Severa e miracolosa. Seguendo Caravaggio “con maniera vigorosa e tinta”, dal 28 luglio al 14 ottobre al MuMe, Museo Regionale di Messina, è una mostra con un che d’altra epoca. L’allestimento asciutto e rigoroso nulla concede alle attese (o pretese) di un visitatore ormai viziato da un paradigma fruitivo che prevede il suo coinvolgimento con le più sottili e avanzate tecniche e tecnologie allestitive. Tra pannelli, apparati didattici essenziali e sale avvolte dall’ombra i dipinti affiorano all’osservazione come nude verità, messe sapientemente a fuoco da una strategia luministica tanto semplice quanto efficace.
L’effetto complessivo, di severità dicevamo, dà l’impressione di essere piombati in anni precedenti alla mostra longhiana dedicata al Caravaggio nel 1951 a Palazzo Reale a Milano, dove tra contropareti e soluzioni teatralizzanti Roberto Longhi “ridava” al mondo quello che fino ad allora era un grande artista per pochi e al contempo creava un’icona irrinunciabile. Un richiamo gigantesco giusto per dire che la non rischiosa proposta di una mostra “tout court” può essere raccolta nel XXI secolo solo se la disciplina della ricerca scientifica resta faro della curatela. Corale, quest’ultima si deve alle quattro storiche dell’arte del museo, Elena Ascenti, Giovanna Famà, Alessandra Migliorato e Donatella Spagnolo.
Miracolosa, dicevamo pure dell’esposizione. Perché in realtà il direttore del museo, Orazio Micali, ha saputo fare di necessità virtù. La mostra, costata appena 67.344,00 euro (niente catalogo), è stata interamente approntata con soluzioni in economia che, più che mettere in luce doti manageriali del direttore, così tanto apprezzate senza soluzione di continuità dal precedente all’attuale corso ministeriale, hanno fatto di Micali un vero “deus ex machina”, sempre in cantiere, pronto a risolvere ogni passaggio di un allestimento che ha dovuto fare pure i conti con i continui blackout legati al grande caldo e agli incendi che appena qualche giorno prima dell’inaugurazione avevano messo in ginocchio la città. Senz’acqua e senza luce, con un personale già ridotto al lumicino, i quadri sotto l’occhio vigile (e le braccia prestate) del direttore architetto, hanno trovato il giusto allineamento sulle pareti in cui uniche fonti di luce, nei concitati momenti finali, sono state torce e puntatori laser. Potremmo dire che l’allestimento minimalista finale è inversamente proporzionale al pathos del dietro le quinte.
Con un impareggiabile vantaggio, rispetto ad altre rassegne dedicate ai caravaggeschi (anche rispetto a quella, per rimanere in Sicilia, alla Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo nel 2017), il percorso della mostra, allestita nell’ex Filanda Mellinghoff, vecchia sede del museo adibita con l’apertura della nuova ad esposizioni temporanee, si integra alla collezione permanente. Quella dei caravaggeschi di più stretta osservanza, Rodriguez e Minniti, che si snoda attorno alla sala riservata ai due capolavori di Caravaggio, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori, e si articola fra il primo e il secondo livello espositivo, in un rapporto di continuità. La prima fase testimonia l’esperienza innovativa di Caravaggio con prospettive diacroniche e agganci tematici che ne testimoniano le premesse e le conseguenze, la seconda si relaziona invece con il parallelo affermarsi delle correnti classiciste romane che vengono importate in città. File rouge espositivo riproposto nell’esposizione temporanea.
E i visitatori hanno decisamente dimostrato di apprezzare la formula “caravaggeschi ospiti in casa del Caravaggio”: a metà settembre il museo ha già superato gli incassi dell’intero 2022, che erano stati superiori a quelli del 2019, l’ultimo anno pre-pandemia; con la fondata previsione di battere a fine mostra pure gli incassi del 2017 in cui era stata inaugurata la nuova sede museale.
Diciamolo subito, una mostra sul “caravaggismo” è più impegnativa di una mostra sulla star Caravaggio. È uno dei temi più ardui della critica d’arte. Longhi lo rifiutava sdegnosamente ritenendo il termine legato a una categoria concettuale e pertanto non applicabile alle opere d’arte. Bene si è scelto, dunque, già dal titolo della mostra ad evitarlo, invitando, invece, il visitatore a disporsi alla visita “seguendo il Caravaggio”. Sulle tracce del suo passaggio in Sicilia, con 52 opere, delle quali poco più della metà in prestito da Palazzo Abatellis; Museo diocesano di Palermo; Curia arcivescovile di Palermo; Curia arcivescovile di Messina, Lipari e Santa Lucia del Mela; Fondazione Lucifero di San Nicolò; Palazzo Alliata di Villafranca di Palermo; Museo civico di Castello Ursino a Catania, oltre che dal Ministero dell’Interno – Fondo Edifici di Culto e da collezioni private. Delle venticinque opere dello stesso Museo regionale di Messina 15 provengono dai depositi, in più di un caso esposte per la prima volta.
