Il viaggio alla scoperta degli animali fantastici nei musei d’Italia arriva alla tappa numero diciassette: scopriamo oggi quali creature si trovano nei musei dell’Abruzzo. Il progetto è condotto da Finestre sull’Arte in collaborazione con il Ministero della Cultura e si pone l’obiettivo di far scoprire al pubblico i musei italiani, anche quelli meno noti, come luoghi sicuri e adatti a tutti. Ecco il nostro itinerario nei musei abruzzesi!
I due draghi conservati al Museo d’arte sacra della Marsica di Celano provengono dalla chiesa di San Pietro di Massa d’Albe, per l’esattezza dalla frazione di Alba Fucens. Decorano un pannello delimitato da una cornice a foglie d’acanto stilizzate. Nelle chiese medievali (il pannello risale infatti al XII secolo, non sappiamo chi sia l’autore: lo studioso Raffaello Delogu, già soprintendente dell’Aquila, li attribuiva tuttavia ad artisti che lavoravano in collaborazione con maestranze romane) non è raro trovare rappresentazioni di animali mostruosi, che incarnano il male, oppure vengono utilizzati come simboli demoniaci, spesso sconfitti dai santi. La particolarità di questo pannello sta nel fatto che i draghi, posti uno di fronte all’altro, hanno i colli avvinghiati e intrecciati. Non conosciamo la destinazione di questa formella ma è probabile si tratti di un pluteo, ovvero una balaustra a lastre rettangolari che faceva parte degli antichi arredi liturgici.
Un altro drago è quello che si trova sul portale della chiesa di San Pietro ad Oratorium di Capestrano: altra opera del XII secolo, risponde all’idea secondo cui il male andava doveva essere lasciato fuori dalla chiesa, ragione per cui sulle facciate di molte chiese del tempo compaiono queste presenze mostruose. La chiesa in cui si trova questo rilievo è quella dell’abbazia benedettina di San Pietro ad Oratorium, dichiarata monumento nazionale nel 1902 e, a partire dal 2014, gestita dal Ministero della Cultura attraverso la Direzione Regionale Musei dell’Abruzzo. Una delle singolarità della chiesa sta nel fatto che nella parete esterna si trova una lapide con il “quadrato del Sator”, ovvero la scritta palindroma, ripetuta su quattro lati, che recita “Rotas opera tenet arepo sator”, e il cui significato, nonostante diversi ritrovamenti in vari contesti, è ancora oscuro.
Il drago è anche l’animale che solitamente accompagna l’iconografia di san Michele (quando non è sostituito dal diavolo in persona, anche se in questo caso si tratta di rappresentazioni più recenti): ed è proprio nell’atto di sconfiggere il diavolo che vediamo raffigurato il santo in un rilievo in pietra che decora una lunetta nell’abbazia di San Clemente a Casauria, nella Val Pescara. L’arcangelo, che si mostra con le ali spiegate e vestito con una lunga tunica, è pacato, quasi sorridente, ed è colto mentre trafigge l’animale mostruoso con la sua lancia. Non conosciamo l’artista che eseguì questo rilievo, che però secondo la studiosa Gloria Fossi appare influenzato da un altro maestro che lavorò nella chiesa e che si distinse per un tecnica raffinata, riscontrabile soprattutto nelle pieghe dei mantelli e nell’intensità degli sguardi, caratteristiche che del resto ritroviamo anche in questo san Michele. La presenza di san Michele in questa chiesa è dovuta anche alla diffusione del culto di san Michele dalla non lontana Monte Sant’Angelo sul Gargano, dove sarebbe apparso alla fine del V secolo. La vicinanza a questo luogo e i contatti che l’Abruzzo aveva con il Gargano e la Puglia per il tramite della pastorizia e della conseguente transumanza furono all’origine della diffusione del culto di san Michele in Abruzzo. La particolarità di questa raffigurazione sta nel fatto che subito sotto il santo vediamo raffigurata una galea, cui si attribuiva una funzione psicopompa, termine con cui si designa un’entità destinata all’accompagnamento delle anime dei defunti. San Michele, infatti, era ritenuto santo che accompagnava le anime nell’oltretomba, funzione “ereditata”; per così dire, dal dio Mercurio dei popoli pagani.
Realizzata nel 1505, questa tavola di Francesco da Montereale (Montereale, 1466 o 1475 - L’Aquila, 1541), uno dei più importanti pittori abruzzesi del Rinascimento, raffigura la Madonna col Bambino, incoronata da due angioletti, con san Giovannino e attorno i santi Caterina da Siena, Agostino, Lucia, Francesco, Giovanni Evangelista e Caterina d’Alessandria. Il pittore subisce molto il fascino della pittura umbra, in particolare di quella del Pinturicchio da cui derivano le figure, mentre l’impostazione e il senso del decorativismo lasciano immaginare che Francesco da Montereale dovette guardare a Carlo Crivelli. In basso a destra vediamo un leone alato che tiene la zampa sopra un libro aperto: è un chiaro rimando a san Marco evangelista, che non è presente tra i santi ma viene evocato dal suo simbolo, appunto il leone alato, detto anche “leone di San Marco” o “leone Marciano”. San Marco è rappresentato con un leone perché il suo Vangelo si apre con le parole, riferite a Giovanni Battista, “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. La voce del Battista che grida nel deserto predicando il battesimo è assimilata al ruggito di un leone: ecco perché l’animale è associato a san Marco.
Il mammut non è di certo un animale fantastico, dal momento che è realmente esistito, ma poiché si estinse in tempi molto antichi, ci evoca fantastici immaginari preistorici. E al Museo Nazionale d’Abruzzo è conservato uno scheletro di Mammuthus meridionalis, antico pachiderma originario dell’Asia inferiore e molto diffuso anche in Italia almeno fino all’inizio del Pleistocene medio (700mila anni fa). L’animale poteva raggiungere i quattro metri d’altezza e i sei di lunghezza, per un peso di circa dieci tonnellate (ovvero all’incirca le dimensioni di un attuale elefante africano, anche se le zanne, come si vede osservando il mammut aquilano, erano molto più lunghe: inoltre, il mammut meridionale aveva grandi denti molari). Il fossile del Museo Nazionale d’Abruzzo fu rinvenuto nel 1954 in una cava d’argilla nei pressi di Scoppito, non lontano dall’Aquila: nel 1960 fu esposto nelle sale del museo al Forte Spagnolo, dopodiché, a seguito dei danni subiti dall’edificio durante il terremoto del 2009, è tornato in deposito per essere restaurato, ed è stato nuovamente esposto al pubblico, con un nuovo allestimento, nel 2021.
Un altro san Michele col drago è quello che vediamo raffigurato nel polittico di Jacobello del Fiore (Venezia, 1370 circa - 1439) conservato all’Aquila al Museo Nazionale d’Abruzzo. Jacobello del Fiore, pittore veneziano, è stato uno dei più importanti pittori della scuola veneta tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, anche se trascorse buona parte della sua carriera fuori dalla sua città natale. Nelle Marche, la sua pittura si ingentilì a contatto con la lezione di Gentile da Fabriano, dopodiché l’artista scese in Abruzzo dove lasciò diverse opere, tra cui questo polittico, una delle più alte attestazioni del gotico internazionale nelle terre che si affacciano sull’Adriatico. Vede al centro la Madonna col Bambino e ai lati, nel registro inferiore, i santi Bartolomeo, Michele, Silvestro papa (o Gregorio) e Nicola di Bari, mentre nel registro superiore troviamo san Biagio, santa Caterina d’Alessandria, il Cristo benedicente, santa Dorotea e sant’Antonio abate. Rinvenuto in condizioni precarie da Enzo Carli nel 1938, ha sempre sollevato importanti discussioni critiche poiché non tutti gli studiosi concordano sulla sua paternità. Quel che appare certo, è che la splendida cornice fu realizzata con l’ausilio di orafi abruzzesi che innervarono una fiorente tradizione proprio sul finire del Trecento.
In questo polittico eseguito da Bernardino di Cola del Merlo (attivo tra il 1490 e il 1500) e proveniente dalla chiesa di San Leonardo in Pianella (Pescara), l’artista dipinge la figura di san Michele mentre sconfigge non il drago come si è visto nelle raffigurazioni precedenti, bensì il diavolo, raffigurato come un essere mostruoso, nero, colto mentre si contorce sotto la lancia del santo. Nonostante si tratti di un’opera realizzata sul finire del Quattrocento, l’impostazione è ancora quella dei polittici gotici, ma l’autore, dipingendo le sue figure, dimostra di essere aggiornato sulla cultura peruginesca (della quale offre un’interpretazione ovviamente molto più rozza, essendo artista di minor qualità), come dimostra soprattutto la figura di san Sebastiano nell’ultimo scomparto. La composizione vede al centro la Madonna col Bambino e ai lati un santo vescovo, san Raffaele, san Michele e san Sebastiano.
Al Museo Archeologico Nazionale di Campli (Teramo) è conservata una placca di avorio, in stile orientalizzante, raffigurante un cavallo rivolto verso destra, raffigurato in compagnia di altri animali, uno che sta sopra alla sua schiena e due invece che si trovano sotto. È un’opera difficile da decifrare: non si è ancora capito quali siano gli animali che accompagnano il cavallo. Inoltre, l’equino si mostra con un aspetto molto particolare: la sua coda, infatti, ha le sembianze della testa di un ulteriore animale. Come quasi tutti gli altri materiali esposti al museo di Campli, anche questa placca è stata trovata in una delle tombe (in particolare nella sepoltura di una adolescente ricca) della vicina necropoli di Campovalano, scavata estesamente solo negli anni Sessanta del XX secolo. Questa placca è talmente particolare da essere diventata simbolo stesso del Museo Archeologico Nazionale di Campli: la sua fattura dimostra che gli antichi piceni intrattenevano commerci fuori dal loro territorio, dal momento che lo stile di quest’opera non ha riscontri in area picena.
Il Museo Archeologico Nazionale di Villa Frigerj a Chieti conserva un particolarissimo oggetto proveniente dalla necropoli di Campovalano: si tratta di un paio di sandali in bronzo di tipo etrusco, rinvenuti in una tomba femminile, costituiti da un piano di appoggio sagomato in legno (oggi perduto), reso flessibile con una cerniera snodata a metà della suola, che si presentano alti e con la fascia esterna decorata con figure mitologiche, creature fantastiche e animali reali. In particolare, la decorazione presenta una sirena con capelli lunghi, zampe di leone, coda e ali a ventaglio (secondo la mitologia classica, la sirena era un animale metà donna e metà uccello), raffigurata mentre attacca una figura maschile, e poi ancora una chimera, una pantera che assale un cinghiale, un cavallo con una figura femminile, alcuni serpenti, un cavaliere nudo a cavallo. Si tratta di un oggetto di lusso, decorato da un abile artigiano, che denota l’appartenenza al ceto egemone della donna a cui appartenevano.
L’antica Teate, corrispondente all’odierna Chieti, era uno dei principali centri del popolo dei marrucini, popolazione italica di lingua osco-umbra che combatté contro i romani alla fine del IV secolo a.C. per poi allearsi all’avversario accettando di essere subordinati ai romani: grazie a questa mossa riuscirono tuttavia a ottenere per alcuni secoli una certa autonomia, fino alla completa romanizzazione del I secolo a.C. La città di Teate venne quindi ammodernata: nel II secolo d.C. vi fu anche costruito un impianto termale, di cui si sono conservati i mosaici pavimentali. Come tipico di tutte le terme dell’antica Roma, anche le terme di Teate si presentavano con pavimenti a mosaico che riproducevano animali marini, reali o fantastici: non fa eccezione la raffigurazione del grande ippocampo, ottimamente conservata. Era una leggendaria creatura metà cavallo e metà pesce che veniva spesso raffigurata nei cortei del dio Poseidone. Nel mosaico teatino è raffigurato, assieme a un altro ippocampo identico sul lato opposto, assieme a un altro animale marino, una sorta di delfino.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER