Sono passati ormai più di 54 anni da quando Giuliano Matteucci scriveva che la pittura di Ulvi Liegi è “oggi finalmente da tutti riconosciuta come una delle prime voci dell’attuale arte moderna”. Eppure, nonostante a pronunciare tale vaticinio sia stata una delle figure cardine della storia dell’arte italiana, in particolare per la valorizzazione dell’arte toscana tra XIX e XX secolo, ancora nella nostra contemporaneità il nome di Ulvi Liegi certo fatica a comparire accanto a nomi ben più noti dell’arte italiana del primo Novecento a cui secondo Matteucci apparteneva di diritto, come Lorenzo Viani, Ardengo Soffici e Ottone Rosai. Per tale motivo ci sembra particolarmente meritoria la mostra Un linguaggio artistico originale: Ulvi Liegi interprete della luce che, inaugurata nella sede di rappresentanza di Castagneto Banca 1910 a Livorno il 30 novembre 2024, resterà aperta fino al 25 gennaio 2025. Il nuovo appuntamento si inserisce in una felice serie di esposizioni che da ormai alcuni anni vengono promosse dalla banca e curate dallo storico dell’arte Michele Pierleoni, e che hanno come fine la valorizzazione di importanti artisti livornesi e toscani.
Anche stavolta il proposito, seppur raggiunto con una mostra contenuta nel numero dei dipinti, non ci pare tradito. Intanto perché ha il pregio di riportare nella città natale dell’artista una mostra che mancava ormai da trentacinque anni, esponendo diverse opere nodali nel percorso artistico di Liegi, accompagnando il tutto con un sontuoso catalogo, corredato da numerosi dipinti anche non esposti e da saggi vecchi e nuovi, capaci di far luce su molteplici aspetti dell’arte del nostro. L’iniziativa patrocinata dal Comune di Livorno, dalla Comunità Ebraica della città di cui Liegi fu un fulgido appartenente, dalla Fondazione Livorno, da cui vengono tre opere esposte, e dal Gruppo Labronico, di cui l’artista fu il primo presidente, è seguita anche da uno speciale riallestimento di una sala del Museo Civico Giovanni Fattori tutto dedicato a Ulvi Liegi.
Ulvi Liegi è lo pseudonimo anagrammatico scelto da Luigi Mosé Levi per firmare le sue opere. L’artista, nato a Livorno nel 1858 da una famiglia dell’agiata borghesia ebrea, si sarebbe poi spento nella sua città nel 1939 in miseria, alla vigilia di una guerra che fortunatamente non visse, ma in tempo per subire le sciagurate leggi razziali varate dal Regime fascista. Ricostruire la biografia del pittore livornese è impresa ardua: non sono molti gli elementi biografici certi, e piuttosto arbitraria è la collocazione della sua esperienza artistica nel novero dei pittori post macchiaioli. In primis perché tale termine, che a suo tempo fu necessario per la valorizzazione della compagine livornese, risulta piuttosto fumoso, rendendosi inadatto ad accogliere artisti molto diversi tra loro. In seconda battuta, perché Liegi non appartiene a quella generazione, ma semmai a quella precedente, e cioè a metà tra i pittori macchiaioli e i postmacchiaioli.
Non v’è dubbio che il comune denominatore di tutte queste esperienze e di tutti questi protagonisti sia aver fatto propria la lezione macchiaiola, e anche nella formazione di Liegi questa ha avuto un peso di primo piano. Infatti, nonostante i primi rudimenti in arte furono appresi sotto l’egida di Luigi Corsi e Carlo Markò jr, e poi perfezionati all’Accademia d’Arte di Firenze seguendo i corsi di Giuseppe Ciaranfi ed Enrico Pollastrini, tutti artisti pregni di stilemi romantici, le prime prove in pittura che di lui abbiamo risentono piuttosto dell’esempio offerto da due dei più importanti padri della macchia, Telemaco Signorini e Giovanni Fattori. Signorini e Fattori furono per lui “due fonti prodighe di linfa fecondissima” come scriveva Matteucci, a cui il pittore livornese si sarebbe abbeverato per non meno di quindici anni, e tuttavia anche in seguito la loro eredità non sarebbe stata scialacquata.
