Fin dal primo momento in cui si entra nel Salone Maria Luigia della Galleria Nazionale di Parma non si potrà fare a meno di notare cosa occupa il centro esatto del grande ambiente che accoglie, sulle sue pareti, gli antichi saggi accademici dell’Accademia di Belle Arti della città: un sontuoso trionfo da tavola.
Damià Campeny, Trionfo da tavola (1803-1806; Parma, Galleria Nazionale) |
Che cos’è, intanto, un trionfo da tavola? Si trattava, molto semplicemente, di composizioni di soprammobili, che potevano assumere le sembianze di statue o elementi d’architettura, e che venivano disposti al centro di una tavola da pranzo per ornarla durante ricevimenti importanti, magari anche con l’intento di stupire l’ospite: la ricercatezza di tali composizioni e i materiali pregiati con cui gli oggetti venivano realizzati le rendeva, com’è naturale immaginarsi, proprie delle sale da pranzo dei ceti abbienti. Già durante il Rinascimento era uso piuttosto frequente decorare il centro della tavola da pranzo, ma col passare del tempo i trionfi da tavola iniziarono ad avere schemi sempre più complessi, per arrivare a grandi strutture come quella che caratterizza il trionfo parmense. Spesso avevano anche una funzione pratica: servivano per reggere vivande (soprattutto frutta) oppure per contenere bevande, dato che in tali trionfi non mancavano talvolta vasi e recipienti. E, ovviamente, i trionfi da tavola seguivano, oltre che le inclinazioni personali del committenti, anche i gusti artistici dei tempi in cui venivano realizzati: il trionfo che possiamo ammirare nel Salone Maria Luigia, realizzato tra il 1803 e il 1806, è infatti in stile neoclassico.
Vicenç Rodés, Ritratto di Damià Campeny (1838 circa; Barcellona, Reial Acadèmia Catalana de Belles Arts de Sant Jordi) |
William Theed, Ritratto di Carlo II di Parma (1840; Parma, Galleria Nazionale) |
Abbiamo raccontato questa breve storia delle vicissitudini dei Borbone di Parma agli inizi dell’Ottocento per il fatto che, con ogni probabilità, il trionfo da tavola di Damià Campeny dovette seguire la famiglia: Carlo II aveva vissuto la sua adolescenza a Roma, sotto la tutela del nonno Carlo IV di Spagna, ed è quindi probabile che ricevette il trionfo in eredità alla scomparsa del re, nel 1819. È quindi ipotizzabile che nel 1824, nel momento in cui successe alla madre Maria Luisa come duca di Lucca, abbia portato con sé l’arredo in Toscana, per poi di nuovo inviarlo in Emilia quando diventò duca di Parma e Piacenza. Quel che è certo è che la composizione è attestata per la prima volta a Parma nel 1861, in un inventario dei beni degli ex duchi parmensi presenti nel Palazzo della Pilotta, redatto a seguito dell’Unità d’Italia. Arrivò definitivamente in Galleria nel 1865, quando l’Accademia di Belle Arti ottenne dai Savoia il permesso di spostarlo.
Vista dal fondo del Salone |
Il trionfo da tavola fu però sempre celato alla vista dei visitatori della Galleria a causa della sua fragilità: è stato però restaurato verso la fine degli anni Novanta, e il pubblico ha potuto ammirarlo per la prima volta a partire dal 1999, quando la Galleria Nazionale di Parma lo espose nella sua attuale collocazione, cercando di ricreare quello che poteva essere l’allestimento originario, in una mostra dedicata proprio al capolavoro di Damià Campeny.
Come si può facilmente notare osservandolo, il trionfo è un arredo molto complesso: circa ottanta pezzi, se includiamo anche i trentadue leoni che sorreggono la base, il tutto realizzato in marmo di vari colori (per le basi), bronzo talvolta dorato (le statue) e alabastro (alcuni oggetti di contorno). Come anticipato, l’opera riflette il gusto neoclassico del tempo con statue contraddistinte da pose eleganti e imperturbabili, e dai corpi prestanti e armoniosi. Il complesso programma iconografico alla base del trionfo si ispira al celebre trattato di iconologia di Cesare Ripa e, banalizzando, possiamo dire che rappresenti il ciclo delle stagioni. Al centro della composizione si ergono le statue di Apollo e Diana, a simboleggiare rispettivamente il sole e la luna. Le quattro figure femminili sedute attorno a loro rappresentano invece i quattro elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco), ognuno rappresentato da un diverso oggetto che rimanda in modo inequivocabile all’elemento. Sue due alte basi, equidistanti rispetto alle figure di Apollo e Diana e alla fine della composizione, troviamo, sui due lati, le statue che raffigurano gli dèi Cerere e Bacco, rispettivamente dea della terra, responsabile del ciclo delle stagioni, e dio del vino. Attorno a loro vediamo statue che raffigurano offerenti in atto di recare doni ai due dèi, mentre le statue rimanenti raffigurano le stagioni e i mesi, questi ultimi caratterizzati anche in virtù del segno zodiacale corrispondente applicato alla base.
Sembra incredibile come lo scultore sia riuscito a creare un arredo così complesso, ricco di rimandi alla mitologia e all’antichità classica, nei confronti delle quali all’epoca si nutriva un vivo interesse: un interesse che connotò anche l’arte di Damià Campeny e che lo portò a realizzare un così vasto trionfo in cui la vista dell’osservatore si perde, cogliendone allo stesso tempo la bellezza e il significato.
Vista dal fondo del Salone |
Vista di uno dei due lati |
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo