Recycling Beauty alla Fondazione Prada: un'occasione persa per parlare di riuso e riciclo


Recensione della mostra “Recycling Beauty”, a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica (a Milano, Fondazione Prada, dal 17 novembre 2022 al 27 febbraio 2023).

La Roma della prima metà del XIV secolo vede il principio d’una “rivoluzione lenta e complessa”, scrive Eloisa Dodero nel catalogo della mostra Recycling Beauty, la rassegna che la Fondazione Prada di Milano, negli spazi del Podium e della Cisterna, dedica al tema del reimpiego delle antichità greche e romane in differenti contesti temporali. Si potrà discutere a lungo sul termine con cui classificare l’insieme di processi che hanno determinato “il salvataggio e la reinterpretazione delle testimonianze artistiche di una civiltà scomparsa” e le cui scaturigini son da ritrovare in un lungo elenco di ragioni storiche, culturali, sociali, economiche, politiche, ideologiche, estetiche: quel che è certo, è che l’immagine di Roma, nei secoli, s’è formata anche stabilendo relazioni inedite con un passato ch’è stato continuamente riutilizzato, riletto, reinterpretato, e che per tali ragioni ha potuto sopravvivere fino ai nostri giorni. Almeno dagli anni Quaranta del secolo scorso la critica continua a esaminare i tanti aspetti del reimpiego dei materiali del passato, pratica che, nei contesti post-antichi, è stata mossa dall’esigenze più disparate, benché soltanto in anni recenti il dibattito si sia intensificato e abbia cominciato a illuminare una materia di studio sulla quale gravava la coltre cupa d’una vulgata per cui il riuso era da intendersi “come brutale spoliazione dovuta alla perdita del know-how”, per adoperare ancora le parole di Dodero. E sebbene non siano mancate in passato occasioni espositive che abbiano affrontato il tema del riutilizzo dell’antico (anche se perlopiù nel quadro di rassegne su argomenti più ampi: viene alla mente, giusto per avanzare un solo esempio, la grande mostra Aurea Roma organizzata in occasione del Giubileo del 2000, che aveva una sezione sul passaggio dalle iconografie classiche a quelle cristiane), la mostra alla Fondazione Prada rappresenta la prima, importante rassegna che offra una panoramica sistematica sulle tante vie che la pratica assunse a partire dalla tarda antichità.

Il reimpiego del passato, scrive nel suo saggio in catalogo Salvatore Settis, curatore di Recycling Beauty assieme ad Anna Anguissola e Denise La Monica, “comporta la convivenza di diverse temporalità, dove distanza storica e simultaneità narrativa ed emotiva s’intrecciano di continuo”: pertanto, nonostante i marmi antichi appartengano “allo stesso orizzonte culturale di chi li riusa, e dunque appropriarsene è sentito come naturale”, esiste una dimensione-tempo che “sfugge alla sequenza calendariale; è instabile, può essere manipolata e piegata complicando il tempo, riattivando prestigiosi antenati, paragonando eventi di epoche diverse, fabbricando ricordi”, con la conseguenza che il “riciclo genera senso” creando “una rete intertestuale o interoggettuale, che contiene le sue componenti ma non coincide con nessuna di esse”. Ecco allora che il reimpiego, afferma Settis, non è un argomento che pertiene al passato, non è un tema da osservare con distacco: parla semmai al futuro e parla di futuro. Dovrebbe essere questo il senso più alto della mostra, che si pone anche lo scopo dichiarato di focalizzarsi sull’importanza del passato per la nostra concezione di “modernità”, dacché alcuni valori, alcune categorie, alcuni modelli sopravvivono nei secoli, e spesso l’antico diventa chiave per interpretare il mondo contemporaneo e le sue molteplici e differenti culture.