Tra i saggi più antichi in mostra che tradiscono questa filiazione troviamo un nucleo di importanti opere, come la Draga sull’Arno del 1890, dove il tappeto d’erba, sterpaglia e terra che occupa la metà della composizione, sembra intessuto con cromie desunte direttamente dal Fattori, i colori son ancora quieti e fusi tra loro, mentre dopo si faranno più vivaci, caldi e preziosi. Sono opere costruite su una contemplazione serena e moderatamente panica, in cui i contrasti sono attutiti, anzi talvolta perfino smorzati, come nell’opera L’Arno porta il silenzio alla sua foce della Fondazione Livorno. Nel dipinto si mostra una delle celebri baracche con retoni che insistono sulla foce del fiume toscano, soggetto su cui Liegi tornerà spesso con esiti sempre diversi. Nell’opera riecheggiano alcune parole di D’Annunzio, ma al contrario delle parole del Vate la risoluzione pittorica non è magniloquente ma sommessa, tutto è calibrato, quasi soffocato, per restituire un’introspettiva scena pervasa di calma malinconica. Il medesimo soggetto figura in un noto capolavoro di Francesco Gioli, Bilance a Bocca d’Arno, quadro dipinto lo stesso anno di quello di Liegi, e certamente di irripetuta qualità, ma ancora appartenente alle poetiche del tardo naturalismo ottocentesco, mentre quello del livornese, seppur non contraddistinto da un’uguale tenuta pittorica, mostra nette aperture verso una pittura di nuovo corso, emotiva e lirica.
Sempre a questa prima fase appartiene l’enigmatico quadro Lo studio del pittore del 1885, proveniente dall’Istituto Matteucci di Viareggio: il soggetto degli interni è quasi una rarità per Liegi, inoltre mostra alcuni caratteri della pittura d’impressione francese, che stando ai pochi dati noti della biografia del livornese, avrebbe incontrato solo l’anno successivo, compiendo un viaggio a Parigi, dove sarebbe entrato in contatto con Federico Zandomeneghi e avrebbe visitato con ogni probabilità l’ottava mostra impressionista in rue Lafitte. L’interno della casa dell’artista è delineato con una pittura rapida e mossa, i numerosi elementi d’arredo e mobili che affollano lo spazio sono armonizzati da una pennellata morbida e da un’attenta composizione tonale, rendendo l’atmosfera brillante e vibrante al tempo stesso, ricordando certi interni di Bonnard ma anche, come notava Raffaele Monti, soluzioni ben più tarde di Mario Cavaglieri. Il risultato raggiunto è di un così genuino interesse che portò il critico Stefano Fugazza a chiedersi come mai questa strada non fu poi più seguita.
Lo spazio dipinto da Liegi ci racconta non solo di un ambiente domestico che per il livornese fu sempre parte rilevante della sua vita, ma anche quell’importante attività collezionistica di cui si fece promotore, portandolo ad accumulare opere dei macchiaioli e di altri colleghi, ma anche stampe giapponesi e altri elementi orientali (come si vede nel paravento). E forse fu proprio grazie alla sua imponente collezione di stampe che molti artisti livornesi poterono aggiornare la loro pittura con le novazioni provenienti dalla terra del Sol Levante, tra cui anche Oscar Ghiglia, presente in mostra con un piccolo dipinto rappresentante una bambola giapponese.
Ulteriori viaggi, segno di una cultura cosmopolita oltre che di una serena tranquillità economica, sono fondamentali per gli esiti successivi della sua pittura. Soggiorna ed espone più volte a Londra tra il 1888 e il 1889, entrando in contatto con J.A. McNeill Whistler, mentre nel 1889 è nuovamente a Parigi dove partecipa all’Esposizione universale con due dipinti. In questo stesso periodo stringe amicizia con Degas, Pissarro, Monet e Sisley, mentre a Monaco di Baviera con von Lenbach.
Questi incontri e viaggi avrebbero mostrato all’artista le numerose opportunità che si aprivano per la pittura moderna e che Liegi recepì in un dipinto come Paese del 1895 in cui adotta ancora un’impaginazione macchiaiola, non lontana da certe soluzioni di Signorini o Lega, ma le campiture à plat denotano una sua personale riflessione sull’arte francese, e forse in particolare su Gauguin e i Nabis.
