Dentro alla Cappella degli Scrovegni con Roberto Longhi: il Giotto spazioso e i suoi coretti


Andiamo alla scoperta della capacità di Giotto di rappresentare lo spazio... nella Cappella degli Scrovegni a Padova, e con Roberto Longhi :-)

Uno dei grossi problemi che dobbiamo affrontare se decidiamo di visitare la Cappella degli Scrovegni, è l’esigua durata che ci viene concessa per la visita: appena un quarto d’ora. Ve ne aveva già parlato la nostra Ilaria in un articolo della sua rubrica Musei d’Italia. Dunque, essendo così poco il tempo a nostra disposizione, è difficile, ahinoi, soffermarsi su ogni singolo affresco che il genio di Giotto ha lasciato nella cappella. In questo post vogliamo quindi concentrarci su un singolo particolare: i due coretti, le due finestre dipinte sui lati dell’arco trionfale. Per intenderci, quando entriamo, li vediamo se ci voltiamo subito a sinistra.

L'arco trionfale della Cappella degli Scrovegni, Padova
L’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni, Padova. Gli affreschi di Giotto furono eseguiti tra il 1303 e il 1305

Dei due coretti aveva già parlato splendidamente la nostra amica Grazia Agostini nel suo blog Senza dedica descrivendoci “la finestra di Giotto”, “la novità di un artista che scopre che la pittura può raffigurare quello che l’occhio vede, senza preoccuparsi di soggetti, di simboli o di figure sacre, senza raccontare una storia”, per descrivere con le sue parole il senso di questa raffigurazione. E sì, perché c’è da dire che molti studiosi si sono affannati nel cercare un significato per quella che si pensava fosse un’allegoria, ma che di allegorico in realtà non ha niente, e tra poco vedremo perché. Dunque: oltre a Grazia, vogliamo chiamare in causa un’altra guida che ci porti dentro questi due particolari degli affreschi giotteschi: Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, che sui due coretti di Giotto basò un suo fondamentale saggio del 1952, Giotto spazioso, pubblicato per la prima volta sulla rivista Paragone (nel numero 131, da pagina 18 a pagina 24) e poi ripubblicato su diverse raccolte di saggi longhiani, come “Giudizio sul Duecento” e ricerche sul Trecento nell’Italia centrale.

Intanto, cerchiamo di capire cosa sono questi due “coretti”. Ecco come li descrive Roberto Longhi: “due vani gotici, dei quali, riparati come sono da un parapetto a lastra rettangolare, non vediamo che l’alto delle pareti a specchi riquadrati di marmo mischio, la volta a costole gotiche dalla cui chiave pende una lumiera di ferro a gabbia con le sue fiale d’olio e la bifora stretta e lunga, aperta sul celo. Figure, nessuna”. I due coretti sono quelle aperture, quelle finestre che, come detto prima, notiamo sui due lati dell’arco trionfale. Sono i primi due riquadri che vediamo all’altezza della fascia di affreschi più bassa delle pareti laterali. Sembra che Giotto voglia aprire l’arco che ci conduce all’altare per farci vedere qualcosa che sta oltre questo spazio: ecco quindi due cappellette coperte da volte a crociera, con le costole gotiche alla cui intersezione è appeso un lampadario in ferro, e sulle pareti delle quali vediamo due bifore oltre cui si intravede il cielo azzurro. Per continuare con le parole di Longhi, Giotto non ha fatto altro che aggiungere “due cappellette segrete la cui base, data l’altezza delle volte, può ben essere sul piano stesso del pavimento della cappella maggiore; e alle quali può dunque immaginarsi di accedere dal presbiterio stesso”.

I due coretti della Cappella degli Scrovegni, Padova
I due coretti della Cappella degli Scrovegni

Si tratta di una novità rivoluzionaria. Tanto rivoluzionaria che nel suo Giotto spazioso, Longhi si dichiara subito sorpreso dal fatto che gli storici dell’arte prima di lui non abbiano dedicato sufficiente attenzione ai due coretti, termine che la cui “invenzione” viene attribuita dallo studioso a un altro storico dell’arte, Giuseppe Fiocco. E per capire la portata della novità, possiamo ancora usare una definizione che Longhi dà dei due coretti: “inganni ottici”. Giotto infatti, secondo Roberto Longhi, mostra un precocissimo interesse per la prospettiva, la tecnica per la rappresentazione degli oggetti nello spazio su un piano a due dimensioni, come può essere una tela o un muro. E diciamo “precocissimo” per il fatto che, com’è noto, l’interesse per la prospettiva diverrà “sistematico”, per così dire, solo nel Quattrocento. L’esempio più alto di tale giottesca passione sono proprio questi due coretti della Cappella degli Scrovegni: “Giotto aveva dunque piena coscienza della prospettiva”. Qual è stata, per essere precisi, l’operazione compiuta da Giotto? Ci vengono ancora in soccorso le parole di Longhi: “Per chi, ora, si collochi al centro del pavimento della cappella, e cioè nel luogo più adatto ad abbracciare con un solo sguardo la parete in cui si apre l’abside, torna sùbito chiaro, palmare, sensibile fino all’illusione che i due finti vani ’bucano’ il muro, mirano ad intervenire nell’architettura stessa del sacello. All’effetto di veridica illusione convengono le due volte gotiche concorrendo ad un solo centro che è sull’asse della chiesa e cioè nella profondità ’reale’, esistenziale dell’abside; conviene la luce interna che, partendo dal centro, si diffonde inversamente nei due vani, persino sulle colonnine e sugli stipiti delle due bifore; conviene la luce esterna di celo che colma l’apertura delle bifore stesse”.

Longhi individua in tre momenti fondamentali la riuscita dell’illusione giottesca. Il primo: le linee immaginarie che solcano i coretti in profondità convergono verso quello che la prospettiva scientifica avrebbe codificato come il punto di fuga, che qui è unico ed è posizionato al centro dell’arco, nello spazio reale. Il secondo: la luce interna della cappella che riflettendosi sopra i due coretti li fa apparire più veritieri. Il terzo: la luce del cielo dipinto oltre le bifore, che sembra reale. Longhi dice che possiamo quasi immaginarci le rondini che lo solcano, quel cielo al di là delle finestre. Insomma: ci troviamo di fronte a un esperimento illusionistico e, dice Grazia Agostini, “per la prima volta, nell’arte occidentale, c’è uno spazio senza figure”, “dove irrompe, per la prima volta, il mondo esterno”.

Se osserviamo gli affreschi della Cappella, possiamo notare che Giotto applicò questa sua prospettiva intuitiva solo alle architetture prive di figure. E Longhi prova anche a domandarsi il perché, e a darsi la risposta: per il semplice fatto che Giotto probabilmente riteneva necessari questi accorgimenti illusionistici solo laddove andavano rappresentati spazi che potevano essere reali. Nel senso che al di là dell’arco di trionfo avrebbero potuto davvero esserci due cappelle segrete. Cosa invece non possibile per le architetture delle scene sacre, che non dovevano dunque rappresentare spazi reali, bensì memorie di spazi, come dice Longhi. Giotto vuole, insomma, esplorare le potenzialità della pittura nella rappresentazione dello spazio reale, ed è il primo pittore ad avere questa intuizione: si comprende dunque il motivo per cui questi due coretti non hanno alcun significato allegorico.

E per questo possiamo anche intuire, oltre alla enorme novità portata da Giotto con questo suo particolare, quale sarà la notevole influenza che verrà esercitata sulle generazioni dei pittori successivi, a cominciare da tutti quelli che lavorarono in area padovana. Per Longhi, qui, nella Cappella degli Scrovegni, “è lecito veramente parlare di prospettiva in toto”: non siamo ancora, ovviamente, alla prospettiva scientifica e matematica che giungerà nel Quattrocento, ma è sufficiente per parlare di un Giotto che ha una vasta conoscenza, seppur intuitiva, delle regole che stanno alla base della rappresentazione dello spazio: di un Giotto spazioso, dunque, ed ecco il senso del titolo del saggio di Roberto Longhi.

Cosa? È già passato un quarto d’ora? Beh... ci siamo fermati ad ammirare i due coretti, abbiamo ripreso le parole di Roberto Longhi, abbiamo cercato di comprenderle, ci siamo nuovamente fatti prendere dalle finestre di Giotto... e il tempo è volato, non poteva essere altrimenti. Comunque, non c’è problema: torneremo ;-)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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