Forse non è esagerato affermare che Giovanni Paolo Panini figura a pieno titolo tra quel ristretto novero d’artisti che possono dire d’aver non una, ma due date di nascita. Nel caso di Panini, la prima è la data in cui venne alla luce a Piacenza, il 17 giugno del 1691. La seconda è invece il 1961, data in cui fu pubblicata la prima monografia a lui dedicata, impegnativo lavoro di Ferdinando Arisi, storico dell’arte piacentino a lungo direttore della Galleria Ricci Oddi, e autentico “scopritore” (si passi il termine poco elegante, ma adatto a render bene l’idea) dell’importanza storica e artistica dell’arte di Panini. Ogni grande pittore, naturalmente, ha avuto uno studioso che gli ha dedicato una prima monografia redatta in termini moderni. Per Panini però è diverso, perché i fondamentali studî di Arisi hanno illuminato la sua arte d’un nitore del tutto nuovo. È come se qualcuno avesse scoperto un talentuoso attore in un teatro di provincia e lo avesse fatto arrivare sui palcoscenici di Broadway. E su questo artista, fino ad allora poco considerato dalla critica, è piovuta una duratura fortuna internazionale, come si confaceva del resto a un pittore di tale portata, finissimo interprete d’un gusto nascente, paesaggista moderno e svincolato dalle regole accademiche, appassionato sincero delle rovine dell’antica Roma. C’erano stati, naturalmente, degli apprezzamenti isolati prima delle decisive ricerche di Arisi. Per esempio, Aldo de Rinaldis, il cui nome è indissolubilmente legato al Museo Nazionale di Capodimonte e che durante la seconda guerra mondiale si distinse come uno dei nostri più valenti monuments men, definì Panini “una figura centrale” nella “storia della pittura di prospettive”, al pari di Giovanni Ghisolfi. Per Adolfo Venturi, Panini fu il “rappresentante massimo in Roma, avanti il veneziano Piranesi, della grande pittura di paesi e di rovine fiorita nella prima metà del Settecento”. Mai però era emersa con forza più dirompente la reale dimensione del suo estro.
I contributi di Arisi, poi ulteriormente sviluppati in un’altra monografia del 1986 e sfociati in una grande mostra organizzata nel 1993 al Gotico di Piacenza, hanno acceso l’attenzione della critica e del mercato su Panini, hanno fatto volare le quotazioni delle sue opere (il suo record in asta è di 5,3 milioni di dollari), hanno aperto di fatto al suo ingresso in tutta la manualistica di storia dell’arte. Oggi Panini si studia all’ora d’arte delle scuole superiori. Eppure, nonostante la fioritura degli studî su Panini, rimangono alcuni campi ancora da indagare a fondo: tra questi figura la sua formazione, sulla quale pendono ancora diversi aspetti insoluti. E adesso, fino al 19 marzo, una mostra alla Galleria Biffi Arte di Piacenza s’interroga proprio sul primo Panini, con un’ottima rassegna dossier sapientemente costruita attorno ai punti saldi delle fasi iniziali della sua carriera: s’intitola Giovanni Paolo Panini, un dossier piacentino. La formazione fra Piacenza e Roma, ed è curata da Marco Horak e Fabio Obertelli.
