di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 08/05/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Ottocento - Novecento - Simbolismo - Divisionismo - Ferrara
Recensione della mostra 'Stati d'animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni' a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 3 marzo al 10 giugno 2018.
Nel 1891, quando Stéphane Mallarmé si trovò a discutere con Jules Huret su modi e finalità della poesia simbolista, il grande poeta disse all’amico giornalista che utilizzare un simbolo non significa altro che choisir un objet, et en dégager un état d’âme par une série de déchiffrements: “scegliere un oggetto, e sviluppare uno stato d’animo attraverso una serie d’interpretazioni”. In altri termini, secondo Mallarmé la poesia doveva porsi il preciso obiettivo d’evocare un’emozione, di stimolare l’esperienza d’un certo stato d’animo e, viceversa, di rifuggire un freddo naturalismo, reo di supprimer les trois quarts de la jouissance du poème (“sopprimere i tre quarti del godimento di una poesia”). La poesia, scriveva Mallarmé, è un mistero di cui il lettore deve cercare la chiave: una reazione contro l’eccesso di realismo e di materialismo dai quali, secondo le convinzioni dei simbolisti, era affetta gran parte della poesia a loro contemporanea. E alla poesia avrebbe fatto ben presto seguito anche l’arte, desiderosa d’offrire un’alternativa al realismo e alla sua aderenza al vero per proporre al riguardante visioni pronte a spronare la sua immaginazione: prima modificando la pittura verista dal suo interno con l’aggiunta d’elementi tesi a presentare agli occhi dell’osservatore un’esperienza sinestetica, quindi accorciando la distanza tra pittore e pubblico (mediante una resa degli elementi del dipinto sempre meno precisa e, viceversa, più fumosa ed evocativa), e infine giungendo a un’arte capace di far leva direttamente sugli umori di chi si trova dinnanzi all’opera.
Questo, in estrema sintesi, è anche il percorso delineato, nella sua evoluzione storica, da Stati d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni, la mostra in programma a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, fino al 10 giugno 2018. Un titolo del tutto coerente con i contenuti dell’esposizione, che pone sotto i riflettori le figure di Gaetano Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, 1920) e Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916), i due principali poli attorno ai quali ruotò la poetica degli stati d’animo nella pittura italiana tra fine Ottocento e inizio Novecento. Fu proprio Boccioni il primo a dichiarare in maniera sistematica l’intento di sperimentare una pittura che riuscisse a provocare una reazione emotiva, e fu sempre lui a individuare in Previati il principale esploratore d’una tale disposizione: il pittore ferrarese, aveva specificato Boccioni nel corso d’una conferenza tenutasi nel 1911 a Roma, “è il primo veramente che tenti di esprimere per mezzo della luce in sé una emozione nuova all’infuori della convenzionale riproduzione delle forme e dei colori”. Con Previati, continuava Boccioni, “le forme cominciano a parlare come musica, i corpi aspirano a farsi atmosfera, spirito, e il soggetto è già pronto a trasformarsi in istato d’animo”. Ma il filo teso tra Previati e Boccioni, a Palazzo dei Diamanti, si popola d’una fitta teoria d’ulteriori figure che fecero proprie le nuove tendenze e ne ispezionarono ogni possibilità: la rassegna ferrarese mira pertanto a esaminare gli sviluppi della poetica degli stati d’animo nell’arte del tempo, argomento certo non nuovo (il rapporto tra Previati e Boccioni di cui s’è appena detto, del resto, è stato ampiamente dibattuto dalla critica), ma qui letto anche attraverso alcuni nuovi apporti (per esempio, il rapporto con la filosofia di Bergson e Sorel, analizzato da un contributo di Michael Zimmermann che si spinge a tracciare interessanti connessioni con l’attualità dei mezzi di comunicazione contemporanei, di cui si dirà più avanti, oppure gl’interessi letterarî di Giovanni Segantini, la cui biblioteca è stata sottoposta a un’inedita ricognizione proprio in occasione della mostra) che forniscono spunti ulteriori e nuovi per ricostruire la complessità di un’epoca di grande e denso fermento culturale, dalla cui base sarebbe poi scaturito il futurismo e che rappresentò un fondamentale momento di passaggio per la costruzione della modernità.