L’ottenimento di questo duplice obiettivo, ch’è da un lato eminentemente storico-artistico e dall’altro mira quasi a una lettura antropologica della pratica del reimpiego, appare tuttavia ostacolato, se non addirittura vanificato, anzitutto dall’allestimento di Rem Koolhas e Giulio Margheri, che adoperano il Podium per quello che è: un grande spazio aperto dove viene lasciata al visitatore la più totale libertà di movimento, con la conseguenza di favorire sì un approccio più personale nei riguardi del materiale esposto, ma anche con lo spiacevole effetto di lasciare il visitatore in balia dell’apparecchiatura ideata dai due architetti, complice anche la pressoché totale assenza (fatta eccezione per un’introduzione con le dichiarazioni d’intenti, e un opuscolo con un condensato del saggio di Settis in catalogo) di apparati illustrativi che consentano un inquadramento del materiale esposto e che non si limitino a raccontare per sommi capi la storia dei singoli oggetti.

Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada
Allestimenti della mostra Recycling Beauty
Allestimenti della mostra Recycling Beauty. Foto: Roberto Marossi, Concessione: Fondazione Prada

I rischi di un allestimento come quello immaginato per Recycling Beauty sono diversi: il primo, e più evidente, sta nel fatto che la mostra fatica a fornire al visitatore un contesto, una cornice, un insieme di chiavi di lettura, e viceversa finisce per scadere nell’aneddotico. Il secondo è il rischio di non far emergere in maniera adeguata il valore delle opere: si prendano per esempio i lavori di Nicolas Cordier, uno dei punti più alti della rassegna, dal momento che sono state riunite dopo lungo tempo due opere, la Zingarella e il Moro, che un tempo stavano nella collezione di Scipione Borghese. Sono state esposte assieme al Camillus che ispirò il Moro Borghese, ma la troppa vicinanza alla parete impedisce una visione d’insieme. Si potrebbe poi continuare con la trovata delle opere esposte sopra alle scrivanie, nel tentativo di trasmettere al visitatore l’idea del flusso temporale che investe i lacerti del passato: costringe ad assumere punti di vista innaturali, e peraltro se a qualcuno dovesse balzare in mente l’idea d’accomodarsi in posizione da ufficio, coi gomiti poggiati sulla scrivania, incorrerà immancabilmente nella presenza dell’addetto alla sorveglianza che chiederà di sistemare la sedia da lavoro a debita distanza. Non sono le uniche opere che si apprezzano con difficoltà: basti vedere la Mensa Isiaca, posta sotto una teca che riflette le luci del soffitto rendendo impossibile una visione senza disturbi. E c’è poi il rischio d’incorrere nell’effetto luna park, segnatamente nella Cisterna dov’è esposta la ricostruzione del Colosso di Costantino (con tanto di terrazzino da cui i visitatori s’affacciano), dove la Tazza Farnese è inserita in un oblò con veduta sulle sale successive (e per osservare il verso del cammeo, disputato peraltro con le Gallerie d’Italia perché il MANN di Napoli ha disposto, forse per una svista, di prestarlo sia alla Fondazione Prada che al museo di Piazza Scala nello stesso periodo, occorre attendere d’attraversare due sale: un’idea fuori da qualunque logica), dove i troni di Ravenna trovano spazio su di un lungo basamento poligonale che non facilita la visione delle opere. Ma lo stesso si potrebbe dire anche del Podium, che da fuori, quando le pareti di vetro non vengono chiuse com’era stato per la monografica di Domenico Gnoli, dà sempre la parvenza d’essere un grande acquario: può essere interessante per certe mostre d’arte contemporanea, ma appare fuori luogo per una rassegna ambiziosa come Recycling Beauty.

Eppure, per immaginare un percorso coerente e chiaro sarebbe bastato poco: sarebbe stato interessante, per esempio, riproporre in mostra le diadi concettuali sulle quali sono stati impostati i saggi del catalogo (utilità contro ostentazione, distruzione contro interpretazione, dispersione contro concentrazione, forma contro significato, politica contro estetica, reale contro virtuale, pratiche contro concetti), e che forniscono un primo, utilissimo strumento per familiarizzare col tema del reimpiego. Ecco allora che si scoprirebbe come i pavoni di bronzo dorato che un tempo facevano parte del mausoleo di Adriano (ne sopravvivono solo due, uno dei quali esposto a Milano) e che furono poi reimpiegati per decorare il cantharos Paradisi, la “fontana del Paradiso” davanti alla vecchia basilica di San Pietro, possono essere considerati un esempio di “riuso ostentativo”, per usare l’espressione che dà titolo al saggio di Giandomenico Spinola: riutilizzati per il loro significato allegorico che allude alla rinascita, furono ritenuti “molto opportuni”, spiega Spinola, “per decorare quella fontana che doveva accogliere e ristorare i pellegrini nella culla del Cristianesimo romano”. La stessa Tazza Farnese, benché esposta isolata dal resto della mostra, rispondeva secondo Spinola a simili necessità d’ostentazione, legate nella fattispecie a funzioni di propaganda personale, quando la preziosa opera fu acquistata da Federico II nel 1239. Se la Tazza Farnese è un caso eccezionale di sopravvivenza d’un manufatto fragile che è rimasto sostanzialmente intatto dall’antichità fino a oggi, i resti del Colosso di Costantino sono invece la più fulgida evidenza d’un caso di distruzione: l’enorme statua, di cui la mostra propone un’idea di ricostruzione (significativo il fatto che l’enorme feticcio di gesso, resina e polistirolo attragga il pubblico più dei resti veri, quelli che mossero Füssli a commozione: a Milano è possibile ammirare la mano e il piede giunti dai Musei Capitolini), andò distrutta in epoca imprecisata. Forse danneggiata già in età tardoantica, la statua fu poi probabilmente sfruttata per il materiale di spoglio, e i suoi frammenti furono ritrovati nel 1486 e portati in Campidoglio, nel Palazzo dei Conservatori, in ragione della loro importanza, subito riconosciuta. I pannelli in sala si limitano a ricordare che in origine il colosso “rappresentava forse un imperatore precedente o (più probabilmente) un dio”, e viene presentata l’ipotesi secondo cui in antico il colosso poteva essere la statua del Giove Ottimo Massimo del Campidoglio: non viene dunque ulteriormente dettagliata la possibilità, che pure è stata sostenuta da una critica autorevole, che Costantino avesse fatto rielaborare un’originaria statua dedicata al suo predecessore sconfitto, Massenzio, ipotesi che avrebbe consentito d’introdurre al tema della damnatio memoriae: anche se l’idea di un’identificazione con Massenzio veniva scartata già tempo fa da Paul Zanker (e in occasione di Recycling Beauty, Claudio Parisi Presicce torna sull’argomento per riprendere Zanker, secondo cui in origine la testa non era quella di Massenzio ma quella di una divinità, e per rilanciare l’ipotesi del riutilizzo della statua di Giove), il colosso si trovava comunque entro un edificio, la Basilica Nova, cominciata dal rivale di Costantino, e inoltre, scriveva già Parisi Presicce nel 2006, “la dedica della statua colossale all’imperatore, raffigurato secondo una tradizione pagana nella trasposizione eroica del tipo di Giove assiso, può essere attribuita soltanto al Senato, forse per legittimare la sua vittoria su Massenzio”. Una vittoria la cui conseguenza fu una damnatio che, seppur non ufficialmente sancita, si sostanziò nella trasmissione d’una memoria negativa di Massenzio, fin dall’iscrizione dell’arco di Costantino che definisce un tyrannus il suo avversario.

Inoltre, gli apparati, che elencano tutti i pezzi sopravvissuti del colosso, non menzionano il fatto che il collo sia un’aggiunta moderna: fu scolpito in marmo di Carrara (le parti antiche sono invece in marmo pario) da Ruggero Bascapè alla fine del Cinquecento, quando la testa del colosso venne collocata in Campidoglio, nella parte alta della mostra di fontana costruita attorno alla statua di Marforio. La mostra allinea numerosi esempi di statue antiche integrate in epoca moderna, in alcuni casi in maniera tale da giungere a opere quasi del tutto nuove: è il caso delle summenzionate opere di Nicolas Cordier, il Moro Borghese, composto da una testa antica in marmo nero e da altri frammenti a cui l’artista francese ha aggiunto braccia, gambe e collo per ottenere una statua completamente nuova, esattamente come la Zingarella (la cui testa è un’invenzione di Cordier, al pari della mano destra e dei piedi), che per la prima volta dopo la sua separazione dal Moro viene a quest’ultimo riunita. La possibilità di vedere assieme il camillus (un giovane addetto a funzioni cultuali) e il Moro, dal momento che Cordier, per la sua opera, s’ispirò palesemente alla statua dei Musei Capitolini, che figura tra quelle donate da Sisto IV al popolo di Roma (l’atto diede vita al primo nucleo dei musei), costituisce uno dei momenti più interessanti e meglio riusciti della mostra.

