di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 27/12/2017
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Seicento - Padova - Arte antica
Recensione della mostra 'Rivoluzione Galileo. L'arte incontra la scienza' a Padova, Palazzo del Monte di Pietà, fino al 18 marzo 2018.
Quando nel 1610 Galileo Galilei (Pisa, 1564 - Arcetri, 1642) lasciò Padova per raggiungere l’agognata Firenze onde assumere l’incarico di “Primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana”, nella città veneta non furono pochi coloro che si rammaricarono per la scelta del grande scienziato: la sua presenza nell’ateneo patavino aveva lasciato segni indelebili. “Io mi posso ben imaginare di essere con il mio signor Galileo”, gli aveva scritto uno dei suoi più grandi amici, Gianfrancesco Sagredo, “posso volgermi nella memoria molti de’ suoi dolcissimi ragionamenti; ma come è possibile che l’imaginatione mi serva per rapresentarmi et indovinar tante giocondissime novità che nella sua gentilissima conversatione io soleva trarre dalla sua viva voce? [...] In questo capo adunque, che è fondato sopra l’interesse mio, mi riesce la partenza di Vostra Signoria Eccellentissima di inconsolabile et incompensabile dispiacere”. Del resto, Galileo s’era trattenuto per ben diciott’anni in Veneto, dov’era arrivato nel 1592, anno in cui, ventottenne, era riuscito a ottenere la cattedra di matematica all’Università di Padova: “i diciotto anni migliori di tutta la mia età”, li definì ormai in vecchiaia, in una lettera inviata nel 1640 a Fortunio Liceti. Naturale, dunque, che una mostra come Rivoluzione Galileo. L’arte incontra la scienza, in corso fino al 18 marzo 2018 al Palazzo del Monte di Pietà di Padova, trovi terreno fertile proprio sulle rive del Bacchiglione.
Non è difficile comprendere perché Galileo ritenesse tanto felici gli anni trascorsi a Padova. Furono anni colmi di soddisfazioni personali e professionali dacché, in Veneto, lo scienziato ottenne la sua prima cattedra stabile, conobbe amici che gli restarono fedeli per tutta la vita (come il summenzionato Gianfrancesco Sagredo) e che Galileo era solito accogliere nella sua casa per dar vita a quelle appassionate discussioni sulla scienza (e non solo) cui lo stesso Sagredo faceva riferimento nel brano sopra riportato, ebbe la possibilità di lavorare in quell’ambiente intellettualmente fecondo e stimolante che conosciamo dagli scritti dell’epoca e ch’è stato fissato nell’immaginario collettivo dagli sceneggiati e dalle riduzioni cinematografiche della vita del matematico pisano. Un ambiente che gli permise di compiere i suoi primi studî sul telescopio (nonché su altri strumenti scientifici che realizzava nel laboratorio che s’era allestito nella propria abitazione) e, di conseguenza, di mettere a punto le prime osservazioni astronomiche, i cui risultati sarebbero stati poi pubblicati nel Sidereus Nuncius, l’opera del 1610 che fece conoscere in tutta Europa le sue scoperte sulla Via Lattea, sui satelliti di Giove, sulla Luna. Non solo: a Padova, Galileo ebbe anche modo di raffinare il suo grande talento letterario, che gli consentì di rinnovare in modo radicale anche la forma degli studî scientifici.
