Wael Shawky a Venezia dimostra che si può essere “Stranieri Ovunque” senza ipocrisie


La Biennale di Venezia 2024 è caratterizzata da un anticolonialismo di maniera, scontata declinazione degli imperativi del politically correct. In questa omologazione, si distingue il Padiglione dell’Egitto di Wael Shawky, che mette in atto una tragedia surreale e senza catarsi.

Stranieri Ovunque, Foreigners Everywhere, il tema individuato dal curatore Adriano Pedrosa per la sessantesima edizione della Biennale Arte, è uno spunto di riflessione estremamente attuale rispetto alle contraddizioni della comunità mondiale globalizzata, in cui le merci circolano liberamente ma gli spostamenti delle persone sono soggetti a restrizioni differenti a seconda del posizionamento sulla scena geopolitica dei loro Paesi di provenienza e dove le rivalità tra coalizioni internazionali dotate di armi di distruzione di massa rendono sempre più plausibile la prospettiva di una Terza Guerra Mondiale. Se la mostra internazionale finisce per risolvere il potenziale dirompente dell’argomento con l’ennesima rassegna di artisti che recuperano a vario titolo pratiche tradizionali (preferibilmente desunte dal patrimonio culturale di minoranze ferite dal corso della storia), anche molti padiglioni nazionali appaiono uniformati da un analogo anticolonialismo di maniera, ulteriore scontata declinazione dell’imperativo democratico del politically correct con cui la società occidentale orgogliosamente si erge a culla del progresso etico universale. È evidente che l’ostentazione “di nicchia”, in un contesto come la Biennale, di un mea culpa generalizzato da parte dei paesi ricchi (a cui fa da contrappunto la circostanziata stigmatizzazione di casi specifici di sopraffazione da parte dei rappresentanti dei paesi emergenti) conduce il ragionamento in un vicolo cieco che, livellando la rilevanza delle singole differenze, finisce per generare una nuova e paralizzante forma di omologazione.

Tra i progetti nazionali che rifiutano di adeguarsi a tale semplificazione acritica, si distingue il Padiglione Egitto, interamente dedicato a Wael Shawky, invitato last minute lo scorso settembre con conferma ufficiale solo in novembre. L’artista (nato ad Alessandria d’Egitto nel 1971 e formatosi alla Graduate School of Fine Art presso l’Università della Pennsylvania, Stati Uniti) presenta in questa sede il film musicale in otto atti Drama 1882, incentrato sulla rivolta nazionalista guidata dal colonnello di origini contadine Aḥmad ʿOrābī, che tra il 1879 e il 1882 cercò di destituire il Chedivè Tawfīq Pascià e liberare il paese dalle ingerenze esterne. L’opera scandisce l’escalation di violenze di questo conflitto, innescato dall’uccisione di un guardiano di asini egiziano per mano di un maltese in uscita dal consolato inglese di Alessandria e dalla successiva insurrezione popolare, in cui persero la vita circa trecento persone. Nonostante la maggior parte delle vittime del tumulto fossero egiziane, il caso venne preso a pretesto dall’impero britannico per attaccare l’Egitto, con l’alibi di difendere i suoi cittadini in loco. A un mese di distanza da questa sommossa di strada, l’esercito inglese bombardò Alessandria uccidendo più di duemila persone, per poi sconfiggere definitivamente l’esercito arabo nella storica battaglia di Tel El Kebir, che decretò l’occupazione della nazione, destinata a durare fino al 1956.

Il video che mette in scena gli episodi salienti di questa vicenda, realizzato in soli due mesi portandone avanti in parallelo ogni componente, è a tutti gli effetti un’opera d’arte totale in senso wagneriano, essendo Shawky autore di coreografia, sceneggiatura, costumi, scenografie e colonna sonora, quest’ultima da lui composta con la tastiera senza nozioni di scrittura musicale. La proiezione (della durata di 45 minuti, causa della fila all’ingresso in cui vale senz’altro la pena di irreggimentarsi) è il fulcro di un’installazione ambientale che introduce il visitatore nell’atmosfera del film, oggettualizzandone le istanze di contesto ed esplicitando le dicotomie a esse sottese. All’interno di uno scaffale di legno ambiguamente biomorfico troviamo un cumulo di steli legnosi di canna da zucchero placcati in argento, allusione all’ingerenza europea nelle politiche agricole egiziane che portò alla sostituzione della tradizionale e fiorente coltivazione del cotone con quella della pianta tropicale, originaria delle regioni indomalesi, per soddisfare la richiesta crescente di zucchero nel Vecchio Continente. In un’altra vetrina sono esposti raffinati manufatti artigianali dalla connotazione ambivalente, rinviante a un’estetica d’élite che assimila l’imperialismo ottomano al colonialismo britannico. Per contrasto, la grande scultura centrale in fango simile a un paguro meccanico (figura ricorrente nell’immaginario dell’artista) rappresenta la società agricola egiziana, tanto fragile quanto monumentale nella sua aspirazione al cambiamento. Per inciso, sono proprio tali generi di lavori che, unitamente ai disegni progettuali dei film, si ritrovano più di frequente negli stand fieristici delle gallerie che rappresentano l’artista, tra cui l’italiana Lia Rumma (Napoli, Milano) e l’internazionale Lisson Gallery (Londra, New York, Los Angeles, Shanghai, Beijing), mentre i video di cui sono emanazione (e da cui traggono il loro significato) hanno prevalentemente una circolazione istituzionale.

Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell'Egitto alla Biennale di Venezia 2024
Drama 1882, mostra di Wael Shawky per il Padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia 2024. Foto: Matteo De Mayda

Ciò che conferisce coerenza alla vasta gamma di mezzi espressivi utilizzati da Wael Shawky è l’interesse per l’idea di società in transizione (da nomadica ad agricola e da agricola a urbanizzata), da cui deriva l’uso della storia come mezzo principale nella sua arte. A differenza dei tanti padiglioni genericamente “di denuncia” che troviamo alla Biennale, in cui vari media contribuiscono a dettagliare e documentare una circostanza specifica, tendenzialmente a discapito dell’autosufficienza dell’opera rispetto al fatto di cui è la presentazione, qui la storia non è un fine in sé, ma uno strumento e un modello per una creazione di portata universale.

Scandagliare la storia da una prospettiva araba, già celebre a questo riguardo la trilogia di video interpretati da marionette intitolata Cabaret Crusades (2010–2015) che riconsidera la versione occidentale delle Crociate, non significa dunque per lui portare alla luce una verità univoca da opporre alle mistificazioni delle narrazioni ufficiali, ma dimostrare poeticamente la parzialità di ogni punto di vista a favore di una visione corale dell’umanità. Prendendo spunto dall’intricata gestazione dell’identità nazionale egiziana ed enfatizzando contraddizioni, ambiguità e mistificazioni delle politiche sottese agli avvenimenti storici, il suo lavoro è commovente ed efficace nel mettere a nudo vincitori e vinti come impotenti ectoplasmi in balìa di fragili equilibri di potere. Non, dunque, la rievocazione della storia attraverso il ritmo dei fatti, ma una monodia in cui i personaggi chiave, all’unisono con le fazioni a essi afferenti che ne ripetono le movenze, si affrontano con l’arma ambigua di parole (cantate in arabo con sottotitoli in inglese) glaciali nella loro ufficiosa pacatezza. L’attenzione di Shawky scandaglia le lacune di questo momento caotico e decisivo nella storia egiziana attraverso una minuziosa ricostruzione dei suoi retroscena che finisce per offuscare il concetto di verità, polverizzandolo in una miriade di narrazioni particolari di cui vengono esplicitate le ragioni. Ciò che emerge potente è quindi una sorta di controepica al rallentatore sull’inutilità della guerra e sulla necessità di una revisione storica, in cui la tipizzazione e la deliberata inespressività dei personaggi suscita un coinvolgimento che travalica la collocazione spazio-temporale degli eventi in scena. Emblematico è, a questo proposito, l’episodio della contrattazione in cui i rappresentanti delle potenze coloniali che si contendono l’Egitto si riuniscono attorno a un tavolo pericolosamente inclinato su zampe sbilenche da crostaceo, analoghe a quelle della scultura centrale in mostra. Oppure, ancora di più, la scena in cui Alexandrina Victoria, regina del Regno Unito, passeggia placidamente in abito di gala sulle rovine della città carbonizzata dai bombardamenti magnificando la bellezza della serata, mentre dietro di lei vengono trascinati carri strabordanti di cadaveri.

Quella di Shawky si potrebbe definire come una surreale tragedia senza catarsi, in cui gli stasimi (i momenti in cui il coro con il canto e la danza commentava, illustrava e analizzava la situazione che si stava sviluppando sulla scena) prendono il sopravvento, tessendo e districando al contempo la complessità della situazione.

L’affinità della poetica dell’artista con il pensiero antico mitopoietico è confermata dall’altra grande mostra di cui è attualmente protagonista a Venezia, intitolata I Am Hymns of the New Temples. Anche qui il progetto espositivo è incentrato sull’omonima opera filmica, realizzata nel 2023 al Parco Archeologico di Pompei nell’ambito del programma Pompeii Commitment. Materie archeologiche.

Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Allestimenti della mostra I Am Hymns of the New Temples di Wael Shawky a Venezia, Palazzo Grimani
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky
Wael Shawky, I Am Hymns of the New Temples (2023; fotogramma fa video). Su concessione del Ministero della Cultura - Parco Archeologico di Pompei, nel contesto di Pompeii Commitment. Materie archeologiche, © Wael Shawky

In questa storia pompeiana interpretata da performer con i volti celati da maschere arcaicamente oniriche (passaggio intermedio tra le marionette di Cabaret Crusades e gli uomini-burattino di Drama 1882) si narra la creazione dell’universo dall’uovo primordiale per arrivare a Prometeo e al suo tradimento degli dei a favore di un’umanità connotata dalla stessa smarrita predisposizione all’intrigo degli dei. Anche qui il mito viene trattato come materiale da revisionare e ibridare, mettendo in luce le intersezioni tra racconti epici provenienti da culture diverse, in cui scopriamo, ad esempio, che la sacerdotessa di Era chiamata Io dai greci era conosciuta in Egitto come Iside, mentre il figlio-compagno Epafo divenne Osiride.

Sovrascrivendo storie diverse in una polifonia di voci e di danze cadenzate, l’artista ancora una volta sembra affermare la fluidità della tradizione orale come mezzo privilegiato per tramandare e mantenere viva un’identità, che non sarà mai possibile fissare in una definitiva sistematizzazione scritta onnicomprensiva. La stessa attitudine si ritrova nel video, più datato, con cui Shawky partecipa alla mostra Your Ghosts Are Mine, Expanded Cinemas, Amplified Voices, sempre a Venezia, in corso presso ACP–Palazzo Franchetti e realizzata in collaborazione con Qatar Museums, interessante rassegna che riunisce i lavori di oltre quaranta registi e video artisti provenienti dall’oriente di cultura araba e dal sud del mondo globale. Il film in questione, intitolato Al Araba Al Madfuna III (2016) e parte di una trilogia, si ispira alla visita di Shawky al villaggio di Al Araba Al Madfuna, costruito accanto al sito archeologico di un regno faraonico dell’antico Egitto, dove l’artista ha vissuto per diverse settimane con gli abitanti del posto, assistendo alle loro attività di scavo nel sottosuolo alla ricerca di tesori orientandosi con l’alchimia e i poteri spirituali. Nel video, bambini vestiti con turbanti e baffi che interpretano il ruolo di adulti esplorano il tempio e recitano le parabole raccontate in The Sunflower (1983) dallo scrittore egiziano Mohamed Mustagab, in cui il girasole diventa metafora di un’invenzione del cambiamento che evoca un indissolubile coacervo di inquietudini metafisiche e sociali. Anche qui, lo straniamento provocato dall’alterazione dei colori delle riprese e dall’inconsapevolezza degli interpreti eleva l’episodio di partenza a mito generativo, sempre aperto a ulteriori innesti di significato e nuove interpretazioni.


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