Pavone (età adrianea, 130-140 d.C.; bronzo dorato; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. MV.5117)
Pavone (età adrianea, 130-140 d.C.; bronzo dorato; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. MV.5117)
Arte ellenistica, Tazza Farnese (III-I secolo a.C.; agata sardonica, diametro 20 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 27611)
Arte ellenistica, Tazza Farnese (III-I secolo a.C.; agata sardonica, diametro 20 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 27611)
Mano destra del Colosso di Costantino (312 d.C.; marmo pario; Roma, Musei Capitolini, inv. MC0789). Archivio Fotografico dei Musei Capitolini © Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
Mano destra del Colosso di Costantino (312 d.C.; marmo pario; Roma, Musei Capitolini, inv. MC0789). Archivio Fotografico dei Musei Capitolini © Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
La ricostruzione di Costantino con i resti in prestito dai Musei Capitolini
La ricostruzione di Costantino con i resti in prestito dai Musei Capitolini
Nicolas Cordier, Moro Borghese (1607–1612; riuso di una statua dell’inizio del I secolo d.C.; Parigi, Musée du Louvre). Foto: Marie-Laure Bernadac, Paris
Nicolas Cordier, Moro Borghese (1607–1612; riuso di una statua dell’inizio del I secolo d.C.; Parigi, Musée du Louvre). Foto: Marie-Laure Bernadac, Paris
Nicolas Cordier, La Zingarella (1607–1612; riuso di una statua dell’inizio del I secolo d.C.; Roma, Galleria Borghese, inv.  CCLXIII). Su concessione della Galleria Borghese. Foto: Luciano Romano
Nicolas Cordier, La Zingarella (1607–1612; riuso di una statua dell’inizio del I secolo d.C.; Roma, Galleria Borghese, inv. CCLXIII). Su concessione della Galleria Borghese. Foto: Luciano Romano
Camillus (I-II secolo d.C.; bronzo, argento, rame; Roma, Musei Capitolini, inv. MC1184)
Camillus (I-II secolo d.C.; bronzo, argento, rame; Roma, Musei Capitolini, inv. MC1184)