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Una sala della mostra Rivoluzione Galileo |
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Una sala della mostra Rivoluzione Galileo |
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Una sala della mostra Rivoluzione Galileo |
La mostra che Padova dedica a Galileo e alle sue scoperte, concentrandosi per buona parte sul periodo che lo scienziato trascorse in città, intende rievocare il clima fervido e appassionato che lo accompagnò durante tutta la sua permanenza in Veneto, ma sono anche altri e diversi i punti d’interesse. Si può dire che siano sostanzialmente tre i principali livelli di lettura dell’esposizione, curata da Giovanni Carlo Federico Villa e Stefan Weppelmann, e promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo assieme all’Università di Padova: tre vere mostre nella mostra che consentono al visitatore, su di un primo piano, d’immergersi nella vita di Galileo Galilei, nel suo mito e nel contributo da lui offerto al progresso della scienza, sul secondo d’approfondire l’affermarsi del Seicento come secolo del metodo scientifico, e sul terzo di vedere come l’eco delle scoperte del diciassettesimo secolo si sia propagata nelle epoche successive, fino ai giorni nostri. Il tutto per un’esposizione dal taglio eminentemente divulgativo, ideata e pensata (con grande intelligenza e, verrebbe da aggiungere, con la raffinatezza tipica delle mostre di Giovanni Villa) soprattutto per il grande pubblico. Ovviamente non si tratta della prima mostra su Galileo: tra le varie, giunge subito alla mente la splendida rassegna Il cannocchiale e il pennello che Pisa dedicò al suo illustre scienziato nel 2009. Tuttavia, malgrado siano numerosi i punti di contatto tra l’esposizione veneta di quest’anno e quella toscana d’otto anni fa (molte sono anche le opere già esposte a Pisa che ritroviamo a Padova), occorre marcare le differenze: se dunque la mostra di Palazzo Blu tendeva più a evidenziare come le scoperte scientifiche avessero condizionato gli ambienti artistici dell’Italia secentesca (si ricorda, in particolare, una sala in cui s’approfondiva il legame tra Galileo e il suo grande amico Ludovico Cardi, detto il Cigoli: a Padova, l’argomento viene a malapena sfiorato), quella di Palazzo del Monte di Pietà cerca d’offrire una prospettiva meno profonda ma in compenso più ampia, andando a toccare diverse tematiche delle quali si proverà a dar qui un sunto e che sono tra loro legate dal leitmotiv della figura di Galileo.
È del resto con lui che s’apre il racconto di Rivoluzione Galileo, impostato su toni piacevolmente narrativi. La prima opera che il visitatore incontra è il ritratto di Galileo realizzato da Santi di Tito (Firenze, 1536 - 1603): non è quello che ha contribuito a fissare l’immagine dell’artista (a tal compito ha semmai provveduto il ritratto che Justus Suttermans eseguì quando il matematico era in età avanzata, e che oggi si conserva agli Uffizi), ma è un dipinto che sorprende l’osservatore per il suo vivo naturalismo. “Colpiscono”, scrive in catalogo lo storico dell’arte Federico Tognoni, “il color grigio-azzurro degli occhi, riscontrabile anche in altre sue testimonianze iconografiche coeve, l’incarnato appena rischiarato da tinte di rosa in corrispondenza delle guance e intorno agli occhi, e [...] i capelli corti, radi e in particolare rossicci, che ancora non presentano alcun accenno di incanutimento”. Galileo, quasi quarantenne se s’accetta la datazione del dipinto al 1603, veste già la toga nera con colletto bianco, lui che da giovane, quand’era ancora lettore all’Università di Pisa, aveva scritto un Capitolo contro il portar la toga per farsi beffe dei suoi colleghi imbalsamati in quell’accademismo di maniera contro cui l’ironico pamphlet in terzine intendeva scagliarsi. Al contrario, nel ritratto di Santi di Tito, Galileo par quasi fiero della posizione raggiunta con tanto sacrificio.
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Santi di Tito, Ritratto di Galileo Galilei (1603 circa; olio su tela, 70 x 61 cm; Grassina, Collezione Alberto Bruschi) |
Presentato il grande protagonista, la rassegna padovana si concede un paio di sale per introdurre il visitatore nel contesto storico. A riassumere la curiosità intellettuale che caratterizzò il diciassettesimo secolo è una tavola del fiammingo Domenico Remps (1620 circa? - Firenze?, 1699 circa), il celebre Scarabattolo, una sorta di vetrinetta che accoglie una congerie d’oggetti bizzarri radunati da un collezionista: piccoli quadri, teschi, cammei, conchiglie, rametti di corallo, perle, insetti, stampe, oggetti d’oreficeria. La mostra non poteva non rievocare l’uso secentesco delle Wunderkammern, le “camere delle meraviglie” nelle quali venivano raccolti cimelî, manufatti e curiosità delle più disparate provenienze: non solo opere d’arte, ma anche reperti naturali e oggetti esotici che rendono manifesta la voglia d’indagare e di scoprire che contraddistinse un’epoca d’enormi cambiamenti in ambito scientifico. Cambiamenti che andarono a rinnovare in modo radicale quelle che risultavano all’epoca le conoscenze sulla terra, sull’universo, sugli astri, sul moto dei pianeti, ma anche sul funzionamento del corpo umano.