La mostra, con un continuo intreccio tra dati ormai fermi nell’ambito della storiografia paniniana e nuove proposte e ipotesi, ricostruisce gli ambienti nei quali il giovane artista poté compiere la sua formazione: da una parte, la Piacenza d’inizio Settecento che si trovò a essere crocevia d’artisti lombardi, emiliani e liguri in ragione del fatto che, non esistendo in città una scuola locale, chi voleva far decorare i proprî palazzi o farsi dipingere un quadro secondo il gusto più aggiornato, era praticamente obbligato a rivolgersi fuori dai confini cittadini. Dall’altra, l’affascinante Roma in cui Panini s’era trasferito ventenne nel 1711, destinato a legare per sempre il suo nome a quello della Città Eterna. Dapprima scolaro di Benedetto Luti, affinò poi le sue qualità guardando a tutto il meglio che Roma gli poteva offrire: principalmente Salvator Rosa e Giovanni Ghisolfi, anche se i contatti e gl’interessi di Panini furono, con tutta probabilità, ben più estesi rispetto a quelli che tradizionalmente vengono riconosciuti a questo pittore che contribuì a far affermare “una corrente che possiamo definire come vedutismo romano del Settecento”, afferma Horak in catalogo, benché si riconosca che l’invenzione del genere spetti al meno fortunato Ghisolfi, scomparso nel 1683. Ciò nondimeno, Panini avrà modo, dopo un primo periodo in cui si limiterà a “parafrasare Ghisolfi in una maniera che sembra giustificato definire sfacciata”, ebbe a scrivere Arisi, di aggiornare il linguaggio del maestro ideale, che non ebbe mai modo di conoscere di persona per evidenti ragioni anagrafiche, ma la cui pittura assimilò per poi rielaborare in maniera moderna, personale, originale, tanto che le sue vedute e i suoi capricci rimasero un riferimento ineludibile per lo stesso Giovanni Battista Piranesi, le cui vedute di Roma antica forse sarebbero difficili da spiegare senza l’apporto che Panini garantì al genere.
Per restituire al visitatore l’immagine di Panini (da notare, non lo s’è ancora detto, che la mostra ha preferito questa redazione del suo cognome e non quella, forse più diffusa, di “Pannini”, poiché l’artista si firmava con una sola “N”: la variante con la doppia si diffuse comunque già nel Settecento, specialmente in ambito francese), l’itinerario di visita s’apre con un bel ritratto dell’artista, eseguito da Charles Natoire, al cui catalogo è stato aggiunto di recente, e del quale si dirà più diffusamente in conclusione, dato che il pubblico che visita la mostra uscirà da dov’è entrato vedendo dunque il quadro del pittore di Nîmes per primo e per ultimo. S’entra subito nel vivo della rassegna con una serie d’incisioni architettoniche di Giuseppe Galli Bibiena, tratte dalla raccolta Architetture e Prospettive dedicate alla maestà di Carlo Sesto Imperatore: queste composizioni, oltre che testimoniare il rapporto di Panini col più giovane Galli Bibiena, intendono soprattutto dar conto dell’ambiente in cui si formò il giovane Panini. In particolare fu il padre di Giuseppe, Ferdinando Galli Bibiena, a ritagliarsi un ruolo di primo piano nella Piacenza farnesiana: dotato d’un singolare estro immaginativo, inventò soluzioni scenografiche che avrebbero cambiato per sempre la città (basterà pensare soltanto a Palazzo Costa, o alla chiesa di San Cristoforo, oggi sede del Piccolo Museo della Poesia: lo spettacolare apparato decorativo si deve a Bibiena) e che dovettero avere un certo ascendente sul giovane Panini, che neanche diciottenne, nel 1708, si trovò a comporre un trattatello di prospettiva, frutto del suo evidente interesse per ciò che doveva vedere attorno a sé nella sua città natale.
Città natale ch’entra a pieno titolo nei primi due dipinti che gli si possono assegnare con un buon margine di sicurezza: si tratta d’un pendant con due Composizioni architettoniche che rielaborano fantasiosamente il Gotico di Piacenza, anch’esse eseguiti da un Panini che doveva avere ancora diciassette anni o giù di lì. Una delle due vedute è del Museo Glauco Lombardi di Parma ed è in mostra, l’altra invece appartiene a una collezione privata piacentina ed è presente con una riproduzione basata su di una vecchia fotografia. I due dipinti furono ricondotti a Panini da Arisi e sono l’evidenza più tangibile dello sguardo rivolto dall’artista piacentino verso Ferdinando Galli Bibiena: opere “acerbe”, come le definisce Marco Horak, sono ancora lontane dalla qualità di cui l’artista sarebbe stato capace nel prosieguo della sua carriera, e la loro importanza è dovuta anzitutto al fatto che rappresentano comunque “l’opera prima” di Panini, offrono un saggio della sua inventiva dacché non si tratta di mere vedute, ma d’una libera interpretazione, se così la si vuol chiamare, d’un edificio realmente esistente (tanto più che si tratta del simbolo della sua città), e sono la prova d’un pittore che si stava comunque misurando con il genere dell’architettura dipinta.
