Appena ci s’inoltra lungo i vicoli di Trebiano Magra, il silenzio viene interrotto qua e là solo da qualche miagolio. C’è calma ovunque, anche se l’estate è nel suo pieno, anche se è mattina e il sole della Val di Magra non ha ancora cominciato ad abbrustolire i caruggi lastricati di cotto e pietra, anche se sono già abitate le seconde case che per due mesi l’anno ravvivano questo borgo aggrappato al pendio d’una collina, impossibile da percorrere con qualunque mezzo che non siano le proprie gambe, groviglio di case medievali con le facciate tinte di colori pastello. È l’estate la stagione in cui Trebiano Magra si ridesta dai suoi torpori, eppure sembra che il paese sia popolato più da gatti che da esseri umani. Alcuni, forse più abituati alla presenza degli esseri umani, si lasciano avvicinare, e poi tornano a dormire una volta appurate le intenzioni pacifiche di chi tenta un approccio. Altri invece sono più diffidenti e si dileguano saltando sopra ai muretti a secco. Eccone quattro tutti assieme, sdraiati a riposarsi: sono lì, immobili ma vigili, e hanno l’aria di chi non è disposto a scostarsi d’un centimetro manco se su questi tetti piovessero mute di cani affamati. Sarebbe fin troppo facile definirli i “guardiani del borgo”: quando c’è un borgo e ci sono dei gatti, per le narrazioni dei dépliant turistici i gatti sono sempre i guardiani del borgo. Solo che i gatti che popolano i borghi della Liguria non hanno voglia di far niente, figurarsi se hanno la minima intenzione di far da guardia a qualcosa. Il massimo che possono fare è offrirti un benvenuto svogliato e sonnolento appena arrivi.
E sarebbe anche una gratificazione giusta e corretta per il viaggiatore che s’è preso la briga di salire a Trebiano, perché qui non ci s’arriva per caso. Trebiano non è un luogo di passaggio. Bisogna volerci andare. Anche il cartello che indica la strada per il borgo, quella che s’arrampica partendo da Romito Magra, sembra non avere una gran voglia di farsi vedere. Sbiadito, attaccato alla facciata d’una casa sulla provinciale, quasi nascosto dopo la rotonda da cui parte la strada che porta a Lerici. La via per Trebiano comincia qui. Tre chilometri d’asfalto che montano in mezzo agli ulivi, coi tornanti che s’aprono ogni tanto a regalare inattese vedute sul golfo dei Poeti. Una via storta che porta alla piazzetta dove sorge l’unica chiesa di Trebiano, quella di San Michele Arcangelo, costruita fuori dall’impianto del borgo.
La pieve, della quale si ha notizia fin dal XII secolo, si presenta con una facciata barocca piuttosto elaborata, con due volute che raccordano il frontone al registro inferiore, e con un elegante timpano spezzato che accoglie la statua di san Michele. L’interno, su tre navate, è colmo d’opere d’arte. In una cappella che s’apre sulla destra, si nota un altare al cui centro campeggia una statua lignea di san Rocco, affiancata da quelle d’altri due santi, che svettano sopra una struttura che copre un pregevole ciclo di santi affrescati del Seicento, ma forse anche di qualcosa prima. Il san Rocco è opera eseguita nel 1524 da Domenico Gar, scultore francese che dalla valle della Marna, nella Francia del nord, era finito, giovanissimo, da queste parti, al seguito di suo padre Desiderio, che lavorava tra Carrara e Pietrasanta. Il san Rocco di Trebiano è, allo stato attuale delle conoscenze, la prima opera nota di questo artista: un lavoro che, per la comunità locale, riveste peraltro un’importanza mica secondaria, dato che san Rocco è il santo patrono di Trebiano. Dentro alla pieve, vicino alla porta della sacrestia, c’è una pietra sulla quale la tradizione del paese vuole che il santo abbia poggiato il piede mentre passava di qua come pellegrino. San Rocco dev’esser stato l’unica persona della storia dell’umanità a esser capitata a Trebiano senza un motivo apparente. Ad ogni modo, la statua di Domenico Gar doveva esser piaciuta molto agli abitanti del borgo, dal momento che quello stesso anno uno dei cittadini più in vista della vicina Sarzana, Jacopo Mascardi, per la sua cappella nella chiesa di Trebiano, commissionava al “francesino”, come lo chiamavano i contemporanei, un trittico marmoreo che doveva essere “pulchritudinis et bonitatis ad similitudinem et comparationem imaginis Sancti Rochi lignei existentis in ecclesia seu plebe Sancti Michaellis de Trebiano”. Cioè di bellezza e qualità paragonabili a quelle della statua di legno esistente nella chiesa di San Michele di Trebiano. Domenico Gar aveva rappresentato san Rocco con l’insolito elemento iconografico dell’angelo che gli cura la ferita sulla gamba. E anche nel trittico per i Mascardi s’era dimostrato disposto a rivisitare le iconografie tradizionali: nel suo lavoro in marmo, una Madonna col Bambino affiancata dai santi Bernardo e Caterina d’Alessandria, si vede Caterina colta nell’inusuale atto di soggiogare l’imperatore romano Massimiano, sotto il quale la santa aveva subito il suo martirio. Domenico Gar tenne fede all’impegno e nel giro di cinque anni consegnò ai committenti un’opera di gran qualità, che dimostra come si fosse lasciato alle spalle i suoi retaggi oltremontani e si fosse ben inserito nel contesto della scultura toscana del sedicesimo secolo.