Prima del Seicento, quasi non sussisteva differenza tra astronomia e astrologia: le precedenti rappresentazioni dell’universo non erano fondate su calcoli geometrici e matematici (lo sarebbero diventate dopo Galileo), ma s’affidavano semplicemente all’esperienza, e a quest’ultima sovrapponevano i miti e le credenze (per esempio, quelle che volevano che i nati in un dato periodo dell’anno, quindi con una particolare disposizione degli astri in cielo, fossero soggetti a determinate influenze o inclinazioni caratteriali). La conoscenza del cielo secondo il mondo antico è rappresentata in mostra dalla De mundi et sphere declaratione di Igino, astronomo vissuto nel primo secolo dopo Cristo e la cui opera conobbe una certa fortuna nel Quattrocento, tanto da essere stampata e corredata d’illustrazioni (importanti in quanto furono le prime rappresentazioni delle costellazioni pubblicate in un libro a stampa). Si tratta, beninteso, di raffigurazioni ancora di tipo astrologico, connesse più ai miti che alla scienza, ma capaci comunque d’esercitare un gran fascino: prova ne sono le due mappe celesti di Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 - 1528), una dedicata all’emisfero boreale e l’altra all’emisfero australe, ancora legate alla classificazione tolemaica e con le costellazioni raffigurate in uno stile vicino a quelle dell’edizione a stampa del trattato di Igino. Occorrerà attendere il multiforme genio di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) per un diverso approccio allo studio del cielo: Leonardo si concentrò sull’osservazione della Luna (cui avrebbe voluto dedicare un trattato, ma l’idea mai si concretizzò) e arrivò, un secolo prima di Galileo, non solo a delineare con certa precisione il ciclo delle fasi lunari, ma anche a spiegare il fenomeno della luce cinerea (l’effetto per cui, prima e dopo il novilunio, oltre alla falce illuminata dal Sole riusciamo a scorgere il resto del disco lunare, illuminato dalla luce che la Luna riceve riflessa dalla Terra) e a intuire l’irregolarità della superficie lunare, che allora si voleva liscia e perfetta. In mostra è presente un disegno in cui Leonardo offre una semplice ma innovativa rappresentazione della Luna, con i suoi oceani, i suoi crateri, le sue montagne, ovvero le asperità che in antico erano ritenute “macchie” che sporcavano l’immagine della Luna, e che in molti tentarono di spiegare adducendo le più fantasiose motivazioni (da non meglio specificati vapori o nuvole che l’attraverserebbero, fino alle ombre delle montagne della Terra).
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Domenico Remps, Scarabattolo o Natura morta a inganno (seconda metà del XVII secolo; olio su tavola, 99 x 137 cm; Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure) |
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Le due mappe di Albrecht Dürer |
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Albrecht Dürer, L’emisfero nord del globo celeste. Mappa celeste boreale (1515; xilografia, 420 x 427 mm; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) |
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Albrecht Dürer, L’emisfero sud del globo celeste. Mappa celeste australe (1515; xilografia, 421 x 432 mm; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) |
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Leonardo da Vinci, Variazione della figura della Luna nelle sue fasi (1505-1508; penna e inchiostro, 59,6 x 44,4 cm; Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana) |
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Leonardo da Vinci, Due disegni del volto della Luna, discorso sulla rifrazione dei raggi solari sull’acqua, dettaglio (1505-1508; penna e inchiostro, 59,6 x 44,4 cm; Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana) |
