Seconda tappa del viaggio lungo l’Italia alla scoperta di animali, creature, personaggi e luoghi fantastici in tutto il paese: oggi si va in Campania. Un progetto che Finestre sull’Arte conduce in collaborazione con il Ministero della Cultura per trovare una chiave nuova, interessante e divertente per visitare i musei, che sono luoghi da poter frequentare (e soprattutto tornare a frequentare) in tutta sicurezza, in famiglia, con i bambini. Anche per questa tappa abbiamo individuato dieci creature fantastiche, tra Napoli e Caserta, tra Pompei e Paestum: eccole!
Il pistrice, nella mitologia greca, era un particolare mostro marino col corpo di cavallo, con la testa di drago e la coda di serpente marino che si trova rappresentato soprattutto nei cortei di Nettuno e delle divinità marine. In questo caso lo vediamo assieme a una Nereide, ovvero una ninfa del mare, che siede sul dorso della creatura, raffigurata nell’atto di sollevare le zampe anteriori. Si è tentato in passato di dare un’identità precisa alla Nereide, senza però arrivare a risultati soddisfacenti. Quel che è certo, è che questa importantissima statua è considerata un unicum: lo studioso Armando Pistilli ha infatti scritto che non ci sono noti, nella statuaria antica, esempi che si possano paragonare a quest’opera, che fu ritrovata tra le rovine della Villa di Lucullo a Posillipo e fu acquistata nell’Ottocento dal re Ferdinando II di Borbone per le raccolte del Museo borbonico. Nel 1840 l’opera entrava così nella raccolta del museo. Questo gruppo così singolare e di qualità così alta (si suppone che derivi da un modello greco) risale al I secolo avanti Cristo, ma molte parti furono integrate nel restauro dell’Ottocento, poiché mancanti: si tratta, in particolare, della gamba destra e della parte anteriore del piede sinistro della giovane, delle zampe anteriori e delle ultime spire della coda del pistrice, e dell’onda che si trova sotto queste ultime. Il gruppo è in marmo ma tutte le integrazioni furono fatte in gesso.
Due creature mitologiche occupano i lati di un trapezoforo, ovvero una mensola per il sostegno di una tavola (dal greco trápeza, “tavola”, e feréin, “portare”). Questa singolare opera, in antico nelle collezioni dei Farnese, si trovava nel Seicento a Villa Madama, dopodiché, nella seconda metà del Settecento fu trasferita alla Farnesina e quindi spostata a Napoli nel 1796. Scilla è il mostro marino che, insieme a Cariddi, secondo il mito presidiava lo stretto di Messina: contro i due mostri si scontra la nave di Ulisse nell’Odissea. Qui, viene rappresentata come una creatura con la testa di donna e la coda di pesce, con il corpo dove si aprono musi di cani che si avventano sui naufraghi persi tra le onde. Nella parte opposta ecco il centauro, sul cui dorso vediamo un genio alato, e poco distante un’aquila con un serpente nel becco. Difficile dire che cosa possa rappresentare questa scena: nella guida del Museo di Napoli d’inizio Novecento s’ipotizzava che le due creature fossero le custodi dell’Ade, e quindi il trapezoforo aveva probabilmente un impiego in ambito funerario. Oppure potrebbe avere un carattere allegorico.
Ancora creature dal mondo della mitologia: ecco qui una sirena, che contrariamente a quella che si è affermata nell’immaginario collettivo, ovvero la creatura metà donna e metà pesce, diffusasi a partire dall’VIII-IX secolo, secondo gli antichi greci era una donna con le zampe, le ali e la coda di un uccello. In questo caso, vediamo la figura rappresentata su un mosaico pavimentale del I secolo avanti Cristo proveniente da una lussuosa dimora di Roma. Non era insolito vedere al centro dei mosaici degli emblémata, ovvero dei quadri figurati: in questo caso, la sirena, che regge con la zampa sinistra un vaso, è accompagnata da una colomba e dalla figura di un amorino, che la segue con una coppa. Questa singolare raffigurazione potrebbe pertanto alludere a un rituale religioso: la sirena, infatti, trasporta sopra il capo un vassoio destinato alle offerte.
Questo bronzo di Guglielmo Della Porta (Porlezza, 1515 circa - Roma, 1577) è una delle migliori opere di questo talentuoso artista che lavorò spesso per i Farnese producendo capolavori che si ispiravano alla statuaria classica: non fa eccezione l’Ercole bambino che soffoca i serpenti, opera di qualità così alta che in passato fu anche scambiata per un reperto archeologico. Qui, Guglielmo Della Porta rappresenta uno degli episodi del mito di Ercole: Era, moglie di Zeus, non sopportava il piccolo Ercole, nato da un tradimento del marito (era infatti figlio di Zeus e della regina Alcmena), e per ucciderlo gli inviò contro alcuni serpenti, che però l’eroe bambino riuscì a uccidere, soffocandoli. L’artista raffigura l’Ercole infante mentre è alle prese con uno dei serpenti, colto in una strenua lotta. Da notare come sul basamento compaiano invece rilievi con rappresentate alcune delle fatiche che l’eroe avrebbe compiuto da adulto: in particolare, si osserva Ercole mentre uccide l’Idra di Lerna, mostruoso serpente marino dotato di nove teste.
Nel 1739, negli scavi della Basilica di Ercolano, fu scoperta una pittura che raffigurava il centauro Chirone intento a insegnare al piccolo Achille a suonare la cetra. Solitamente i centauri, creature metà cavalli e metà umani, sono simbolo di violenza, istinto e forza bruta: Chirone è invece un’eccezione. Figlio di Crono e Filia, Chirone è il centauro buono, esperto nelle arti, nelle scienze e nella medicina, maestro di numerosi eroi greci, tra cui lo stesso Achille, in quanto ritenuto il più saggio dei centauri. La piccola statua in porcellana di Filippo Tagliolini (Fogliano di Cascia, 1745 - Napoli, 1809), esperto artista della Real Fabbrica di Napoli (di cui fu anche capo modellatore a partire dal 1780), riproduce con la tecnica del biscuit (con la quale si ottiene un’opera dall’aspetto bianco e opaco simile al marmo) l’affresco di Ercolano, realizzando un oggetto appartenente a un genere particolarmente in voga presso la corte napoletana tra fine Settecento e inizio Ottocento (l’opera, infatti, è databile al 1796-1805).
Un’altra storia dalla mitologia greca, il cui protagonista è lo sfortunato cacciatore Atteone, che durante una battuta di caccia si imbatte nella dea Diana, mentre fa il bagno nuda assieme alle sue ancelle. Per aver osato vedere la dea della caccia, vergine, senza niente addosso, Atteone subisce una feroce punizione: viene trasformato in un cervo e sbranato così dai suoi cani, che non lo riconoscono. Sono molte le opere in cui Atteone viene raffigurato come un uomo dalle sembianze di cervo: non fa eccezione la Fontana di Diana e Atteone, uno dei gruppi scultorei più belli e ammirati della Reggia di Caserta, e probabilmente il più famoso. Le sculture, che poggiano su finti scogli che sorgono sull’acqua, è opera del 1773 di Paolo Persico (Sorrento, 1729 - Napoli, 1796), che si prodigò qui in una delle sue opere più scenografiche. Per la realizzazione in marmo, l’artista, al quale si deve il disegno della fontana oltre alle figure principali (quelle di Diana e di Atteone) fu aiutato da Angelo Brunelli che si occupò delle figure delle ninfe, e da Pietro Solari cui invece spettarono i cani.
L’Agathodaimon, o “Agatodemone” in italiano, era secondo la mitologia greca un demone buono (questo significa letteralmente il suo nome in greco), ed era considerato un genio che proteggeva il grano e i raccolti. Poteva assumere diverse sembianze: in molti casi veniva raffigurato come un serpente dalla testa coronata, che talvolta recava nella coda un fiore di loto. Nel caso dell’affresco che decora la Casa del Criptoportico a Pompei, l’Agatodemone è semplicemente un serpente che striscia in un prato e si rivolge al dio Mercurio. Il dio tiene in mano il caduceo, il bastone ornato con due serpenti, simbolo di sapienza (ancor oggi il caduceo è simbolo dei farmacisti in quanto associato alla guarigione, da non confondere col bastone di Asclepio che è invece associato alla medicina). Completa il simbolismo il pavone, simbolo di longevità e rinascita. La Casa del Criptoportico di Pompei prende il nome dal corridoio coperto (“criptoportico”, appunto) che è a sua volta ornato con creature fantastiche: satiri, in questo caso.