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Una sala della mostra Stati d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni
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Una sala della mostra Stati d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni
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Una sala della mostra Stati d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni
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L’ouverture è affidata proprio a Giovanni Segantini (Arco, 1858 - Pontresina, 1899), dei pittori italiani il più vicino alle istanze dei simbolisti francesi: il suo Autoritratto, che lo vede raffigurarsi con la sola testa che si staglia su un fondo cupo e lo sguardo torvo che penetra gli occhi di noi che l’osserviamo, è una sorta di summa degl’interessi che guidarono molti dei pittori del tempo. L’attento studio dell’espressione, la mimica facciale, i movimenti dei muscoli e tutti quegli elementi che l’artista adopera per condurre un’approfondita indagine psicologica su se stesso, riflettono le letture delle teorie evoluzionistiche di Charles Darwin che stimolarono un approfondimento sulla fisiognomica (“il ritratto”, avrebbe scritto Segantini nel 1890 in una lettera inviata a Vittore Grubicy, “è lo studio che colla maggior semplicità di mezzi racchiude la più efficace parola dell’arte nell’espressione della forma viva”), mentre la fissità imperiosa dello sguardo e la capacità del volto di Segantini di farsi icona quasi ieratica sono un riflesso delle pulsioni simboliste dell’autore. Comune a molti degli artisti del tempo è l’abitudine a muoversi sul sottile confine tra scienza e irrazionale, un confine sul quale correrà di frequente anche lo stesso Previati, che si presenta nell’introduzione della mostra con Aurora del 1884, ritratto della fidanzata dov’egli stesso si raffigura in assorta e muta contemplazione della bella giovane: un dipinto intriso di quel sentimentalismo che gli scapigliati, alcuni anni addietro, avevano cominciato a rendere oggetto d’indagine, e che Previati risolve e aggiorna con un dipinto che palpita di fremente emozione, coi due protagonisti che comunicano il loro amore con gesti dolci e languidi, su di uno sfondo indefinito che quasi trasporta la loro passione entro una dimensione di sogno.
È invece di tre anni successiva la sua versione di Paolo e Francesca, dipinto a tema dantesco che sconquassa la pittura storico-letteraria dell’epoca con una figurazione nuova e rivoluzionaria: in un interno dai contorni sfumati, quasi indefiniti, i due innamorati giacciono trafitti dalla stessa spada, Francesca è col capo riverso sul divano, agonizzante, e il corpo di Paolo è abbandonato su quello dell’amata, di schiena e scomposto. Un’atmosfera opprimente e angosciante, un’inquadratura che indugia sui due amanti cogliendoli da una distanza ravvicinata e che mira a suscitare disagio in chi osserva un dipinto crudo e fosco, una “acre autopsia del mito romantico”, per utilizzare un’efficace espressione di Fernando Mazzocca (che ha curato la mostra assieme a Chiara Vorrasi e Maria Grazia Messina) risalente a uno studio di quasi vent’anni fa e che viene spesso chiamata in causa quando si parla di questo dipinto che Previati presentò alla Biennale del 1897. Un’opera con la quale, evidenzia invece Chiara Vorrasi, l’autore “prende le distanze dai più recenti epigoni della pittura di storia per risalire alle fonti di un’arte in grado di trasmettere nel modo più diretto e intenso possibile relazioni affettive e stati emozionali”. Non dissimile l’approccio di Angelo Morbelli (Alessandria, 1854 - Milano, 1919), che tre anni prima aveva sconvolto pubblico e critica con la sua Asfissia!, cronaca d’un drammatico suicidio d’una coppia divisa da marcate differenze sociali e quindi non in grado di vivere con serenità un rapporto che dobbiamo immaginare fortemente osteggiato dalle convenzioni dell’epoca. Il dipinto, oggettivo e scevro di qualunque intento moralista, cerca piuttosto di coinvolgere lo spettatore tramite l’evocazione d’esperienze sensoriali: il pennello di Morbelli si concentra sulla tavola con gli avanzi d’una cena, sui fiori sparsi su tutto il pavimento (fiori recisi, e dunque simbolo della sventurata sorte dei due amanti), sulla luce del mattino che filtra dalle imposte rivelando a poco a poco la tragedia che s’è consumata nella camera d’albergo, coi corpi dell’uomo e della donna esanimi in secondo piano. L’opera non ebbe gran fortuna, e Morbelli la tagliò in due parti per liberare la porzione destra, quella dov’è presente la coppia, onde esporla da sola sì che il pubblico potesse concentrarsi più direttamente sul tema della vicenda (e ancor oggi le due parti smembrate sono custodite in collezioni diverse: merito della mostra ferrarese è anche quello d’averle temporaneamente riunite). Se la vicinanza di Morbelli al simbolismo si consuma soprattutto nel parallelismo tra fiori e coppia, in un dipinto come Le fumatrici d’oppio di Previati il legame appare più stringente: ambientazione esotica, atmosfera ovattata, ovvî cedimenti alla poesia di Charles Baudelaire con l’evocazione dei suoi paradisi artificiali, ma anche vivo interesse per le più recenti ricerche scientifiche, dacché era stato un antropologo brianzolo, l’insigne Paolo Mantegazza (Monza, 1831 - San Terenzo, 1910), a pubblicare un trattato in cui venivano analizzati gli effetti prodotti su corpo e psiche dall’utilizzo di sostanze stupefacenti come l’oppio ch’è protagonista del dipinto di Previati e il cui uso conobbe all’epoca una larga diffusione.
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Giovanni Segantini, Autoritratto (1882 circa; olio su tela, 52 x 38,5 cm; Sankt Moritz, Segantini Museum, deposito della Eidg. Kommission der Gottfried KellerStiftung)
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Gaetano Previati, Aurora (1884; olio su tela, 98 x 80 cm; Collezione privata, courtesy Galleria Bottegantica, Milano)
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Angelo Morbelli, Asfissia! (1884; Parte sinistra: olio su tela, 159 x 199,5 cm; Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris. Parte destra: olio su tela, 160 x 98 cm; Collezione privata)
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Gaetano Previati, Paolo e Francesca (1887 circa; olio su tela, 98 x 227 cm; Bergamo, Accademia Carrara)
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Gaetano Previati, Le fumatrici d’oppio (1887 circa; olio su tela, 80,3 x 149,7 cm; Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi)
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Il prologo della mostra contiene dunque tutti gli elementi che, nel prosieguo del percorso, guidano l’osservatore alla scoperta dell’evoluzioni della poetica dei sentimenti e degli stati d’animo. Stati d’animo che, nelle sale successive, la rassegna di Palazzo dei Diamanti intende indagare singolarmente attraverso sezioni dedicate. Il crollo dei miti ottocenteschi “di fronte all’incapacità della società liberale e dlela cultura positivista di rispondere alle promesse salvifiche delle rivoluzioni borghesi, delle ideologie risorgimentali o del mito di progresso scientifico e tecnologico” (così Chiara Vorrasi) produce vere macerie spirituali che s’abbattono sulla società suscitando disagio e malessere (il summenzionato Mantegazza, del resto, avrebbe ribattezzato l’Ottocento “il secolo nevrosico”). E anche da tali premesse sorge quell’esigenza, sviluppatasi di pari passo con la nascita di discipline come la psicanalisi e la frenologia, che spinge gli artisti ad addentrarsi nelle sfere più recondite dell’animo umano. Immagine evidente d’un tale malessere è il Ricordo di un dolore di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 - 1907): l’artista rammentava, in una lettera scritta a Vittorio Pica, come fosse stato “colpito dalla morte di una sorella” (la giovanissima Antonietta, morta a soli diciott’anni), ragion per cui volle fissare sulla tela il suo dolore con una “mezza figura” che affronta con struggente forza il tema della malinconia. Una malinconia ch’è qui espressa dallo sguardo sgomento e perso nel vuoto della protagonista, evidentemente raggiunta da una cattiva notizia come quella che aveva così profondamente segnato il pittore, ch’ebbe un’esistenza difficile e segnata da gravi lutti, tanto che fu lo stesso Pellizza a decidere di porvi termine anzitempo, a soli trentanove anni. Anche sul sentire di Edvard Munch (Løten, 1863 - Oslo, 1944) incisero non poco le vicissitudini della sorella, malata di tisi, la cui sofferenza par quasi esser narrata nella Bambina malata, ritratto infantile in cui la protagonista rivolge verso il paesaggio il proprio sguardo smarrito e tormentato.
Proprio il paesaggio diviene protagonista della sezione successiva, e la Bambina malata di Munch, che funge anche da viatico per la sala seguente, garantisce uno dei passaggi più intensi della mostra. Che l’arte di fine Ottocento, sulla scorta delle teorie del filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 1821 - 1881), autore della celebre formula un paysage est un état de l’âme (“un paesaggio è uno stato d’animo”), tendesse a identificare una data disposizione mentale in un paesaggio non è certo scoperta dell’esposizione ferrarese, ma la selezione sul tema del paesaggio-stato d’animo è particolarmente ricca e riassume egregiamente tanto le argomentazioni dei simbolisti quanto quelle dei divisionisti. Per i primi, l’elemento acqua ricopre un ruolo primario: superficî calme riflettono gli oggetti che si collocano al di fuori della nostra visuale, così da presentare all’osservatore una sorta d’invito a una riflessione interiore, com’è nel caso dell’Acqua calma del belga Fernand Khnopff (Grembergen-lez-Termonde, 1858 – Bruxelles, 12 novembre 1921). Per i secondi, vale invece l’assunto di suscitare un ricordo o una sensazione nell’animo del riguardante: valga l’esempio del dipinto Era già l’ora che volge il desio di Morbelli, che descrisse la sua opera dal titolo dantesco come una “nostalgia delle cose morte, un tramonto sui lidi desolati di Venezia, un canale di Burano”. A metà si colloca Segantini, presente in questa sezione con un capolavoro come l’Ave Maria a trasbordo, forse il primo vero dipinto divisionista: quella che appare come una placida scena di genere, con un pastore che, in compagnia della moglie, trasporta le pecore da una riva all’altra d’un lago di montagna (scena in cui la scomposizione del colore rende con magistrale sapienza l’effetto dell’acqua che riflette la barca del pastore), da una parte, col suo pacifico panismo ci rimanda a una dimensione d’armonia universale nella quale l’uomo entra in perfetta sintonia con la natura, e dall’altra sottende significati simbolici che rendono palesi le convinzioni del pittore, ch’era sicuro dell’“onnipresenza del divino nella natura”, così che “il credente non ha più bisogno della chiesa come luogo di culto” (così Mirella Carbone). La chiesa, infatti, è una presenza lontana, e i protagonisti preferiscono pregare direttamente sulla loro imbarcazione, sotto le alberature che paiono quasi le arcate della volta d’un edificio di culto.
Oltrepassata la sezione dedicata alle funzioni evocatrici della musica (imperdibile il Chiaro di luna di Previati, una sorta di paesaggio dell’anima dove la notte non ha più una funzione descrittiva) si giunge al centro della rassegna, dove troviamo esposta la grande e difficile Maternità, capolavoro con cui Previati intendeva trasmettere “tutta l’intensità dell’amore materno”, com’ebbe a scrivere in una lettera a suo fratello, e ch’espose per la prima volta alla Triennale di Brera del 1891 e col quale inaugurava la stagione più strettamente divisionista della sua carriera. L’idea del pittore ferrarese era tanto rivoluzionaria quanto pericolosa: rivisitare profondamente un classico tema della tradizione (la natività) sia sotto l’aspetto tecnico, sia sotto l’aspetto simbolico. L’artista aveva perfetta contezza dei rischi cui si sarebbe sottoposto: ciò nondimeno, i giudizî della critica e del pubblico furono severissimi, e in alcuni casi sfiorarono l’insulto. Pochi, tra cui Vittore Grubicy, intuirono la portata innovativa e originale dell’opera, il cui intento era, spiega Fernando Mazzocca, quello di “rappresentare le pulsioni più profonde dell’animo umano e l’insondabile mistero della maternità, della creazione”. Dovendo quindi sondare l’insondabile, la pittura perde ogni accento realistico o naturalistico e si fa pura visione, in linea, del resto, con quanto stava accadendo anche fuori dall’Italia (si pensi all’arte di Gauguin). Radicalmente diverso l’approccio di Segantini, che non rinuncia a una rappresentazione veridica, ma ammanta le sue descrizioni d’un forte senso allegorico, come avviene ne L’angelo della vita che, al contrario della Maternità di Previati, riscosse fin da subito un notevole successo in quanto capace di proporre il paradigma d’un realismo in grado di superare la realtà: una madre abbraccia il suo bambino sopra i rami d’un albero in un paesaggio montano, di quelli tanto amati da Segantini, sancendo, col suo alone d’intensa spiritualità, il trionfo, la bellezza e la meraviglia della vita, oltre al suo mistero. Due approcci radicalmente differenti: la sala centrale offre al visitatore uno dei passaggi più esaltanti dell’intera mostra.
