Il selfie è il punto d’arrivo che chiude il cerchio dell’autoritratto come si è sviluppato da quando è passata l’idea, molto attraente ma anche molto falsa, che in ogni uomo si celi un artista? Riccardo Falcinelli, per esempio, ha cercato risposte alla questione indagando le diverse “facce” del problema nel voluminoso saggio Visus edito da Einaudi qualche settimana fa. E un intellettuale austriaco contemporaneo, Thomas Macho, aveva definito la nostra una “società facciale”, che il più importante studioso delle immagini, scomparso nel 2023, Hans Belting, una decina d’anni fa prese come approdo per una “storia del volto” (Facce, Carocci editore). Belting sosteneva che l’arte, nella nostra società, non fa altro che produrre “maschere di maschere”. Questo modo di vedere il volto per i veneziani del Settecento generava “larve”, l’Eidolon dei greci, ovvero il fantasma o l’ombra di qualcuno (Longhi ne rispolverò la memoria inventando il dialogo tra Caravaggio a Tiepolo, e si capisce chi è il creatore di larve).
La mostra che i Musei di San Domenico hanno da poco inaugurato (fino al 29 giugno) dedicata a Il ritratto dell’artista, “da Narciso al Selfie”, vuole appunto di far vedere com’è cambiato questo particolare sguardo lungo oltre duemila anni di storia. Vedersi nello specchio d’acqua costituì forse il primo approdo alla coscienza di sé. Sono proprio io? Sarò davvero così? Gli altri come mi vedono? Nella nostra modernità il punto di maggior avanzamento nell’immagine di noi stessi, è nel “vedersi vedersi” che Proust attribuisce a Monsieur Teste che si vede dormire. Vedere se stessi e avere coscienza che stiamo guardando noi stessi: due momenti diversi e complementari.
Ci viene ricordato il Narciso di Leon Battista Alberti come terminus a quo per lo sguardo dell’artista su di sé. Ma Narciso è davvero il prototipo dell’autoritratto? Tintoretto non si ferma a questo, la fonte è il mezzo di una soggettività che si vede nella natura; mentre il Narciso di Corrado Cagli, nell’arazzo esposto del Senato della Repubblica, sembra rispecchiarsi più in Gauguin che in se stesso e poco c’entra con l’autoritratto; anche il Narciso fino a qualche tempo fa riconosciuto a Caravaggio, ma negli ultimi decenni attribuito a Spadarino e oggi esposto nella mostra romana dedicata al Merisi, non ha molto a che fare con l’autoritratto. Mentre la sua discepola coeva, Artemisia, fa dell’autoritratto, incoronata di alloro, la dichiarazione spavalda della sua raggiunta fama di grande pittrice. Ma non tutti amano ritrarsi: Casorati sosteneva di non aver mai dipinto un proprio ritratto. E ci sono artisti che si sono studiati per tutta la vita, Rembrandt, per esempio, di cui a Forlì sono esposte quattro incisioni; oppure Chardin (non esposto), De Chirico, oppure Ingres: chi più chi meno, tutti, forse, hanno racchiuso il loro segreto nelle trasformazioni del loro volto nel tempo, più che in un preciso ritratto. Come può essere quello di Giulio Aristide Sartorio del 1905, a cavallo e con ai piedi la tigre; o quello surreale di Léon Frédéric del 1881, sullo sfondo del suo studio, dove gli oggetti collaborano a definire il “volto” dell’artista. Il confronto fra gli autoritratti di Thorvaldsen e Canova, invece, è una sfida sulla capacità di fare di se stessi una icona di stili diversi e di diversa attualità storica.
La “contemplazione dell’immagine di sé” che Cristina Acidini, una dei curatori della rassegna, pone come viatico alla riflessione, nasconde sotto la superficie i diversi motivi che muovono l’artista: può essere appunto la volontà di rappresentarsi tra le figure illustri – l’aggettivo Divino appartiene agli artisti fin dell’epoca moderna: vedi Raffaello o Michelangelo – o come testimoni: Caravaggio si rappresenta così nel Martirio di san Matteo o nella Presa di Cristo nell’Orto, dove addirittura regge la lanterna che illumina la scena, o più in profondità ancora, nel David della Borghese dove la testa di Golia è il suo j’accuse come colpevole e come vittima.
Nella modernità, come sottolinea Fernando Mazzocca, anch’egli fra i curatori, autoritratto e autobiografia si sposano in una sorta di manifestazione fisiognomica e astratta al tempo stesso dell’io, vedi i due diversissimi autoritratti di Giacomo Balla, oppure il volto rabbuiato di Sironi. Tra i contemporanei, l’autoritratto diventa la proiezione di se stesso che l’artista cerca come modo di stare nel mondo: il trittico Ecstasy II di Marina Abramovic, a dire il vero, è più una maschera ironica che una confessione d’interiorità, mentre l’Autoritratto. Sommerso di Bill Viola è una dolorosa apnea.
Resta una domanda: la Fondazione Gianadda, ha da poco inaugurato una retrospettiva dedicata a Bacon, dal titolo Présence humaine che espone sei autoritratti fra i tanti che il pittore ha dipinto. A David Sylvester che gli domandò perché era tanto preso dagli autoritratti, Bacon rispose che attorno a lui le persone morivano come mosche e non gli restava che dipingere se stesso. Ma, in realtà, la sfigurazione del volto, tipica dei ritratti di Bacon, era quasi un maquillage psicologico (più che mai di se stesso). Come l’attore quando in camerino si toglie il trucco e per un istante la sua faccia è una maschera “mostruosa”. Perché, fra oltre duecento opere, a Forlì però non hanno pensato di esporre nemmeno un autoritratto di Bacon? Ma in effetti non c’è nemmeno quello di Giacometti. Mancano cioè due artisti contemporanei fra i più evocativi riguardo al genere.
L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).