fu poi esposta al pubblico a partire dal 2003. La statua faceva probabilmente parte del carico di una nave naufragata al largo della Sicilia. La creatura leggendaria è raffigurata in atto di danzare poiché i satiri erano soliti accompagnare, appunto con danze sfrenate, i cortei di Dioniso, il dio del vino. Possiamo immaginare la statua completa di kantharos, un particolare calice per il vino. Il satiro è di dimensioni superiori al vero, poiché la sua figura in piedi raggiungerebbe l’altezza di due metri e mezzo.
Secondo la mitologia greca, Scilla, figlia di Tifone ed Echidna, era una delle più belle tra le naiadi, le ninfe del mare. Ci sono diverse versioni del mito, che però si concludono sempre allo stesso modo: qualcuno che punisce Scilla trasformandola in un orribile mostro (Circe per punirla poiché il dio Glauco si era innamorato di Scilla rifiutando lei, oppure Anfitrite, gelosa perché il marito, Poseidone, la voleva per sé). Giovanni Angelo Montorsoli (Firenze, 1507 - 1563), importante scultore toscano, collaboratore di Michelangelo, realizzò questa scultura per la Fontana del Nettuno di Messina, terminata nel 1557: si trattava della seconda fontana che Montorsoli realizzava per la città, dopo la fontana di Orione. Tuttavia, durante i moti del 1848, la fontana fu danneggiata e ad avere la peggio furono proprio le statue di Nettuno e Scilla, che furono sostituite in piazza da due riproduzioni ottocentesche (di Nettuno si occupò Gregorio Zappalà nel 1856, mentre quella di Scilla fu eseguita da Letterio Subba nel 1858), e ricoverate al Museo Regionale di Messina dove si possono tuttora ammirare.
L’Orecchio di Dioniso, detto anche Orecchio di Dionigi, è una grotta artificiale ricavata dalla cava della latomia del Paradiso (le “latomie” erano appunto cave di pietra o di marmo dove lavoravano schiavi o prigionieri di guerra, e per tale ragione venivano adoperate anche come carceri). Alto circa 23 metri, l’Orecchio di Dioniso ha uno sviluppo in profondità di 65 metri che lo rende particolarmente adatto ad amplificare i suoni (e proprio per via di questa caratteristica si è a lungo discusso sulla reale funzione di questo luogo). Stando a un mito riportato dalla tradizione locale ma senza fondamento, sarebbe stato il pittore Caravaggio, presente a Siracusa nel 1608, a dare questo nome alla grotta, dal momento che la forma gli ricordava quella di un orecchio. Il “Dioniso” a cui si riferisce è il tiranno Dioniso I (o Dionigi) di Siracusa (430 a.C. - 367 a.C.): sempre secondo la leggenda, il sovrano della città si sistemava sulla sommità della grotta per ascoltare, grazie alla sua capacità di amplificare i suoni, quello che dicevano gli schiavi che vi lavoravano.
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