Nel percorso proposto ai visitatori si trovano in maniera esemplificativa i pittori che, tra Sicilia orientale e occidentale, avevano respirato l’ossigeno dell’innovazione, assimilandolo in una personale e autonoma rielaborazione del linguaggio del maestro lombardo, in cui l’uso del colore e del chiaroscuro fa deflagrare la forza espressiva delle “invenzioni”. Un linguaggio rivoluzionario sintetizzato efficacemente da Francesco Susinno, storiografo messinese settecentesco, nel sintagma “maniera vigorosa e tinta”, ripreso nel titolo della mostra.
La forbice cronologica è compresa tra la metà del Cinquecento e gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, con esiti di diverso livello qualitativo. Debole nel Cristo alla colonna di Catania, dove le figure appaiono appiattite in superficie, annullando il tentativo di darvi risalto col chiaroscuro, o nella Conversione di San Paolo, di Antonino Barbalonga Alberti e aiuti, col volto inespressivo del Santo bizzarramente compensato dallo sguardo del cavallo bianco che esce fuori dalla tela diritto verso l’osservatore. Si leva, invece, come un assolo, nel San Francesco in estasi di Filippo Paladini, di poco successivo all’incontro con le opere caravaggesche; nel Miracolo della Vedova di Naim del Minniti; nel San Carlo Borromeo intercede per la fine della peste a Milano, con la fuga prospettica di stanze connotata da un ardito scorcio, quasi una visione metafisica che squarcia la parete brunita su cui si staglia la figura del Santo; o ancora nel Commiato dei Santi Pietro e Paolo prima del martirio del Rodriguez, una delle più alte prove siciliane di comprensione del Caravaggio in termini di carica drammatica e valori pittorici. Tra queste opere del patrimonio del museo messinese va menzionato anche il delizioso olio su rame una Natura morta con frutta, ortaggi e mele cotogne, dubitativamente ricondotto al Van Houbracken.
Il criterio espositivo non ha, però, un taglio monografico sulle singole personalità, privilegiando un criterio per epoche, per temi e filoni significativi che favorisca confronti e rimandi. Dopo quasi settant’anni dalla mostra milanese (senza dimenticare Caravaggio tornato a Palazzo Reale nel 2006) e quaranta da quella storica del 1981-82 allo stesso museo in riva allo Stretto, nel mezzo studi, ricerche, aggiornamenti documentari, ritrovamenti e mettiamoci pure la foga da sensazionalismi volta ad arricchire il catalogo del maestro in modi un tempo impensabili, la mostra rende un buon servizio agli studi, con i suoi non scontati accostamenti di opere poco note o che riemergono dai depositi, intesi anche a stimolare nuove riflessioni sulla geografia di percorsi e scambi tra la Sicilia e l’Europa nella prima metà del Seicento.
Con una sola deroga al criterio generale: la sala interamente dedicata all’outsider messinese Giovan Simone Comandé, curata dalla Famà, alla quale si deve una meticolosa ricerca volta a metter in luce un pittore “sempre in bilico tra tardo manierismo e naturalismo, trait d’union tra Filippo Paladini, Antonio Catalano l’Antico e Alonzo Rodriguez, mai realmente ‘aderente’ al Caravaggio, ma di certo uno degli apripista della riforma naturalistica a Messina”.
Dopo la sala introduttiva, si inizia col contesto storico in cui verrà a innestarsi il lievito caravaggesco, quello della Messina degli anni d’oro tra Cinquecento e prima metà del Seicento. In pittura il clima di assimilazione dei precetti tridentini è documentato dal napoletano Deodato Guinaccia, a Messina dal 1570 al 1585. Intrisa ancora di manierismo la sua Pietà è ispirata ad un celebre disegno di Michelangelo Buonarroti eseguito per Vittoria Colonna e tradotto in pittura da Marcello Venusti, tra i principali esponenti dell’ortodossia artistica tosco-romana. Altri esempi di pale d’altare controriformate sono la Madonna col Bambino in gloria tra i santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino di Antonio Catalano l’Antico, allievo del Guinaccia, e l’Adorazione dei Magi di Giovan Simone Comandè. Un’opera inedita (Madonna in gloria tra Sant’Erasmo e Sant’Antonio da Padova) di Gaspare Camarda firmata e datata 1608, anno di arrivo del Caravaggio a Messina, fotografa il terreno culturale e artistico che sarà sommosso dalla rivoluzione del Maestro.
Nella terza sala il confronto è con uno dei temi più frequentati dal Caravaggio, la Passione di Cristo: dai Cristo portacroce del Minniti all’Ecce Homo, un tempo assegnato al Rodriguez e in mostra indicato con un più prudente “ignoto”, copia antica dell’esemplare di Genova, sulla cui dubbia quanto incredibile attribuzione al Caravaggio sembra parlare finalmente anche il dipinto madrileno scoperto nella collezione Pérez de Castro Méndez; fino a una Incoronazione di spine, dove compare pure il tema del Cristo deriso, utile, al contrario, a documentare l’assenza dell’influenza diretta del Caravaggio in un’opera della tarda maniera tra Cinque e Seicento.