Dopo aver cercato di capire qualcosa, sforzandosi di guardare oltre l’osceno vetro riflettente, della croce dipinta del Quattrocento (del 1456, per esser precisi, ed eseguita da un pittore anonimo “probabilmente di cultura adriatica”, ipotizza Piero Donati, “e comunque estraneo all’area toscana e all’area ligure”: non sapendo chi è, neppure possiamo sapere come sia finita qui una sua opera), si noterà la presenza d’un’altra croce coeva, che nel Seicento subì un’autentica integrazione: nel 1634 un pittore originario della Versilia, Filippo Martelli, gli dipinse attorno quattro pannelli. Oggi, il poco ch’è dato ammirare della croce originaria s’intravede dall’ovale al centro della curiosa composizione che fu commissionata a Martelli proprio con lo scopo di preservare la croce. Riusi storici: un’opera vecchia di due secoli, che non doveva esser messa granché bene, acquistava nuova vita. Un po’ come l’acquasantiera in marmo dall’altra parte della chiesa, opera di reimpiego nel senso più consono del termine, dal momento che venne ricavata da marmi d’epoca romana, che forse componevano un antico altare votivo. Tanti hanno provato, senza riuscirci, a decifrare le antiche iscrizioni che ancor oggi si leggono sul marmo.
Il borgo di Trebiano comincia oltre la chiesa, oltre la piazza coi platani, al di là d’un antico varco a sesto acuto tra quelle ch’erano un tempo le mura del borgo: quella ch’era la porta d’ingresso a Trebiano oggi è una casa, una residenza privata. Trebiano è citata per la prima volta in un documento del 963, ma le origini dell’insediamento forse sono ancora più antiche, e lo stesso toponimo dovrebbe far riferimento ai fondi d’una famiglia romana, la Gens Trebia, che aveva possedimenti nella zona. Oltrepassata la porta, partono due strade: una sale, l’altra scende. Quella che sale è la via di Mezzo, la main street di Trebiano. Portali di ardesia, cascate di bougainville, persiane di legno e presenze feline s’alternano senza soluzione di continuità fino a condurre il visitatore a una scalinata che gira bruscamente nella direzione opposta e porta a un livello superiore. Sembra infatti che il borgo sia stato costruito su terrazze abbarbicate alla collina, tutte una sopra all’altra, e le abitazioni si dispongono ai lati di queste stradine che le attraversano in lunghezza. E ogni tanto, al centro della strada, s’aprono strette scalinate che si fanno largo tra gli edifici e propongono al visitatore corte e ripide scorciatoie per accedere al livello superiore. Altre volte invece i vicoli s’allargano e, del tutto inaspettate, dietro un palazzo, al di là d’un edificio, dopo uno slargo, compaiono piazzette, loggiati, balconate che offrono rinfrancanti, spettacolari viste sulla piana del Magra: lo sguardo indugia sul corso sinuoso del fiume che sfocia nel mar Ligure, sul profilo aguzzo delle Apuane che si stagliano sulla sinistra, sulle città che punteggiano la costa, sulle propaggini del promontorio del Caprione che divide la valle del Magra dal mare. Dovessimo dar retta a Simone de Beauvoir, questi panorami sono come dei premi. Premi che Trebiano magnanima concede ai suoi ospiti come riconoscimento per essere arrivati fin qui.
Simone veniva qui per far visita a sua sorella, Hélène de Beauvoir, la pittrice, ogni tanto omaggiata in zona con qualche mostra che ricorda il suo soggiorno ligure. E Trebiano doveva averla colpita, dacché Simone ne parla nella sua autobiografia Tout compte fait. “Che ricompensa ritrovarmi con mia sorella seduta su di un terrazzo affacciato sulla campagna e sul mare! Non avrei goduto così bene dell’immobilità, del silenzio, del rumore dei cubetti di ghiaccio nel bicchiere, se non fosse stato per questa giornata di fatica alle spalle. Cenai e dormii con la felice consapevolezza di un compito ben compiuto. Tutta la mattina ho camminato con mia sorella per strade ripide, tra muri bianchi: questo villaggio, ancora ignorato dai turisti, è abitato solo da contadini: così dovevano essere anche Èze e Saint-Paul-de-Vence ai vecchi tempi”. La verità però è che qui di contadini a quell’epoca se ne vedevano pochi, dato che Trebiano “era un paese di operai con forte identità politica comunista e anarchica che, terminato il lavoro in fabbrica, si occupavano del campo o dell’orto”: questa la ricostruzione, meno poetica ma più fedele alla realtà, resa da Umberto Roffo, poeta innamoratissimo di Trebiano, a Marco Ferrari per il suo libro Mare verticale, tutto dedicato a quel tratto della Liguria di Levante che va dalle Cinque Terre a Bocca di Magra.