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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Ricordo di un dolore (Ritratto di Santina Negri) (1889; olio su tela, 107 x 81 cm; Bergamo, Accademia Carrara)
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Edvard Munch, Bambina malata I (1896; litografia a colori con pastello litografico, inchiostro e ago, foglio: 477 x 625 mm; inciso: 475 x 611 mm; Vienna, Albertina Museum)
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Angelo Morbelli, Era già l’ora che volge il desio (1910-13; olio su tela, 104 x 175 cm; Collezione privata, courtesy Studio Paul Nicholls)
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Fernand Khnopff, Acqua calma (1894; olio su tela, 53,5 x 114,5 cm; Vienna, Belvedere) |
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Giovanni Segantini, Ave Maria a trasbordo (seconda versione, 1886; olio su tela, 120 x 93 cm; Sankt Moritz, Segantini Museum, deposito della Otto Fischbacher-Giovanni Segantini Stiftung)
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Gaetano Previati, Maternità (1890-91; olio su tela, 175,5 x 412 cm; Collezione Banco BPM)
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Giovanni Segantini, L’angelo della vita (1894; olio su tela, 276 x 212 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
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Il viaggio nell’animo umano seguita con la discesa negli abissi della paura: perlustrare la psiche umana significava anche percorrerne gli aspetti più orridi e cupi, e molti pittori, ispirati anche dalle numerose opere letterarie che affrontavano il tema dell’incubo, tentarono di dar corpo a tali suggestioni. L’indiscusso protagonista della letteratura del terrore fu Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849), e in Italia varî artisti vollero illustrare i suoi racconti, a cominciare dallo stesso Previati, che produsse una serie di disegni direttamente ispirati ai racconti dello scrittore americano: su tutti spicca la Discesa nel Maëlstrom, dove il turbinio del mare che risucchia i marinai norvegesi protagonisti dell’omonima novella s’estende ben oltre i limiti fisici imposti dal foglio e, in basso, si perde in un’oscura profondità, ampliando lo sgomento dell’osservatore. Anche Alberto Martini (Oderzo, 1876 - Milano, 1954) non mancò di cimentarsi con i racconti di Poe: il suo Corvo è l’orrorifica ombra dell’inquietante uccello che sembra prender forma da un incubo. Strettamente collegati al tema della paura sono le pulsioni scatenate dalla voluttà e dagl’istinti ferini, conseguenze del cambio di costumi (tra cui le abitudini sessuali) che caratterizzò la vita nelle grandi città dell’epoca. Spiccano dunque il celeberrimo Peccato di Franz von Stuck (Tettenweis, 1863 - Monaco di Baviera, 1928), una delle più icastiche e terrificanti rappresentazioni del topos della femme fatale che cominciava allora a fare il suo ingresso nell’immaginario degli artisti, e la Cleopatra di Previati, antesignana dell’eroe decadente, che redime la propria dissolutezza con la morte. La risalita verso passioni più radiose ha inizio dal rapimento estatico che, spogliato d’ogni riferimento mistico o religioso, diviene sinonimo d’una passione pura, travolgente ed eterna, sublimata in luminose visioni oniriche come il Sogno di Previati, e giunge infine agli stati della solarità e dell’entusiasmo: la leggerezza di questi ultimi è resa soprattutto attraverso una nuova rappresentazione della luce, suggerita dalla familiarità con le teorie di Charles Henry, che pensava ci fosse una correlazione tra la struttura di un’immagine e la sua capacità di suscitare sensazioni piacevoli, o con la psicofisiologia di Hermann von Helmholtz, cui si debbono gli studî sulle sensazioni indotte dall’esposizione luminosa. In tal senso è significativo un capolavoro come la Danza delle ore di Previati, dove “la trama impalpabile delle pennellate filamentose e la gamma cromatica armonizzata su poche tonalità luminose pervengono ad effetti di permeabilità e di dinamica leggerezza tali da annullare la fisicità delle figure e dei corpi celesti” (Chiara Vorrasi).