Se, come accennato, i resti del Colosso sono un esempio di distruzione, abbondano in mostra, viceversa, i casi di interpretatio christiana, argomento affrontato in catalogo da Maria Lidova che adduce come esempî i sarcofagi antichi che spesso furono conservati e reimpiegati dagli artisti cristiani subendo in alcuni casi modifiche radicali, e in altri rimasero invece sostanzialmente integri fornendo spunti e fonti d’ispirazione. In mostra si possono dunque vedere il sarcofago del II secolo dopo Cristo, in prestito dal Museo Diocesano di Cortona, che descrive una battaglia di Dioniso, e che nel 1247 fu reimpiegato come tomba del beato Guido Vagnottelli da Cortona (pare sia stato ammiratissimo da Filippo Brunelleschi che andò apposta a Cortona per disegnarlo: si trattò in effetti di un’opera molto nota in epoca rinascimentale), e poi ancora un’urna etrusca col mito di Pelope e Ippodamia, adoperata come reliquiario dei resti di san Felice, e infine un interessante oscillum, un disco di marmo che veniva appeso come dono votivo in epoca romana, recante la scena del trasporto di un soldato ferito, modificata poi in epoca cristiana con l’aggiunta di aureole attorno alle teste dei personaggi per trasformare il racconto in una Deposizione di Cristo. La dicotomia tra forma e significato è invece ben espressa da alcune opere che, pur mantenendo forme identiche rispetto a quelle del passato, hanno subito radicali cambiamenti di significato, a volte resi evidenti semplicemente dall’aggiunta di poche iscrizioni per esplicitarli: è il caso del rilievo Santacroce, una scultura con tre ritratti di defunti, risalente al I secolo avanti Cristo, cui furono aggiunti nel Quattrocento le scritte “Amor”, “Veritas” e “Honor” per trasformarli in allegorie delle virtù della famiglia Santacroce, che ribattezzarono il frammento come “Fidei simulacrum”. Sulla base dello stesso principio, sette ritratti antichi, nel Quattrocento, furono collocati sulla facciata di Palazzo Trinci a Foligno a simboleggiare le sette età dell’uomo: sono tutti esposti in mostra, sopra una scrivania. Talvolta l’incorporazione risultava più complessa, come testimonia la statua di Antonino Pio come san Giuseppe in prestito dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen: sul corpo di un sacerdote del 150-200 dopo Cristo circa fu installato un ritratto dell’imperatore Antonino Pio e la statua fu poi trasformata in un’effigie di san Giuseppe con la semplice aggiunta di una verga fiorita (attestata a fine Ottocento, poi dispersa), suo attributo iconografico. Un ulteriore slittamento di significato, sebbene in chiave politica, è testimoniato dal celebre Leone che azzanna un cavallo, scultura greca del IV secolo avanti Cristo che in origine era forse parte di una rappresentazione di Alessandro Magno a caccia, e che nel Medioevo fu posta in Campidoglio a simboleggiare la potenza di Roma e il suo buon governo.

Un angolo del Podium è stato riservato ad alcuni oggetti moderni che però in passato furono scambiati per prodotti dell’antichità, data la loro somiglianza con le opere d’epoca romana. Si può partire dai Lottatori Aldobrandini, due rilievi che raffigurano l’incontro di pugilato tra il siracusano Entello e il troiano Darete, raccontato da Virgilio nell’Eneide: attestati presso la Villa Aldobrandini al Quirinale, furono portati nel 1812 in Vaticano e tuttora sono esposti presso i Musei Vaticani. Erano ritenuti antichi fino a pochi anni fa (si è continuato a lungo a dar credito a un’ipotesi ottocentesca che li voleva rinvenuti nel foro di Traiano), dopodiché sono stati identificati come opere di un ignoto artista cinquecentesco. Era creduta antica anche la scultura che fino al 1885 decorava una delle guglie del duomo di Milano e ch’è stata prestata alla mostra dal Museo del Duomo: in occasione di Recycling Beauty è stata studiata meglio e si è potuto così dimostrare che si tratta di un’opera moderna in marmo di Candoglia, materiale mai usato in epoca romana. La sezione culmina infine con la Protome Carafa di Donatello, l’enorme testa di cavallo che l’artista fiorentino eseguì negli anni Cinquanta del Quattrocento in vista della realizzazione di un monumento equestre, mai terminato, per Alfonso V d’Aragona: già Vasari, nelle Vite, la definisce una scultura “tanto bella che molti la credono antica”. E nonostante la testimonianza autorevole, ancora nel Cinquecento c’era chi confutava lo storiografo aretino continuando a ritenere ellenistica l’opera di Donatello. La pratica dello spoglio per creare nuovi manufatti, motivata per lo più da ragioni economiche dal momento che era più pratico sfruttare a mo’ di cave le rovine della Roma antica che estrarre materiale nuovo (di questo argomento parla estesamente Anna Anguissola nel suo saggio in catalogo), è invece testimoniata dalle lastre cosmatesche della Cattedrale di Anagni, che per qualche ragione non sono esposte assieme, ma sono sparpagliate per tutto il Podium: furono realizzate riducendo in frantumi opere più antiche in marmo.