Agli anni cruciali dell’influsso del Caravaggio sulla pittura siciliana, dal 1610 al 1629 circa, è dedicata la sezione successiva che si snoda in quattro sale. Nella prima (“Naturalismo caravaggesco in temi sacri, allegorici e quotidiani”) è possibile seguire la graduale assimilazione delle idee caravaggesche da parte di artisti come il Minniti, in Povertà nei ricchi d’ingegno e Cristo Crocifisso e la Maddalena; e il Rodriguez, con il Commiato dei Santi Pietro e Paolo. Nella seconda sala i riflessi caravaggeschi si combinano col paesaggio fiammingo. Nelle due Scene dalla parabola del Buon Samaritano del Minniti gli sfondi naturali sono quasi degli hapax nel contesto siciliano caravaggesco del primo Seicento, per le inconsuete ambientazioni in esterno con brani di paesaggio popolati da viandanti, cacciatori o pastori intenti in attività quotidiane estranee al soggetto principale. Deve parte della sua attrattiva proprio allo sfondo paesistico il Miracolo della Vedova di Naim, qui trasferito dall’esposizione permanente del Museo, ritenuto il capolavoro del pittore amico del Caravaggio. Protagonista della terza saletta della sezione sono i dipinti allegorici il Tatto e il Gusto, che fanno parte della serie de’ I Cinque Sensi di Caccamo, attribuiti a Jan Van Houbracken, in cui un’attitudine narrativa e teatrale, insieme alla sensibilità verso il mondo popolare, offre al visitatore un altro aspetto fondamentale del messaggio caravaggesco. Dalla Sicilia orientale ci si sposta, quindi, a Palermo, tra il 1621 e il 1622, nella sala che chiude la sezione, con l’Ultima Cena dipinta per il convento di Santa Maria di Gesù dal racalmutese Pietro D’Asaro, personalità artistica eclettica, e con l’Elemosina di San Carlo di Pietro Alvino.
Un posto di rilievo nel percorso, dicevamo, ha il salone dedicato interamente a Giovan Simone Comandè, “fiume perenne della pittura”, la cui personale adesione al lessico caravaggesco si rivela nella “figura imponente del Sant’Antonio Abate (del Museo Regionale, ndc.) e nella cromia modulata tra i toni severi del marrone e del nero”, osserva Giovanna Famà, studiosa a cui si deve la ricomposizione del catalogo dei dipinti (dalla fine del Cinquecento al primo trentennio del secolo successivo) attribuiti a questo pittore celebrato dalla storiografia più antica, e nelle cui opere, scrive ancora Famà, “si riscontrano, all’interno di una cultura composita di alto livello, sentimenti complicati dove l’esperienza caravaggesca diretta o desunta da opere di scuola, traspare senza essere mai protagonista”. Prova ne è anche la preziosa Vocazione di Sant’Andrea o Pesca miracolosa.
Dal salone si attraversa un tunnel buio, quasi anti-struttura di decompressione dallo spazio precedente monografico per approdare nella sala dove sono documentate le nuove suggestioni, fra il quarto e il quinto decennio del Seicento, tra naturalismo, raffinato classicismo e barocco, con opere ancora del Minniti e del Rodriguez, insieme a Jusepe De Ribera e dell’olandese Stomer (o Stom). Da qui si passa ai principali esponenti del rinnovamento pittorico presenti a Messina a partire dal quarto decennio del Seicento, che pur in un mutato clima culturale, risentono ancora del caravaggismo: Giovan Battista Quagliata, con i Santi Cosma e Damiano; Antonino Barbalonga Alberti, con la grande tela centinata raffigurante la Conversione di San Paolo, restituita al pubblico dopo il restauro appena ultimato, e Nunzio Rossi, con un inedito dipinto con lo stesso soggetto.
Conclude la visita la sezione “Tangenze con Fiandre, Napoli, Genova e Malta in alcuni casi studio”, in cui si rimescolano le carte in tavola, le certezze accademiche si fanno periclitanti e le ipotesi rischiano di caracollare. Mentre al semplice visitatore è concesso di non imbrigliar lo spirito tra dipinti, inediti o poco noti, o al contrario, molto conosciuti ma dall’attribuzione controversa, messi in dialogo tra loro in nome di una comune cifra caravaggesca. Ecco, dunque, anche l’occasione unica per esaminare da vicino Santi Pietro e Paolo di Santa Lucia del Mela, da molti anni “in cerca d’autore” tra i caravaggeschi siciliani o soffermarsi davanti all’omaggio al Caravaggio nell’inedito Martirio di Sant’Orsola, ripreso con alcune varianti dall’originale caravaggesco del 1610 (Napoli, Gallerie d’Italia).
La mostra, in conclusione, lungi da ricostruzioni semplicistiche, è un valido tentativo di raccontare la reale “fortuna” della pittura del Caravaggio in Sicilia, al suo tempo e successivamente, in termini storici complessivi e non solo storico artistici o meramente stilistici.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).