Per ammirare un Panini ancora giovane, ma più maturo e forse più consapevole dei proprî mezzi, oltre che forte di nuove esperienze e nuove conoscenze, occorre spostarsi di poco più avanti, dove i curatori propongono un confronto tra una Cattura di san Pietro ambientata entro una quinta di rovine antiche, e un Capriccio architettonico di Giovanni Ghisolfi, l’artista al quale, come s’è detto, Panini guardò dopo il suo trasferimento a Roma. Il quadro di Ghisolfi è un saggio del genere da lui stesso messo a punto: l’artista milanese, tuttavia, sarebbe stato presto surclassato da Panini che avrebbe ammodernato in maniera significativa e decisiva la libera rivisitazione di monumenti della Roma antica. Qui s’osserva l’Arco di Costantino, al centro della composizione, con in primo piano un edificio dal porticato a colonne ioniche: è un esempio particolarmente rilevante della felicità compositiva di Ghisolfi oltre che del fascino gradevole della sua pittura, caratteristiche che ne determinarono il successo. La Cattura di san Pietro, peraltro raro soggetto iconografico, è uno dei dipinti più problematici del giovane Panini, che palesa qui una stretta aderenza ai modi di Ghisolfi, tanto che di recente il dipinto è stato assegnato allo stesso Ghisolfi, mentre in occasione della mostra Horak lo ha nuovamente ascritto a Panini soprattutto in ragione del dettaglio del cavallo rampante, giudicato del tutto estraneo alla produzione ghisolfiana (dove pure non mancano i quadri con figure), mentre al contrario è ricorrente in alcuni dipinti di Panini. L’artista si dimostra invece ben più autonomo in una coppia di dipinti, Cristo e l’adultera e La piscina probatica, che costituiscono una coppia d’inediti. Dipinti molto più ariosi dei precedenti, con le architetture tutte spostate su di un lato che lasciano ampî spazî aperti a rivelare, specialmente nel caso della Piscina probatica, fitti tessuti urbani che si perdono in lontananza, sono ritenuti quasi degli hapax nella produzione del giovane Panini (ai quali sono stati riferiti per via della presenza del monogramma JP sulla Piscina probatica): “lo stile”, scrive Obertelli nel catalogo, “non parla l’idioma paniniano più comunemente conosciuto e identificabile”, poiché si tratta d’un caso, probabilmente unico, nel quale il linguaggio dell’artista si apre verso certe soluzioni del napoletano Gennaro Greco. Rimandano a questi, per esempio, l’idea di spartire in maniera così netta architettura e paesaggio conferendo tanto spazio al cielo, oppure ancora “il doppio loggiato su banchina con piscina a sottarchi e il trattamento cromatico delle strutture, a marezzature bicrome”, come sostiene il curatore, oltre al “trattamento in controluce dei dettagli più prospicienti”. Esistono opere di Greco estremamente simili a queste due di Panini. Non è dato tuttavia sapere se e come Panini sia giunto in contatto con Greco: l’ipotesi di Obertelli è che il tramite possa esser stato una conoscenza comune, ovvero Sebastiano Conca.