Il percorso espositivo termina nella Cisterna dove, oltre ai resti del Colosso di cui s’è detto, trovano spazio anche i già citati troni di Ravenna, che per la prima volta vengono riuniti in un unico luogo, benché quattro di essi siano presenti in calco. Si tratta di tredici frammenti marmorei che facevano parte, molto probabilmente, di un unico monumento che si trovava a Ravenna, del quale rappresentano tutto ciò che resta: sono lastre che condividono lo stesso tema iconografico (che possiamo apprezzare per intero dall’unica lastra integra, conservata oggi al Louvre), ovvero un ambiente all’interno del quale è rappresentato un trono vuoto, coperto da un drappo, con coppie di putti alati che lo sorreggono. Alcuni dei troni conservano gli attributi delle divinità che dovevano prenderne possesso: si suppone che in origine i troni fossero dodici, uno per ciascuno degli dèi dell’Olimpo. Non sappiamo a quale contesto appartenessero: le nostre conoscenze su quest’opera dell’antichità sono tutte posteriori alla sua dispersione. “La ‘biografia” e la geografia di ciascuna lastra”, scrive in catalogo Chiara Franceschini, “costituiscono un capitolo di un libro immaginario, che non è ancora stato scritto”. La mostra lo riassume con un pannello in cui vengono mostrati al pubblico gli spostamenti dei varî frammenti. C’è, infine, ancora tempo per un rapido epilogo: si alza lo sguardo e s’ammira il grande fregio coi delfini proveniente dalla basilica di Nettuno a Roma, e successivamente collocato nel Duomo di Pisa (fu rilavorato sul retro nel XII secolo per realizzare una transenna intarsiata).

Sarcofago con battaglia di Dioniso (seconda metà del II secolo d.C.; marmo lunense; Cortona, Museo Diocesano)
Sarcofago con battaglia di Dioniso (seconda metà del II secolo d.C.; marmo lunense; Cortona, Museo Diocesano)
Oscillum con scena di deposizione (età romanacon rielaborazioni del XVI secolo; marmo; Velletri, Museo Civico Archeologico Oreste Nardini, inv. 405)
Oscillum con scena di deposizione (età romanacon rielaborazioni del XVI secolo; marmo; Velletri, Museo Civico Archeologico Oreste Nardini, inv. 405)
Antonino Piocome san Giuseppe (metà del II secolo d.C.; marmo bianco a grana grossa con patina gialla; Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek)
Antonino Pio come san Giuseppe (metà del II secolo d.C.; marmo bianco a grana grossa con patina gialla; Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek)
Gruppo di un leone che divora un cavallo (IV secolo a.C.; armo pentelico; Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, inv. S 366)
Gruppo di un leone che divora un cavallo (IV secolo a.C.; armo pentelico; Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, inv. S 366)
Donatello, Protome di cavallo (Testa Carafa) (post 1454; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 4887). Su concessione del Ministero della Cultura – Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Donatello, Protome di cavallo (Testa Carafa) (post 1454; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 4887). Su concessione del Ministero della Cultura – Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Frammento di rilievo con il trono di Saturno (età giulio-claudia, metà del I secolo d.C.; marmo; Parigi, Musée du Louvre, MR 856) Foto: Hervé Lewandowski © 2022. RMN-Grand Palais/Dist. Foto SCALA, Firenze Paris, Musée di Louvre, Départment des Antiquités greques, étrusques et romaines
Frammento di rilievo con il trono di Saturno (età giulio-claudia, metà del I secolo d.C.; marmo; Parigi, Musée du Louvre, MR 856) Foto: Hervé Lewandowski © 2022. RMN-Grand Palais/Dist. Foto SCALA, Firenze Paris, Musée di Louvre, Départment des Antiquités greques, étrusques et romaines

La mostra della Fondazione Prada presenta dunque gli stessi pregi e gli stessi difetti della più importante operazione che l’ha preceduta, la monografica di Domenico Gnoli: com’era stato per quell’occasione, anche Recycling Beauty si presenta con una significativa mole di materiale straordinario, di livello altissimo, ma con un allestimento e con apparati che non si dimostrano all’altezza dei pezzi esposti, non aiutano a orientarsi tra le opere, non invogliano l’approfondimento né mettono il visitatore in condizione di conoscere qualcosa in più rispetto alle vicende sommarie delle singole opere esposte. Per avere un quadro più completo tocca dunque rivolgersi al catalogo, per il quale sono state operate altre scelte discutibili, a cominciare dal prezzo esorbitante ch’è purtroppo tipico dei cataloghi della Fondazione Prada (e si parla peraltro di un prodotto che è verosimilmente destinato, causa veste tipografica non proprio esaltante, a far la fine degli esemplari lasciati in esposizione per la consultazione): il volume è infatti disponibile soltanto in inglese, con versione in italiano dei soli saggi (posta a conclusione del volume, con relativa perdita del rapporto con le immagini) e non delle schede, malgrado la gran parte degli autori sia di nazionalità italiana.