Il lento procedere verso le conquiste galileiane trova due capitoli importanti nelle figure di Tycho Brahe (Knutstorp, 1546 – Praga, 1601) e Giovanni Keplero (Johannes von Kepler, Weil der Stadt, 1571 - Ratisbona, 1630). Gli studî del primo, che s’avvalsero d’innovativi e moderni modelli planetari che l’astronomo danese elaborò anche con l’ausilio di numerosi strumenti (in primis sfere armillari, ovvero modelli del cielo formati da anelli che rappresentavano le orbite dei pianeti: la mostra ne espone diverse), costituirono la base per le scoperte del secondo, che tentò invano di persuadere il collega ad abbracciare le teorie eliocentriste (Brahe rimaneva infatti convinto del fatto che fosse il Sole a girare attorno alla Terra): in compenso, Keplero ebbe successo nell’individuare l’orbita ellittica dei pianeti e riuscì a intrattenere cordiali rapporti con Galileo Galilei. Peccato che il rapporto tra Galileo e Keplero non venga toccato in mostra e venga appena accennato in catalogo: l’astronomo tedesco fu infatti tra i primi a congratularsi con il collega pisano in seguito alla pubblicazione, nel 1610, del Sidereus Nuncius, l’epocale trattato col quale Galileo, come anticipato in apertura, annunciava al mondo la scoperta dei satelliti medicei di Giove, la vera natura della Via Lattea nonché delle rugosità che caratterizzano la superficie lunare, e l’origine della luce emanata dalla Luna (fu sbalorditivo all’epoca scoprire che in realtà la Luna si limitava a riflettere la luce del Sole). Oltre a esporre la prima edizione dell’opera (in una stampa con postille manoscritte), la rassegna padovana mostra all’osservatore i preziosi disegni ad acquerello del 1609 con le osservazioni sulle fasi lunari compiute tra il novembre e il dicembre di quell’anno. Disegni che dimostrano anche il talento artistico di Galileo, che avrebbe fatto volentieri il pittore qualora non avesse intrapreso la strada della scienza, disegni che, scrive in catalogo Franco Giudice, “colpiscono sia per il loro aspetto realistico, sia per il modo in cui riescono a rendere la plasticità della superficie lunare”, e disegni che furono realizzati “in presa diretta”, mentre Galileo osservava il satellite col suo telescopio, strumento al cui perfezionamento, com’è noto, lo scienziato contribuì in maniera sostanziale.
Superfluo sottolineare che le scoperte astronomiche di Galileo finirono per accarezzare le fantasie degli artisti, i quali da un lato presero a raffigurare i cieli secondo dettami scientifici, e dall’altro s’industriarono per tesser le lodi dell’astronomia: Rivoluzione Galileo propone al visitatore esempî dell’uno e dell’altro filone. Nel novero delle opere degne di nota, che il pubblico incontra a seguito d’un percorso che parte dall’arte antica e sul quale qui s’è in gran parte sorvolato, occorre anzitutto dar conto d’una coppia di dipinti che furono commissionati al Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, Cento, 1591 - Bologna, 1666) dal cardinale Lorenzo de’ Medici: l’Atlante e l’Endimione, realizzati rispettivamente nel 1646 e nel 1647. Nella prima tela, che raffigura il mitologico gigante costretto da Zeus, per punizione, a reggere sulle spalle il peso dell’intero universo, la disposizione degli astri nella volta celeste è casuale e non riflette alcun ordine scientifico: interessante, in tal senso, il parallelo che il curatore ha instaurato con la sfera dell’Atlante Farnese del secondo secolo dopo Cristo, dove osserviamo il cielo rappresentato secondo le teorie di Tolomeo e di cui Rivoluzione Galileo espone il calco in gesso del 1930. La situazione cambia con l’Endimione: il pastore amato da Artemide, dea della luna, è raffigurato addormentato come da iconografia, ma con appoggiato sulle ginocchia un cannocchiale, simile a quelli che Galileo era solito usare per le sue osservazioni. S’è voluto leggere questo particolare come un diretto omaggio allo scienziato, allora scomparso da cinque anni: la sovrapposizione tra la figura di Endimione e quella di Galileo, d’altronde, era già stata avanzata in letteratura, con Giambattista Marino che, nel suo Adone, aveva messo in bocca al protagonista (Adone, appunto) una lode a Galileo, che veniva definito “novello Endimione”: “Tu solo osservator d’ogni suo moto [della luna, nda], / e di qualunque ha in lei parte nascosta, / potrai, senza che vel nulla ne chiuda, / novello Endimion, mirarla ignuda”.
