Il viaggio attraverso l’Italia dei musei per scoprire animali e luoghi fantastici giunge alla tappa numero otto, l’Emilia Romagna. Come di consueto, tante creature fantastiche che abbiamo trovato nei musei della regione, dall’Appennino fino al mare. Animali e luoghi fantastici nei musei italiani è un progetto realizzato da Finestre sull’Arte in collaborazione con il Ministero della Cultura per far scoprire i nostri musei, luoghi sicuri e adatti a tutti, in un modo nuovo. Ecco gli animali emiliano-romagnoli!
Tra gli affreschi che decorano le pareti della navata centrale della chiesa dell’abbazia di Pomposa si può trovare anche la “bestia delle Sette Teste” di cui troviamo descrizione nell’Apocalisse di Giovanni (13,1:11): “E vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. E vidi un’altra fiera che saliva dalla terra. E aveva due corna simili a quelle dell’agnello e parlava come un dragone”. L’artista, un pittore di scuola bolognese che operò alla metà del Trecento, la rappresenta proprio mentre esce dal mare, in mezzo ai pesci. La vediamo raffigurata come un animale dal corpo leopardato e con le teste di drago, e con un diadema sopra ognuna delle teste, come da descrizione giovannea: tendenzialmente viene interpretata come simbolo di Satana. La sua presenza è particolarmente significativa in quanto è un interessante esempio del linguaggio figurativo e religioso di età medievale, che si colloca qui nell’ambito di un ciclo di affreschi con storie del Nuovo Testamento, di cui l’Apocalisse di Giovanni è parte.
L’immagine del San Giorgio che uccide il drago di Vitale degli Equi (Bologna, 1310 circa - 1360), opera conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, è una delle più celebri della storia dell’arte medievale. Non sappiamo da dove provenga questo dipinto, ma è una delle più interessanti attestazioni del linguaggio molto vivace, quasi espressionistico, di Vitale degli Equi, noto anche come Vitale da Bologna (sulla coscia del cavallo vediamo un monogramma che è stato interpretato come la sua firma). La leggenda vuole che san Giorgio abbia salvato la principessa di Selem dalle grinfie di un terribile drago che voleva divorarla, in quanto offerta in sacrificio dagli abitanti di Selem per placare la voracità dell’animale: vediamo qui il santo ingaggiare una dura lotta, alla quale partecipa anche il cavallo colto in un forte nitrito che pare quasi di udire, contro la mostruosa belva che sta per essere sopraffatta dalla lancia di san Giorgio. La principessa, dai tratti nobili, assiste alla scena più indietro, riparata. Per il grande Roberto Longhi, il dipinto di Vitale degli Equi è come una “favola tra arcana e selvaggia da precorrere le follie eteroclite di tanti maestri nordici, dai boemi del Trecento fino a Mattia Grünewald”. E possiamo ritenerlo anche una delle opere più drammatiche e intense della storia dell’arte medievale.
Il museo felsineo conserva anche uno dei migliori capolavori del Parmigianino (Parma, 1503 - Casalmaggiore, 1540), la Pala di Santa Margherita, così detta dalla presenza della santa. La leggenda racconta che questa santa, originaria della città di Antiochia, venisse denunciata come cristiana dal prefetto Ollario, che tentò di sedurla ma fu da lei respinto, e decise pertanto di punirla. Mentre si trovava in carcere, Margherita venne visitata dal diavolo, che assunse le sembianze di un terribile drago: lei però riuscì a cacciarlo con la sola forza della preghiera. Nel dipinto del Parmigianino vediamo il drago dipinto come un orrendo essere, simile al contempo a un rettile e a un pesce, con la bocca spalancata, sotto alla santa che si avvicina teneramente a Gesù Bambino per ricevere da lui un bacio che suggelli la loro unione mistica. È una delle tre pale d’altare che il Parmigianino dipinse durante il suo soggiorno a Bologna, tra il 1527 e il 1530. “Capolavoro della maniera italiana” (così lo ha definito la studiosa Jadranka Bentini), la pala fu eseguita per le monache benedettine del convento di Santa Margherita (ecco il perché del soggetto), ma fu poi ceduta da queste al collezionista Giovanni Maria Giusti in cambio di una casa con la quale avrebbero potuto ampliare il convento. Giusti, tuttavia, decise di destinarla all’altare maggiore della chiesa del convento, dove rimase fino alle requisizioni napoleoniche: trasferita nel 1796 a Digione, tornò a Bologna nel 1818.
Non capita spesso di osservare animali fantastici in raffigurazioni dell’episodio della Cacciata dal Paradiso: è il momento in cui Adamo ed Eva vengono espulsi dall’Eden in quanto la donna viene sorpresa a cogliere il frutto dell’albero proibito. La Cacciata dal Paradiso di Jan Soens (’s-Hertogenbosch, 1547/1548 - Parma, 1611), pittore olandese attivo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento (a partire dal 1575 e fino al 1606 fu artista di corte dei Farnese a Parma e Piacenza), si distingue per la presenza di un unicorno: questa presenza si spiega per diverse ragioni. Intanto, la bellezza dell’animale, unita a quella del lussureggiante giardino che fa da sfondo alla vicenda, serve per sottolineare ciò che Adamo ed Eva hanno perso. Inoltre, l’unicorno in antico era simbolo di purezza. E ancora, era uno degli animali araldici preferiti dai Farnese: la famiglia che governava Parma e Piacenza ha dunque voluto in certa misura alludere allo splendore della propria corte chiedendo. Non sappiamo dove si trovasse il dipinto, sappiamo che però faceva parte di un ciclo interamente dedicato al libro della Genesi.
Un altro unicorno che è possibile vedere in Emilia Romagna è quello che compare nelle eleganti decorazioni di Casa Romei a Ferrara, e in particolare nelle tavolette lignee del soffitto della Sala delle Sibille. Casa Romei era l’abitazione fatta costruire nel XV secolo dal mercante e banchiere ferrarese Giovanni Romei (1402-1483), molto legato alla famiglia d’Este e alla corte ferrarese, tanto che in seconde nozze sposò Polissena d’Este, nipote del marchese Borso d’Este. Proprio a questo matrimonio si lega la costruzione dell’ala di Casa Romei dove si trova la Sala delle Sibille: l’unicorno, simbolo di purezza, è in questo caso una sorta di omaggio a Borso d’Este, che aveva intrapreso importanti bonifiche delle aree paludose nei dintorni di Ferrara. Si riteneva infatti che l’unicorno, animale magico, purificasse con il suo corno le acque dai veleni che contenevano. A completare l’allegoria delle bonifiche estensi è anche il graticcio che si trova dietro la scena: ricorda infatti il “paraduro”, ovvero una palizzata che si utilizzava come sostegno per gli argini dei fiumi e per contenere le terre ai fini di riempire i canali da bonificare.
È di sicuro uno degli animali fantastici più strani che si possano trovare nei musei italiani: un leone rampante con la testa di elefante. Si tratta del simbolo araldico della famiglia Del Sale: l’edificio in cui si trova, Casa Minerbi, in antico era infatti proprietà dei Del Sale. Si tratta di una residenza di origine trecentesca ma più volte rimaneggiata nel tempo: la Sala degli Stemmi, dove si trova l’emblema della famiglia Del Sale, risale alla seconda metà del XIV secolo. I Del Sale avevano scelto di unire i due animali verosimilmente per le caratteristiche che, secondo la mentalità medievale, simboleggiavano: il leone era simbolo di forza, l’elefante di prudenza. Interessante che la testa sia quella dell’elefante, a dimostrazione che deve comunque essere la prudenza dell’elefante a guidare la forza del leone. Casa Minerbi è attualmente chiusa al pubblico, ma a breve avverrà resa accessibile dopo importanti lavori di restauro ed un nuovo allestimento espositivo.
Il Castello di Torrechiara, splendido luogo immerso nelle campagne, sulle estreme propaggini dell’Appennino emiliano nei pressi di Langhirano, è un vero paradiso per gli amanti degli animali fantastici: nelle ricchissime decorazioni delle sale del Castello se ne trovano infatti di tutti i tipi. Pochi però sono tanto presenti quanto le sfingi: se ne vedono alcune nel Salone degli Stemmi, uno degli ambienti più ricchi e interessanti dell’edificio. Questa inoltre ha una particolarità: oltre alla testa di donna, presenta anche un seno femminile, a dimostrazione della fantasia del pittore che la eseguì: la cultura manierista, nell’ambito della quale nascevano questi affreschi, amava infatti lo stravagante e il bizzarro. Il Salone degli Stemmi occupa l’intero lato nord-est del pian terreno, ed era con tutta probabilità lo spazio di rappresentanza del castello, dove si tenevano ricevimenti ufficiali e anche banchetti. È interamente decorato a grottesche: si intendeva con questo termine un motivo ornamentale su fondo tipicamente bianco e composto da bizzarri intrecci di piante, animali ed esseri fantastici, di gran moda nel Cinquecento, e che deve il nome al fatto che fu scoperto nella Domus Aurea, l’antica residenza dell’imperatore romano Nerone (questi motivi erano infatti diffusi nella decorazione parietale dell’antica Roma). Poiché la Domus Aurea era interrata, gli scopritori, alla fine del Quattrocento, pensavano di essere entrati in una magnifica grotta decorata in tempi antichi, e da qui il nome di questi motivi. Non sappiamo a chi si debbano questi affreschi: il nome più probabile è quello di Giovanni Antonio Paganino (attivo tra il 1572 e il 1588), pittore che lavorò insieme a Cesare Baglioni, il “regista” delle decorazioni del Castello di Torrechiara.