La carrellata prosegue col dipinto più grande tra quelli in mostra: è una composizione di Rovine con figure pubblicata da Arisi nella monografia del 1986, databile attorno al 1719. Dato il formato del dipinto, Panini si concede qui pennellate più ampie e distese, e una minore attenzione per i dettagli, riuscendo però in un’opera piacevole ed equilibrata, con sullo sfondo una struttura che pare anticipare la Piscina probatica (che secondo Obertelli è successiva a questo dipinto). Si prosegue con un altro pendant: Due capricci architettonici con figure dall’attribuzione dubbia, dal momento che sono stati assegnati in passato sia a Panini sia al romano Alberto Carlieri, altra figura verso la quale si rivolse lo sguardo del giovane piacentino nell’Urbe (e Carlieri, a sua volta, guardava a Ghisolfi). Sono due dipinti di grande qualità, dalle architetture impeccabili, scorciate in diagonale, molto più bilanciate in rapporto allo spazio rispetto a quelle decisamente più fitte di Carlieri, nonché tipiche del Panini che s’avvia ormai verso la maturità artistica, ma tuttavia popolate di figure che non trovano riscontro nella sua arte e che sono invece ben più compatibili con quella di Carlieri. C’è da dire che la parte destra della composizione del secondo capriccio, quella con la lama di luce che passa attraverso il fornice dell’arco, è del tutto simile alla porzione d’un dipinto passato in asta da Koller nel 2015, attribuito a Carlieri da David R. Marshall (ovvero lo studioso che ha assegnato al pittore romano i due dipinti in mostra), con le figure atteggiate in pose non così distanti rispetto a quelle del quadro in mostra. Non si tratta d’un elemento determinante per dirimere una difficile questione attributiva che anche in mostra viene lasciata irrisolta, ma può comunque fornire un’utile occasione di confronto. Sulla stessa parete, per terminare il giro della sala, ecco poi il Convito di Baldassarre re di Babilonia, opera che, scrive Marco Horak, “presenta con grande evidenza l’influenza che ancora esercitavano sul pittore le soluzioni architettoniche illusionistiche dei Bibiena e forse pure le composizioni di Alberto Carlieri”. Lo studioso fa notare in particolare una corrispondenza tra l’architettura semicircolare di questo dipinto, e quella realizzata da Gian Carlo Novati, allievo e collaboratore dei Bibiena per il cortile circolare di Palazzo Novati a Piacenza. È infine opera che si può considerare la conclusione del primo periodo romano di Panini, oltre che della fase giovanile della sua carriera, quella ancora segnata da una stretta vicinanza ai modi dei suoi maestri ideali.
La mostra dà conto anche del Panini maturo, per offrire al pubblico efficaci e utili termini di confronto. Sono due i dipinti riferibili alla fase più avanzata della sua carriera: una Predica di un apostolo, ambientata in uno scenario romano di fantasia dove però si riconoscono monumenti realmente esistenti, anche se rielaborati nelle loro proporzioni (a destra ecco dunque la Piramide Cestia, e a sinistra le tre colonne superstiti del Tempio dei Càstori), e che si apre su di un cielo dalle tonalità decisamente più chiare rispetto a quelle dei dipinti più vicini a Ghisolfi. Ancor più indicativo è però il dipinto che chiude la rassegna, una tela raffigurante Rovine romane con Marco Aurelio, prestata dalla Banca di Piacenza, e databile agli anni Cinquanta del Settecento, quando Panini è ormai all’apice del successo. La scena ha luogo su di una scalinata, popolata da alcune figurine, chiusa a destra dal pronao del Pantheon e sul fondo da un’esedra, e sopra alla quale spiccano da una parte i resti del tempio di Vespasiano e dall’altra il monumento di Marco Aurelio, presenza piuttosto ricorrente nei capricci paniniani. Dipinti come questo erano preziosi souvenir richiesti a Panini dalla sua facoltosa clientela internazionale, e l’idea di mettere assieme monumenti ben riconoscibili della Roma antica soddisfaceva una precisa richiesta dei compratori (di questo dipinto peraltro esiste una versione appena più grande conservata al Louvre, dov’è presente anche un dipinto con la Piramide Cestia che segue una composizione simile a quella del quadro esposto alla Galleria Biffi Arte di cui s’è appena detto). Sono dipinti che testimoniano la svolta di Panini a partire dagli anni Trenta, periodo a far data dal quale l’artista “orienterà la sua produzione”, scrive Horak, “passando dalle composizioni tipiche del pittore di capricci architettonici (opere il più delle volte di fantasia) a quelle più apprezzabili di vedutista, attraverso la rappresentazione di paesaggi architettonici di ampio respiro e allargata prospettiva”. Una svolta possibile grazie all’incontro della pittura francese (su tutti quella del parigino Nicolas Vleughels, divenuto nel 1724 direttore dell’Académie de France a Roma), che avrà come esito un notevole schiarimento della tavolozza e l’inserimento di prospettive più ampie e profonde.
La mostra non trascura le opere della bottega di Panini, per evidenziare le differenze tra il maestro e i suoi collaboratori, evidenti negli scarti qualitativi (lo si vede per esempio nel Capriccio architettonico con la colonna Traiana, il Colosseo l’Arco di Costantino e le colonne del tempio dei Dioscuri, caratterizzato da una pennellata rapida e affrettata, e da figure dipinte in maniera sommaria), oltre che per introdurre il tema della serialità nella produzione di una bottega fiorente, alla quale nei decennî centrali del Settecento arrivavano commissioni di continuo, con la conseguenza che spesso, per la clientela meno esigente o con meno risorse economiche, venivano prodotte opere tutt’altro che eccelse. Nell’ambito della produzione di bottega non mancano comunque lavori di un certo interesse: è il caso, ad esempio, d’un raro olio su rame, tra i pochissimi usciti dall’atelier di Panini, replica in scala ridotta del dipinto con la Piramide Cestia del Louvre cui s’è fatto cenno poc’anzi. La chiusura della mostra spetta ad alcune interessanti incisioni. Imperdibile l’Interno del Pantheon a Roma eseguito dall’inglese Charles Knapton su disegno di Panini, oltre che due rarità come le incisioni di Claude Henri Watelet tratte da due Paesaggi con rovine di Panini, alle quali Horak dedica un saggio nel catalogo della mostra. Sono stampe di gran qualità inserite in mostra a testimonianza della notorietà internazionale raggiunta da Panini ancora operativo. E per finire, un’intera sala è dedicata alle incisioni di Francesco Panini, figlio di Giovanni Paolo, erede della sua bottega, seppur trascurato dalla critica, malgrado sia tra i più interessanti incisori del XVIII secolo. In mostra sono presenti nove tavole tratte da due serie diverse: di particolare effetto le Tre vedute architettoniche incise e riportate su tela, caratterizzate da un pittoricismo ch’è la prova più eloquente del talento trascurato di questo artista.
Guadagnando l’uscita si torna nuovamente al cospetto del ritratto di Panini eseguito da Charles Natoire: si tratta d’un’opera inedita, una delle principali novità della rassegna piacentina, benché il dipinto, di proprietà della Collezione Giorgio Baratti di Milano, sia stato studiato nel 2013 da Ferdinando Arisi che ha lasciato alla proprietà una nota manoscritta, della quale il catalogo della mostra fornisce alcuni stralci. Arisi lo definisce uno “splendido ritratto di vecchio gentiluomo, identificabile nel famoso pittore Gian Paolo Panini”: Natoire e Panini si conoscevano, erano amici e inoltre avevano anche lavorato assieme in qualche occasione, dal momento che il francese aveva ritoccato alcuni disegni dell’emiliano, ed esistono anche disegni eseguiti dai due a quattro mani. Suona strano che l’artista tuttavia venga definito “vecchio”: Natoire restituisce sulla tela un Panini nel pieno della sua attività, all’incirca cinquantenne o poco più, dal volto rubicondo e di sicuro dall’aspetto più florido e meno stanco rispetto a quello che dimostra nel ritratto di Louis-Gabriel Blanchet, che pure è precedente. I suoi tratti somatici e persino il suo abbigliamento aderiscono con precisione all’autoritratto che Panini si fa nel Festino sotto un portico ionico, opera degli anni Venti conservata al Louvre dove, naturalmente, l’artista appare molto più giovane: il ritratto di Natoire va tuttavia interpretato come un omaggio d’un artista all’amico e collega stimato.
Giovanni Paolo Panini, un dossier piacentino, dedicata peraltro alla memoria di Ferdinando Arisi, è una mostra solida, rigorosa e lineare, capace d’offrire al visitatore un efficace affondo sul Panini giovane: si distingue per il robusto impianto scientifico, radicato nelle fondamentali ricerche di Ferdinando Arisi, per le novità, per l’opportunità di vedere assieme molte opere solitamente conservate in collezioni private, per la possibilità d’ammirare alcuni capisaldi del primo periodo dell’artista, il tutto unito a un percorso affabile, ben illuminato e spiegato in maniera ottimale, con un apparato chiaro che traduce con somma accortezza, in una forma adatta al pubblico più vario, i contenuti del catalogo. Il volume che accompagna la mostra, con diversi saggi che offrono al lettore un quadro completo sull’attività del giovane Panini, è uno strumento agile, redatto in uno stile che rifugge qualunque ampollosità e qualunque orpello, anch’esso idoneo per un pubblico eterogeneo e, al contrario di molti cataloghi di mostre d’arte antica, anche di piacevole lettura. Un libro utile per una mostra che segna con decisione la storia critica di Giovanni Paolo Panini.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).