Il rapido cammino verso il secolo ventesimo è affrontato nell’epilogo della rassegna: gli artisti delle nuove generazioni sono sempre più convinti che la forza delle emozioni debba essere il vero soggetto d’un quadro o d’una scultura, e di conseguenza ritengono che dipingere o scolpire un soggetto non significhi fornire all’osservatore un suo ritratto fedele, ma “farne l’atmosfera”, come recita il Manifesto del futurismo del 1914, dove leggiamo anche che “il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre”. Tramite importante è Medardo Rosso (Torino, 1858 - Milano, 1928) che, ammirato anche per i suoi usi sperimentali della fotografia, coi suoî studi degli affetti (si veda la sua Aetas aurea del 1886, ritratto della moglie Giuditta e del figlio Francesco) apre all’indagine delle relazioni umane di Giacomo Balla (Torino, 1871 - Roma, 1958), che nei suoi Affetti rende tutta l’intimità d’un intenso momento tra madre e figlia, e a quelle di Umberto Boccioni.
Proprio a Boccioni si deve il merito d’aver aggiornato la poetica degli stati d’animo per proiettarla nella frenesia della società industriale. Il manifesto futurista aveva definitivamente sancito il totale distacco dell’arte dalla realtà tangibile, mettendo per iscritto una tendenza che gli artisti più giovani avevano già iniziato a far propria: il Profumo di Luigi Russolo (Portogruaro, 1885 - Laveno-Mombello, 1947), del 1910, col suo vortice colorato e scomposto in pennellate fitte, brevi e variopinte, suscita vive sensazioni olfattive, mentre la Stazione di Milano di Carlo Carrà (Quargnento, 1881 - Milano, 1966), di un anno più tarda, trasporta l’osservatore nel mezzo dei fumi, dei rumori, del chiassoso brusio, della folla e del dinamismo d’una moderna metropoli, senza rappresentare direttamente la stazione milanese, ma evocandone l’atmosfera. Boccioni, come sottolineato in apertura, aveva trovato in Previati il suo più diretto antecedente, in quanto artista che s’era posto il problema di superare la più rigida mimesis in favore d’una pittura in grado di farsi sensazione: ecco dunque la prima versione del trittico degli Stati d’animo, composta da tre tele, Quelli che vanno, Gli addii, e Quelli che restano, che si lasciano alle spalle il divisionismo puntando su di una figurazione in cui protagonisti e ambiente sono ormai indissolubilmente fusi con l’atmosfera e dove luci e colori si fanno carico d’esprimere la mestizia d’un addio alla stazione. Gli addii, al centro del trittico, con le loro linee curve evocano gli abbracci tra coloro che a breve si separeranno. Quelli che vanno si perdono tra le pennellate fitte, orizzontali, che suggeriscono la loro partenza, forse per non fare più ritorno. Quelli che restano sono invece ombre avvilite, chine per il tormento della separazione, e che procedono a passo lento tra una foschia triste che tutto avvolge. Pittura che produce effetti emotivi immediati, come da programmatico obiettivo dei futuristi. Pittura che, ha notato Michael Zimmermann, prova anche a superare l’appena nato cinema, dacché assume un punto di vista corale e spinge l’osservatore a immedesimarsi nei varî protagonisti dell’opera. Pittura che aspira a render manifesto il convincimento futurista per cui “la vera forza rivoluzionaria veniva identificata in una diffusa affettività collettiva” (Zimmermann) e a fare in modo che chi osserva il quadro sia pienamente partecipe ed empatizzi coi protagonisti. Pittura che, in altri termini, indaga le manifestazioni psichiche d’una folla indistinta causate da un dato evento e che dunque, per certi versi, secondo lo storico dell’arte tedesco anticipa in qualche modo le modalità di socializzazione indotte dai social media.
