“In Sicilia non riusciamo a farla, perché la Sicilia è terra difficile”. In un fuori onda di Antonio Calbi, curatore della mostra fotografica di Patrizia Mussa Teatralità - Architetture per la meraviglia, a Villa Zito a Palermo (fino al 6 settembre, catalogo Silvana Editoriale & Studio Livio) c’è tutto il senso dell’epopea compiuta da chi questa “terra difficile” l’ha saggiata fino a qualche anno fa da soprintendente dell’Inda a Siracusa.
Un “ritorno” in continuità, dunque, quello di Calbi, in quella stessa terra invece “facile” per le solite mostre blockbuster su impressionisti, Warhol e Caravaggio. In questi mesi in Sicilia ne sono in corso ben due, a pochi chilometri l’una dall’altra, La Sicilia di Caravaggio a Noto e Caravaggio: la verità della luce a Catania, in cui del maestro lombardo c’è ben poco. L’importante è piazzarlo nel titolo-specchietto per le allodole. Dalla seconda ha tenuto a dissociarsi Luigi Ficacci, già direttore dell’ICR di Roma, a cui pure era stato accostato il suo nome come curatore. Che quasi quasi sarebbe stato più convincente ritrovarlo a Palazzo Zito, il Caravaggio con i suoi sipari scarlatti e i riflettori che tagliano in diagonale la scena.
Parentesi chiusa: raccontare per immagini, in questo caso, attraverso fotografie, le architetture teatrali in uno spazio museale (Villa Zito è sede della pinacoteca della Fondazione Sicilia) significa anche recuperare al teatro la sua dimensione di archetipo museale in un contesto congeniale. Già solo in questa premessa concettuale l’esposizione (con cui Maria Concetta Di Natale, una delle più grandi storiche dell’arte siciliane di tutti i tempi, fa il suo esordio alla Presidenza della Fondazione Sicilia) ci ha convinto. Il museo, come il teatro, è il luogo della partecipazione a performance. L’idea di come fosse necessario “coinvolgere” era già perfettamente maturata nel mondo greco. Ad Atene la distribuzione degli edifici osservava precise leggi ottiche: il rapporto tra dislocazione dei templi e degli edifici minori all’interno dell’Acropoli non era casuale, al contrario, gli effetti scenografici figura/sfondo tra i Propilei e il Partenone, tra quest’ultimo e l’Eretteo erano studiati. Umberto Albini nel 1991 ricordava che i greci hanno inventato quasi tutto ciò che fa teatro. Giustamente è stato osservato che il teatro greco rappresenta la prima realizzazione organizzata e coerente dello spazio mentale occidentale moderno.
L’intrigo tra museo e teatro prosegue anche oltre nei secoli, diventando una costante nel Cinque-Seicento, quando sono visti come luoghi entrambi in cui si espone qualcosa allo sguardo. Non a caso il primo libro di museologia, scritto da Samuel de Quiccheberg, pubblicato nel 1565, si intitola Museum sive theatrum.
Di Natale sottolinea il carattere anche documentario della mostra, “che ripercorre la storia e la trasformazione dei teatri non dimenticando le meraviglie della Sicilia”. C’è, infatti, proprio una sezione dedicata ai “Teatri antichi di Sicilia nella collezione di stampe e disegni della Fondazione Sicilia”, curata dallo storico dell’arte Sergio Troisi. Si tratta di stampe, disegni e volumi di viaggio che nell’epoca d’oro del Grand Tour, tra fine Settecento e inizi Ottocento, diedero un contributo decisivo alla riscoperta dei siti archeologici siciliani di Catania, Calatafimi, Segesta, Siracusa e Taormina. Accanto a celebri vedutisti come Houel e ai taccuini di viaggio di Spencer Compton, figurano incisioni mai esposte di pittori, paesaggisti e litografi del XVIII e XIX secolo come Benoist, Berthault, Chatelet, Coiny Debris, De Morogues, Gigante, Leicht e Marinoni.