Ancora, sorprende in negativo l’assenza di riferimenti al mondo contemporaneo, nonostante la dichiarata premessa di voler presentare il classico “non solo come un’eredità del passato, ma come un elemento vitale in grado di incidere sul nostro presente e futuro”. Beninteso, è estremamente interessante, utile e lodevole il fatto che un marchio del lusso come Prada si sia posto il problema di voler affrontare il tema del riuso e del riciclo: si parla di un’azienda che produce beni orientati al consumo, i cui processi industriali comportano ovviamente delle esternalità di un certo tipo sull’ambiente, e l’idea di porre all’attenzione di tutti argomenti che sono ormai diventati parte del nostro quotidiano quando si parla di sostenibilità e rispetto per il mondo che ci circonda non può che essere salutata positivamente. Un marchio del lusso che parla di riciclo, quando nell’immaginario collettivo il lusso è sinonimo di spreco, di sperpero, di inquinamento! È una presa di posizione epocale. Tuttavia il problema è che dalla mostra non emerge alcun ragionamento, anche superficiale, su questo tema. Semmai, gli allestimenti offrono le stesse sensazioni che si provano quando s’entra in una boutique di lusso: una sorta di enorme vetrina. Non è sufficiente accorgersi del fatto che “anche gli antichi riciclavano” per rivestire Recycling Beauty di una patina d’attualità, che però non scende in profondità: quale lezione noi contemporanei dovremmo trarre da ciò che vediamo in mostra, se è vero che il classico è ancora un elemento vitale? E perché è un elemento vitale che incide sul nostro presente e sul nostro futuro? Chi, nel mondo contemporaneo, guarda ai temi del riuso e del riciclo per creare opere, oggetti, prodotti che siano veramente in grado d’incidere sul presente e diffondere idee nuove, pensieri nuovi, argomenti nuovi? Sono domande che rimangono prive di risposta.

Da segnalare, infine, un’idea interessante: il volantino distribuito all’ingresso, quello che contiene il sunto del saggio di Salvatore Settis, elenca anche una serie di luoghi selezionati dal comitato curatoriale “come esempi di alterazione e conservazione dell’antichità egizia, etrusca, greca e romana su scala urbana”. I luoghi sono distribuiti su tutta l’Italia: è un peccato che per Milano la guida segnali soltanto le colonne di San Lorenzo e gli archi di Porta Nuova. Sarebbe stato interessante invitare i visitatori a un più approfondito tour tra i contesti di reimpiego che sono sparsi per tutta la città, almeno i principali. L’altare di San Celso, ricavato dal sarcofago che conteneva le reliquie del santo. Il portale in marmo di Carrara della cappella di Sant’Aquilino, del I secolo, reimpiegato da un edificio precedente. Il lapidarium del Castello Sforzesco che abbonda di materiale simile. La colonna del diavolo di fianco alla basilica di Sant’Ambrogio, e lo stesso ciborio ottoniano di Sant’Ambrogio con le colonne in porfido di spoglio, oppure il serpente bronzeo, singolare manufatto ellenistico che la tradizione vuole portato a Milano nel 1002 da Costantinopoli (la leggenda lo identifica come il serpente forgiato da Mosè nel deserto, e i milanesi gli attribuivano poteri taumaturgici). Il grande sarcofago romano di Sant’Eustorgio che secondo la tradizione accolse le spoglie dei magi, con tanto d’iscrizione settecentesca che lo ha trasformato nel “sepulcrum trium magorum”. Molto hanno da raccontare anche le opere antiche reimpiegate che si trovano in giro per tutta Milano. Peccato che si esca dalla Fondazione Prada senza saperlo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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