Parimenti celebrativa è un’opera come gli Astronomi di Niccolò Tornioli (Siena, 1598 - Roma, 1651), complessa allegoria il cui significato rimane tuttavia ancora da identificare con certezza, ma che tuttavia “risente sicuramente del dibattito sviluppatosi attorno alla questione galileiana, vivo anche dopo la morte dello scienziato nel 1642” (così Annalisa Pezzo nel catalogo): anche nel dipinto di Tornioli protagonista è il cannocchiale, adoperato da un giovane che lo usa per osservare un globo invece del cielo (particolare che farebbe forse di tal figura una personificazione dell’ottica) e che è circondato da personaggi di varie epoche storiche, con evidenza impegnati in una discussione d’astronomia. Per trovare invece rappresentazioni veridiche degli astri, occorre volgere lo sguardo alle cosiddette Osservazioni astronomiche di Donato Creti (Cremona, 1671 - Bologna, 1749), una serie d’otto tele concepite col fine di rappresentare il sistema solare per come lo si conosceva all’epoca, tutte di egual misura e tutte dipinte nel 1711 dall’artista lombardo per il nobile bolognese Luigi Marsili, che volle donarle a papa Clemente XI “per invogliare Sua Santità di una specola”, ovvero per spronarlo a costruire un osservatorio astronomico.
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Galileo Galilei, Astronomia. Osservazioni delle fasi lunari, novembre-dicembre 1609 (1609; manoscritto cartaceo autografo, disegni in acquerello su carta, 33 x 23 x 1,7 cm; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Galileiano 48 |
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Due dipinti del Guercino: a sinistra l’Atlante, a destra l’Endimione |
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Guercino, Atlante (1646; olio su tela, 126 x 101 cm; Firenze, Museo Bardini) |
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Guercino, Endimione (1647; olio su tela, 125 x 105 cm; Roma, Galleria Doria Pamphili) |
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Calco della sfera dell’Atlante Farnese (1930 circa; gesso alabastrino, diametro 65 cm, altezza 75 cm; Roma, Museo della Civiltà Romana) |
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Niccolò Tornioli, Gli Astronomi (1645; olio su tela, 148 x 218,5 cm; Roma, Galleria Spada) |
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I dipinti di Donato Creti con le osservazioni astronomiche (Roma, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana) |
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Donato Creti, Osservazioni Astronomiche. Giove (1711; olio su tela, 51 x 35 cm; Roma, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana) |
Uno snodo fondamentale della mostra è il Dialogo sopra i massimi sistemi del 1632, l’opera con cui Galileo intendeva offrire una sorta di sunto di tutte le sue scoperte, ma che in realtà gli costò una condanna per eresia: condanna che, com’è noto, costrinse lo scienziato all’abiura onde evitare conseguenze ben peggiori. La mostra evita di scendere nei particolari del rapporto tra Galileo e la Chiesa (si limita a riportare che la condanna fu anche il prodotto di dissidî interni alla Chiesa e della viva preoccupazione per un eventuale indebolimento dell’autorità ecclesiastica che la libera circolazione delle idee galileiane avrebbe comportato, tanto più pericoloso in un’epoca di forti scontri religiosi): nel prosieguo, la rassegna si concentra in gran parte sugli effetti che la vicenda provocò. Da un lato, la comunità scientifica non si perse d’animo e il progresso della conoscenza avanzò senz’arrestarsi: ne sono esempio gli splendidi pastelli dell’astronoma tedesca Maria Clara Eimmart (Norimberga, 1676 - 1707), nota soprattutto per la corposa mole di disegni di fenomeni celesti che realizzò alla fine del XVII secolo. Dall’altro, le scoperte di Galileo subirono la censura ecclesiastica: a simboleggiare l’atteggiamento delle autorità religiose interviene un dipinto di Frans Francken II (Anversa, 1581 - 1642), dove a fianco del gabinetto d’un collezionista è raffigurata una scena con asini iconoclasti che s’accaniscono contro strumenti scientifici. Da notare come il dipinto, grazie a un sottile espediente scenografico escogitato dal curatore, è posto in asse con gli strumenti esposti nelle sale precedenti: voltando le spalle al dipinto è possibile vederli tutti in successione.