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Gaetano Previati, Discesa nel Maëlstrom (1888-1890; carboncino nero su carta, 315 x 380 mm; Collezione privata)
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Alberto Martini, Il corvo (1906; china su cartoncino, 360 x 250 mm; Collezione privata)
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Franz von Stuck, Il peccato (1909; olio su tela, 88,5 x 53,5 cm; Palermo, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”)
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Gaetano Previati, Cleopatra (1903; olio su tela, 165 x 145 cm; Collezione privata)
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Gaetano Previati, Il sogno (1912; olio su tela, 225 x 165 cm; Collezione privata)
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Gaetano Previati, La danza delle ore (1899 circa; olio e tempera su tela, 134 x 200 cm; Milano, Collezione Fondazione Cariplo, Gallerie d’Italia Piazza Scala)
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Medardo Rosso, Aetas aurea (1886; cera su gesso, 50 x 48 x 35 cm; Lugano/Londra, Amedeo Porro Fine Arts)
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Giacomo Balla, Affetti (1910; olio su tela, 115 x 71,5, 115 x 129,5, 115 x 71,5 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
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Luigi Russolo, Profumo (1910; olio su tela, 65,5 X 67,5 cm; Rovereto, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione VAF-Stiftung)
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Umberto Boccioni, il trittico degli Stati d’animo
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Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Gli addii (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
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Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che vanno (1911; olio su tela, 71 x 95,5 cm; Milano, Museo del Novecento)
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Umberto Boccioni, Stati d’animo I: Quelli che restano (1911; olio su tela, 71 x 96 cm; Milano, Museo del Novecento)
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Le opere di Boccioni giungono a congedare i visitatori al termine d’una lunga, sorprendente e appassionante discesa nella psiche umana che risulta sicuramente convincente: i passaggi da una sezione all’altra sono graduali e tra loro legati con chiarezza e coerenza, l’introduzione e l’epilogo forniscono un’imprescindibile contestualizzazione rimarcata, in tutte le sale, dagli allestimenti che rimandano a costanti paralleli tra l’arte, il progresso tecnologico e le ricerche scientifiche del tempo (oltre che, sebbene in misura minore, con gli orientamenti della critica tra fine Ottocento e inizio Novecento), la selezione delle opere atte a illustrare i diversi sentimenti è di qualità eccelsa e particolarmente efficace non solo per far da illustrazione a questa sorta di grande compendio dei sentimenti umani sintetizzato da Stati d’animo, ma anche per segnare un percorso storico-artistico (il momento è quello del passaggio dal simbolismo al divisionismo e dal divisionismo al futurismo) d’alto livello.
Non si può far a meno di notare come la mostra cerchi d’affermare la centralità delle figure di Previati e Boccioni: una centralità ribadita dall’ampio spazio riservato anche nel catalogo a questi due grandi genî della storia dell’arte italiana. Quanto al catalogo, tocca purtroppo segnalare la mancanza delle schede delle opere, compensata però da alcuni approfondimenti mirati su di una selezione dei principali capolavori, da lunghi approfondimenti tematici di Chiara Vorrasi (che fungono anche da puntuale guida attraverso tutte le opere esposte), da una corposissima e indispensabile cronologia che assomma arte, critica d’arte, scienza, letteratura, giornalismo, musica, teatro e molto altro, redatta da Monica Vinardi e Maria Grazia Messina, nonché da un corpus di saggi approfonditi e consistenti. Si segnalano, in particolare, il contributo di Michael Zimmermann cui in parte s’è già accennato, quello di Fernando Mazzocca (una densa ricostruzione del percorso artistico di Previati) e quello di Monica Vinardi, che si focalizza sugl’interessi letterarî di Segantini. Molti altri sarebbero poi i temi degni d’interesse, ai quali tuttavia in questa sede non s’è accennato: a Stati d’animo occorre riconoscere anche il merito d’aver saputo affrontare un argomento molto complesso e articolato con un percorso vivo che non tralascia particolari importanti, che opera confronti tra le opere e rimanda spesso al contesto europeo, che mette insieme un elevato numero di opere mai fuori posto nello scandire le tappe di un’intenso viaggio tra le emozioni.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).