Il nucleo centrale della mostra, invece, è costituito da oltre settanta immagini di grande formato che propongono un percorso di analisi sulla conformazione architettonico-decorativa e scenica dei teatri di tutta Italia, filtrati dalla personale sensibilità di Patrizia Mussa: luoghi deputati “ad esercitare l’immaginario”, scrive il curatore Calbi, a cominciare proprio da quello dell’artista-fotografa.
Sotto gli occhi del visitatore scorrono così le fotografie del Teatro greco di Segesta, dei primi teatri non provvisori di Vicenza, Sabbioneta (Mantova) e Parma, che segnano il passaggio dai teatri di corte agli edifici veri e propri, del Teatro alla Scala di Milano, del San Carlo di Napoli, La Fenice di Venezia, Regio di Torino, o ancora del Teatro Argentina di Roma, della Pergola di Firenze e del Massimo di Palermo. Ci sono anche alcuni edifici o complessi monumentali che testimoniano la vocazione “teatrale” di certa architettura civile italiana, come la Reggia di Venaria, quella di Stupinigi, la Reggia di Caserta, Palazzo Grimani a Venezia; ma anche di alcuni edifici religiosi, come la Chiesa del Gesù a Palermo.
Aggirarsi per le sale è quasi un gioco di rimandi alla fiamminga dove la relazione che lega i due elementi principali dell’evento teatrale – l’attore e lo spettatore (in verità più evocato attraverso la sua assenza, che rappresentato) – si complica con la presenza di una terza componente: l’osservatore, il visitatore della mostra.
A qualcuno non più giovanissimo non può sfuggire un che di gusto retrò nel ritocco delle fotografie. Dopo aver fissato la veduta e realizzato la stampa su carta cotone, Patrizia Mussa interviene infatti con i pastelli colorati sui dettagli. Le fotografie, così, fanno quasi da pendant alle tempere della collezione della Fondazione in esposizione. Tornano in mente gli interventi estesi (e non di rado invasivi) che, fin dalle origini, furono applicati alla fotografia per migliorare il risultato. Tecniche largamente applicate al ritratto, ma non solo a questo. Lo scopo era quello di rendere le immagini più naturali e facilitarne la visione. Il ritocco lo aveva inventato un fotografo tedesco di nome Hampstein, che ne dette prova nell’Esposizione di Parigi del 1855. In questo caso era in bianco e nero ed aveva lo scopo di ingentilire il soggetto. Il fine di Mussa, invece, non è freddamente migliorativo, ma quello di intervenire sulla fotografia con un gesto creativo che confinando le immagini in una dimensione quasi di astrazione metafisica, rafforzata dall’assenza delle figure umane, conferisce loro la sensazione di un eterno silenzio. Teatri esistenti e allo stesso tempo ideali, come la Città ideale alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.
Concepita come mostra itinerante (proseguirà con le tappe di Roma, Vicenza e, nella primavera 2025, a Parigi, nelle sale del settecentesco Hôtel de Galliffet, sede dell’Istituto Italiano di Cultura), Teatralità - Architetture per la meraviglia è un progetto espositivo ancora “in divenire”. La fotografa d’architettura ha, infatti, in programma di completarlo con altri celebri teatri italiani. Per l’esposizione a Villa Zito è stato già arricchito di nuove opere, rispetto a quelle con cui ha debuttato a Palazzo Reale di Milano nello scorso dicembre: oltre al Teatro greco di Segesta e alla Chiesa del Gesù, già ricordati, si possono ammirare il Teatro Politeama di Palermo, la settecentesca Villa Palagonia di Bagheria e il Teatrino settecentesco che, a inizio ‘900, Ottavio Lanza di Branciforte, principe di Trabia, portò con sé a Parigi facendolo smontare da Palazzo Butera e che oggi è allestito nella sede parigina dell’Ambasciata d’Italia in Francia.
Tra le tante “architetture per le meraviglie” selezionate si avverte l’assenza della chicca del “più piccolo teatro d’Italia” con i suoi cento posti, raffinato gioiello “nascosto” all’interno del settecentesco Palazzo Donnafugata a Ragusa Ibla. Chissà, uno spunto per arricchire ulteriormente questo originale progetto “in crescendo”.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).