La mostra Reinassance al Museion di Bolzano presenta quindici artisti under 35 operanti nel Nord Italia. L’occasione per la realizzazione della mostra è una borsa di 60.000 franchi svizzeri che la Fondazione Vordemberge-Gildewart assegna ogni anno in collaborazione con un’istituzione espositiva europea – per il 2024 è stato scelto Museion – a un artista, o un’artista, di massimo trentacinque anni della regione selezionata. Tuttavia nella mostra, più che un senso di “rinascita”, si percepisce un clima cadaverico, dove i codici formali e concettuali del secolo scorso vengono rielaborati dagli artisti in modalità prevedibili, più vicine ad una forma di “necrofilia dell’arte” che al senso di nascita e rinascita.
A rafforzare questa atmosfera grave e lugubre giungono alcune grandi tende nere che vanno a dividere lo spazio espositivo del museo, solitamente simile ad una grande white cube. La rielaborazione del ready made e dell’oggetto trovato ci ricollegano alle atmosfere anni Cinquanta del Nouveau Réalisme e alle più prevedibili forme di rielaborazione duchampiana (in mostra Isabella Costabile, Davide Stucchi e Raphael Pohl). Proseguiamo nella mostra con improvvise virate verso forme pittoriche (Giorgia Garzilli) e fotografiche (Jim C. Nedd) ancora prevedibili e addomesticate, e quindi incapaci di confrontarsi e dialogare con la contemporaneità dello spettatore.
Nelle opere in mostra la continua rielaborazione del passato è qualcosa di fine a se stesso, incapace di rappresentare un ponte per affrontare il nostro presente. Non sono sufficienti i riferimenti, fin troppo didascalici e prevedibili, alla “fluidità di genere” (Luca Piscopo) e alle “tematiche ambientaliste” (Tobias Tavella): in questi casi il dispositivo opera affronta questi temi, sicuramente interessanti, in modalità frettolose, incapaci di competere con un presente contemporaneo molto più complesso in cui la semplice realtà sembra superare di gran lunga qualsiasi cosa possa salire sul piedistallo della rappresentazione.
L’opera sicuramente più significativa dell’esposizione è dell’artista italiana di origini marocchine Monia Ben Hamouda, che si è anche aggiudicata il premio della fondazione. Una serie di polveri e spezie poste al suolo con senso pittorico fanno da tappeto a una scultura sospesa che fa riferimento alla scrittura e all’immaginario arabo. L’odore di spezie non ci deve sorprendere più di tanto: si tratta di un’idea ampiamente sviluppata dall’artista brasiliano Ernesto Neto già negli anni Novanta. Al di là di questo, l’opera sembra un monile esotico capace di colpire e sorprendere lo spettatore occidentale che ovviamente non può comprendere nulla delle scritte presenti nell’opera, ma che prova piacere tramite un facile esotismo. L’artista marocchina, come anche un’altra artista presente in mostra, ovvero Binta Diaw, rischiano però di diventare oggetti per un nuovo colonialismo occidentale che premia e apprezza certe soluzioni artistiche come forme di piacevole decorativismo esotico.
Renaissance rappresenta una cartina tornasole di una generazione under 35, che si estende però ben oltre il Nord Italia, e che investe tutta la produzione artistica internazionale che possiamo annoverare nell’ambito dell’arte contemporanea. Una generazione perduta, incapace di affrontare efficacemente il proprio presente, è costretta ad elaborare in modo fine a se stesso i codici del passato ereditati dei propri padri e dei propri nonni. Un’incapacità dell’artista contemporaneo nel “ripensare se stesso” rispetto una contemporaneità troppo variegata e complessa. La mostra non esprime alcun senso di rinascita ma, al contrario, esprime un senso di crisi e di morte, probabilmente voluto, e di cui i curatori e i direttori dei musei possono solo diventare spettatori e testimoni passivi.