Hélène de Beauvoir aveva trovato qui la sua Provenza italiana, aveva trovato a Trebiano il sole che avrebbe poi riversato nei suoi dipinti. Abitava nella via di Mezzo, in un edificio appariscente, uno dei più grandi del borgo, oggi una struttura ricettiva che nel nome reca il ricordo della sua illustre inquilina, un palazzo che un tempo era stato un convento, e dalle sue finestre si vede la valle. Quando s’incontrano le piazzette con la vista aperta sulla piana e sul mare si comprende quale fosse l’importanza strategica di questo borgo in tempi più antichi, quand’era un presidio che controllava i traffici nella valle del Magra e gli accessi al porto di Lerici, piccolo scalo per le navi dirette a Genova. E allora anche Trebiano conobbe diversi dominatori: fu prima dei Vescovi di Luni, poi passò sotto il controllo di Pisa e infine, nel 1254, venne acquistata dai genovesi. E proprio il castello sulla sommità del borgo, distinguibile anche a chilometri di distanza, è forse il più vistoso testimone di quei tempi. Cadente, devastato, diroccato, eppure ancora capace d’incutere una certa inquietudine, nobile rovina che dall’alto dei suoi torrioni, delle sue arcate ormai morse dai rampicanti, delle sue mura un tempo forti e oggi pericolanti, sembra conservare seppur a fatica la forza di dominare l’abitato, rudere imponente sopravvissuto ai saccheggi, all’incuria, alla storia. Un’anziana del paese mi racconta di quando, decenni fa, si poteva ancora salire al castello, mi racconta di quando nel paese c’era vita, di quando le istituzioni avevano più cura per la loro memoria storica. La via d’accesso, oltre le sterpaglie che circondano la rocca, è sbarrata, un cancello impedisce l’ingresso. È proprietà privata. Si fa giusto in tempo ad attraversare la piccola distesa di orti che anticipa il castello per fermarsi a guardare i muri perimetrali. O quello che ne è rimasto. Vuole la leggenda che in uno degli anfratti della rocca, dentro una di quelle pareti di sassi, sia stato nascosto il manoscritto originale della Divina Commedia di Dante Alighieri. E sempre la leggenda vuole che nessuno di tutti quelli che si sono messi a cercarlo l’abbia mai trovato. C’è però, come per ogni leggenda, un fondo di verità: il poeta soggiornò davvero in queste terre, durante il suo esilio da Firenze. Era il 1306, ed era stato chiamato a svolgere il ruolo di procuratore del marchese Franceschino Malaspina durante le trattative della Pace di Castelnuovo, che pose fine a una guerra di sette anni tra i Malaspina e i Vescovi di Luni. A Castelnuovo Magra, sulle rovine del Castello dei Vescovi di Luni, una targa ricorda l’incarico diplomatico del poeta.
Non sappiamo se Dante Alighieri è mai stato a Trebiano. C’è stato però un altro letterato, Jean-Paul Sartre: quando veniva qui con Simone de Beauvoir a trovare Hélène, la sua cognata de facto, andava a rilassarsi sulla panchina che sta di fronte alla chiesa. Qualcuno nel borgo, qualcuno ch’era già qui negli anni Sessanta, giura di ricordare ancora la sagoma di Sartre all’ombra dei platani che nascondono la facciata di San Michele. Camminando per il borgo non si direbbe: non esiste più traccia di quella specie d’exclave parigina che ravvivava le estati di Trebiano, non c’è più il “trambusto estivo dei francesi di Saint-Germain-des-Près”, come lo ha definito Marco Ferrari. Non c’è più, sulle rive del Magra, quel ritrovo di scrittori, poeti, letterati, intellettuali che animava l’estati d’un tempo e onorava il nome del golfo su cui s’affacciano i borghi della riviera. Non c’è più un segno, non c’è più un ricordo, non c’è più un’atmosfera anche lontanamente paragonabile. Tutto finito. Tutto confinato nelle pagine dei libri e nella memoria di chi c’era. Sotto l’ombra dei platani rimangono solo i fantasmi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).