Da lì in poi le soluzioni nella pittura di Liegi sono molteplici, e benché le lezioni apprese in terra toscana non verranno mai poste in cantina, convivono sempre più spesso, fino talvolta a divenire subalterne, con un continuo sforzo di sorpassare le prospettive realistiche verso un dominio del colore sempre più libero dalla gabbia del disegno, e una ricerca di sintesi del dato visivo, a vantaggio di uno studio di un’espressione spigliata e brillante. Il tutto in un linguaggio anticonvenzionale che certo sfoggia alcune tangenze con altri artisti livornesi, ma si caratterizza per una personalissima lettura, che si palesa ai visitatori grazie alla saggia scelta del curatore di porre in mostra anche un brano ciascuno di Giovanni Bartolena, Mario Puccini e Llewelyn Lloyd.
La semplificazione grafica grazie alla via del colore, contraddistingue anche Bartolena, che però non osa oltre nell’accensione cromatica, mentre, per usare le parole di Paul Nicholls, se Puccini fu maestro delle forme create con il colore, Ulvi Liegi lo fu del colore liberato dalle forme.
Alla svolta del secolo la pittura di Liegi è ormai matura e regala alcune delle opere più emozionanti come il Mercato di Livorno del 1898 in cui una cromia deliziosa è valorizzata da un disegno fatto di piccoli frammenti, come uno smagliante mosaico, dove però la materia pittorica delle tessere non è mai omogenea e piatta, ma talvolta si raggruma o si fa più esangue. Ancor più straordinario è Bocca d’Arno del 1900, la cui tavolozza diviene incandescente, avvicinando l’artista alle ricerche dei fauve, che avrebbero preso avvio solo alcuni anni dopo, nessuna concessione è fatta al dato reale per proporre un dipinto che innanzitutto è visione emotiva e intellettuale. In Ponte Vecchio del 1903, Liegi si confronta con lo stesso tema e praticamente la stessa prospettiva di un celebre quadro di Signorini. Eppure, gli esiti non potrebbero essere più diversi: alla descrizione attenta e aneddotica del macchiaiolo, Liegi attraverso una tavolozza riscaldata e una pennellata rapida e sfranta realizza una composizione dove il campo visivo sembra involuto in un progressivo e lento avanzamento, mentre i passanti sono risolti con pochi segni e sullo sfondo le architetture si compenetrano come un complesso intarsio.
Dal 1908 Ulvi Liegi rientra definitivamente nella sua Livorno, e nonostante su di lui si abbattano problematiche economiche e familiari, la sua ricerca verso la dissoluzione del disegno in favore di una maggior libertà espressiva del colore non si interrompe. L’artista, dal suo “eremitaggio intellettuale” come ne scriveva Mario Tinti, lontano da ogni clamore mediatico, nella sua riservatezza colta e domestica impreziosisce la sua tavolozza mentre opera una sintesi drastica sull’impianto disegnativo, e non di rado il supporto del dipinto, la tavola lasciata scoperta, diviene sempre più funzionale alla riuscita del quadro, permettendo alle cromie di accendersi, come nel dipinto Ardenza bagni Pejani - Impressione Ardenza del 1930.
In questo momento i suoi soggetti, delineati attraverso una grafia nervosa e calligrafica e una pennellata sempre più volatile, sono le scene balneari della sua città, epurate da ogni narrazione mondana per divenire esercizio contemplativo e silente. A questi si aggiungono le architetture di Livorno, come la sinagoga e la Baracchina rossa, che, come smaglianti arazzi, vedono una sapiente concatenazione di tasselli cromatici e segni grafici.
La mostra livornese inoltre vuol sorpassare il costante leitmotiv che si abbatte sulla produzione di Ulvi Liegi, quello cioè che l’artista con il passare degli anni si sia accontentato di ripetere stancamente i soliti soggetti, perdendo in forza ed efficacia. Per questo il curatore Michele Pierleoni ha posto a fine percorso di visita Campagna, dipinta appena due anni prima della morte, dove la composizione si liquefa, mentre si assiste in uno scivolamento dei piani, segnando secondo Pierleoni una vicinanza tra il livornese e l’interpretazione del paesaggio di Chaïm Soutine.
In conclusione, nella mostra livornese ci s’imbatte nella personalità raffinata di un artista che seppe dal suo rifugio nella provincia toscana intuire e talvolta perfino presagire importanti esiti della pittura moderna internazionale, in un continuo processo di esaltazione del colore, e sebbene questo percorso, a detta di chi scrive, non sempre fu sostenuto da una tenuta pittorica esente da incertezze e debolezze, ha l’indubbio merito di porsi come una delle voci toscane più originali e interessanti del suo tempo.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.