La bella sfinge in marmo del Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino di Montesarchio (Benevento), che purtroppo manca oggi totalmente delle zampe anteriori e di parte di quelle posteriori, oltre che di una porzione del volto, fu ritrovata negli scavi condotti tra il 1975 e il 1977 in località Masseria Foglia a Montesarchio. Si trovava qui un complesso di edifici di epoca romana scoperti nel 1924: gli scavi degli anni Settanta portarono gli studiosi a notare come si trattasse di una struttura lussuosa, dotata anche di un complesso termale. In uno degli ambienti di questo sontuoso complesso fu trovata proprio la sfinge in questione, che probabilmente decorava un trapezoforo, come lascerebbe supporre il blocco di marmo squadrato che vediamo alle sue spalle. La sfinge di Montesarchio, come da tipica iconografia, è seduta sulle zampe posteriori: è una creatura col corpo di leone e la testa di donna, nata secondo il mito dall’unione tra Orto ed Echidna.
Secondo il mito, Galatea (dal greco gála, “latte”, oppure galéne, “calma”), era una nereide, una ninfa del mare, innamorata del giovane Aci, ucciso poi dal ciclope Polifemo, a sua volta innamorato di Galatea e geloso del rivale. Secondo il mito, gli dèi dell’Olimpo, mossi da pietà nei confronti del giovane, lo trasformarono in un fiume, l’Aci, che si trova nei pressi dell’Etna in Sicilia. Nella storia dell’arte non è raro imbattersi in scene che celebrano il trionfo di Galatea, accompagnata da altre ninfe, da amorini, da tritoni, e trascinata sul mare da delfini o, come in questo caso, da un enorme mostro marino, che viene guidato da Galatea con le briglie. L’autore del dipinto, Elie Honoré Montagny, allievo di Jacques-Louis David, si stabilì a Napoli tra il 1804 e il 1815 e durante il suo soggiorno partenopeo dipinse le sue opere più importanti e famose, tra cui il Trionfo di Galatea di Palazzo Reale, firmato e datato 1812, da identificare probabilmente con il “quadro dipinto ad olio rappresentante Galatea con vari amorini e Ninfe attorno” che decorava il Gabinetto del Bagno della Reggia di Portici nel 1817. In quest’opera, commissionata da Carolina Murat, “il ricorso all’antico si fa più morbido”, ha scritto la studiosa Ornella Scognamiglio, “e si fonde in un insieme dal sapore pompeiano (la brezza marina che scompiglia i capelli e gonfia i manti trasformandoli in vele, i delfini che solcano fulminei l’onda, i tritoni aitanti, la canna di fiume e il corallo a indicare l’unione eterna tra Aci e Galatea) senza divenire annotazione erudita o impronta antiquaria”.
Non è raro imbattersi in animali che lottano tra loro: lo dimostra questo combattimento tra una pantera (o una leonessa) e due grifoni, uno dei quali cerca di ghermire la pantera attaccandola alle spalle, in un affresco che decora una tomba lucana conservata al Museo Archeologico Nazionale di Paestum. Verso la fine del V secolo avanti Cristo, i lucani, popolazione che abitava l’entroterra dell’odierna Basilicata, scese fino alle coste occupando molti insediamenti e città dell’attuale Campania, tra cui anche Poseidonia, la città di fondazione magnogreca che sarebbe divenuta la Paestum romana. Normale dunque che nel museo si trovino molte testimonianze di questa popolazione, che come molte altre civiltà antiche usava dipingere le tombe degli aristocratici. L’uso di raffigurare animali, reali o fantastici, in lotta tra loro, era di origine orientale e si diffuse in territorio italiano nel IV secolo avanti Cristo: nella sola Paestum si contano diverse lastre con motivi simili, e questa è una delle meglio conservate.
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