Il dipinto in questione è opera di uno dei principali artisti ferraresi del secondo Cinquecento, Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino (Ferrara, 1550 circa - 1620), e fu realizzato in pendant con un’altra tela raffigurante il Peccato originale. I protagonisti di questa coppia di dipinti sono ancora Adamo ed Eva: qui li vediamo nel Limbo, dove arriva Gesù per aiutare gli eroi biblici del Vecchio Testamento a salire al Paradiso riscattandoli dal peccato in quanto morti prima di lui, secondo un episodio descritto nel vangelo apocrifo di Nicodemo. Eva si avvicina a Gesù con le mani giunte, mentre Adamo segue subito dietro. Attorno a loro e alle anime dei morti prima della nascita di Cristo si dispone una torma di diavoli che la fantasia dello Scarsellino ha permesso di raffigurare nelle forme più bizzarre: ce ne sono alcuni simili a draghi, quello a destra è un bizzarro essere col naso lunghissimo, dietro ancora ne vediamo uno con la testa da vecchio e la coda, e poi quello al centro ha la faccia da maiale, le corna e gli artigli, mentre dietro di lui ne sbuca uno che sembra quasi un grande roditore. Questo soggetto rappresenta, a quanto sappiamo, un unicum nella produzione dello Scarsellino ed è un’acquisizione relativamente recente della Galleria Estense di Modena, che lo acquistò nel 2000.
Questo frammento affrescato compone, assieme a otto altri brani, ciò che rimane della decorazione di un camerino nella Rocca di Novellara, antica dimora di Alfonso Gonzaga, le cui decorazioni furono affrescate da un importante pittore locale, Lelio Orsi (Novellara, 1508 - 1587), detto anche Lelio da Novellara, uno dei più grandi artisti emiliani del Cinquecento. I soggetti del ciclo affrescato erano tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, e quello da cui proviene questo lacerto è di sicuro il più cruento in quanto raffigura il diluvio che il dio Giove scagliò contro l’umanità per punirla delle sue malefatte. Vediamo quindi umani che lottano con mostri marini in un groviglio di corpi tra le onde: tra gli animali fantastici non mancano gli ippocampi, creature metà cavalli e metà pesci. Sulla sinistra vediamo invece un personaggio nascosto in una nuvola da cui spira un forte vento: è Noto, il dio del vento del sud. Una curiosità: lo sfondo di queste scene è dipinto a finto mosaico, per imitare le decorazioni dell’antica Roma.
Secondo la leggenda, il minotauro era un orribile mostro metà umano e metà toro nato dall’unione bestiale tra la regina di Creta, Pasifae, moglie del re Minosse, e un toro bianco, che era stato inviato dal dio Poseidone a Minosse come dono perché venisse sacrificato: il re però non obbedì al dio del mare ritenendo l’animale troppo bello, così Poseidone per punizione fece innamorare Pasifae del toro. Il minotauro aveva una fame implacabile, che richiedeva ogni anno il sacrificio di sette ragazzi e sette ragazze da dargli in pasto: l’eroe Teseo si offrì al posto di uno dei giovani e riuscì a uccidere la bestia. In questo cratere a colonnette (un vaso che serviva per contenere vino) del Museo del Delta Antico di Comacchio vediamo proprio l’eroe intento a sconfiggere il mostruoso animale. Si tratta di un vaso che ci racconta la storia antica di questo lembo della regione affacciato sull’Adriatico: sorgeva qui infatti l’antica città di Spina, uno dei principali porti dell’Italia settentrionale, dove arrivavano in continuazione merci dalla Grecia, tra le quali vasi figurati appositamente prodotti ad Atene e in attica per il mercato estero, proprio come questo, ritrovato nella necropoli di Valle Trebba e risalente al V secolo avanti Cristo.
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