La condanna dello scienziato pisano, infine, produsse un ulteriore effetto: la costruzione del mito di Galileo. A questo tema è dedicato l’intero finale della mostra, con dipinti e sculture che, dall’Ottocento in avanti, hanno ripercorso l’intera vicenda biografica del grande matematico e astronomo: dal dipinto di Cristiano Banti (Santa Croce sull’Arno, 1824 - Montemurlo, 1904) che lo raffigura davanti all’Inquisizione, alla scultura di Cesare Aureli (Roma, 1843 - 1923) tesa a immortalare la visita che il grande poeta inglese John Milton fece a Galileo durante il soggiorno italiano del 1638, passando per il Trionfo della Verità di Luigi Mussini (Berlino, 1813 - Siena, 1888), opera in cui la Verità, al centro, illumina una serie di personaggi storici, tra i quali lo stesso Galileo, abbigliato con toga verde e colto mentre indica il libro tenuto in mano da Copernico.
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Galileo Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi (1632; opera a stampa con note autografe manoscritte, 18,5 x 24,5 x 5,5 cm; Padova, Biblioteca antica del seminario vescovile) |
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Maria Clara Eimmart, Aspetto di Saturno (fine XVII secolo; pastello su cartone azzurro, 64 x 52 cm; Bologna, Università di Bologna, Museo della Specola) |
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Frans Francken II, Gabinetto di un amatore con asini iconoclasti (olio su tavola, 106 x 148 cm; Chiavari, Società economica di Chiavari) |
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Particolare degli asini iconoclasti |
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Gli strumenti scientifici visibili lasciandosi alle spalle il dipinto di Frans Francken |
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Cristiano Banti, Galileo davanti all’Inquisizione (1857; olio su tela, 110 x 140 cm; Carpi, Collezione Palazzo Foresti) |
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Cesare Aureli, Galileo Galilei e John Milton (1900; bozzetto in gesso, 60 x 60 x 120 cm; Trevi, Museo Civico)
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Luigi Mussini, Il Trionfo della Verità, dettaglio (1847; olio su tela, 143,5 x 213 cm; Milano, Accademia di Belle Arti di Brera)
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Difficile riassumere in modo completo le riflessioni che la mostra intende animare: non s’è fatto cenno, per esempio, alle opere degli artisti contemporanei, nonché a quelle degli antichi che si cimentarono col tema dei miti astrologici (imperdibile la Via Lattea di Rubens in arrivo dal Prado), s’è tralasciato il discorso sulle osservazioni solari e l’indagine sul rapporto tra Galileo e la musica (e a tale rapporto è peraltro dedicato un intero saggio in catalogo), non s’è parlato di come la mostra si proponga d’allargare la sua portata andando a coinvolgere svariate forme d’arte, cinema e fumetto inclusi. Le proporzioni della rassegna padovana, di sicuro una delle più vaste tra quelle che si son viste quest’anno in Italia, richiedono una visita di persona per cogliere al meglio gli spunti dei curatori. Anche per il fatto che, tra i punti di forza di Rivoluzione Galileo, occorre registrare l’efficacia degli allestimenti, concepiti per dialogare in maniera rispettosa con le sale di Palazzo del Monte di Pietà, e allo stesso tempo per conferire all’esposizione un’anima che la caratterizzi, concedendosi financo alcuni passaggi ad alto impatto scenografico (basti vedere la sala in cui s’approfondisce il tema delle osservazioni lunari, qui nella prima fotografia inclusa nel presente articolo) e mantenendo tutte le sale impostate sul motivo delle grandi cornici colorate addossate alle pareti, entro le quali sono stati disposti gli oggetti e le opere in mostra.
Rivoluzione Galileo è, in buona sostanza, un’ottima mostra di divulgazione, forte d’un percorso che trova la propria originalità proprio nella compresenza di varî piani d’approfondimento cui seguono diversi registri narrativi che fanno spaziare il racconto dal Guercino ad Anish Kapoor, da Georges Méliès a Tintin, da Gaetano Previati a Caparezza, senza dimenticare le preziose prime edizioni delle opere di Galileo e i suoi appunti manoscritti. E al visitatore è lasciata la libertà d’orientarsi secondo la propria sensibilità entro (e ovviamente anche oltre) i confini d’un viaggio che attraversa quattro secoli di storia e che è tutto teso verso il futuro. E a ciò s’aggiunga la possibilità di uscire da Palazzo del Monte di Pietà e recarsi, con pochi passi, a visitare i luoghi che Galileo in persona visse e frequentò.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).