Biennale, il Padiglione Italia è debole e superficiale, e il vero artista è il curatore


Recensione di “Né altra né questa. La sfida al labirinto”, Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, dall'11 maggio al 24 novembre 2019.

La multiforme congerie d’articoli, articoletti, editoriali, recensioni, elzeviri, risciacquature di comunicati che da maggio accompagnano la mostra del Padiglione Italia (Né altra né questa. La sfida al labirinto) alla Biennale di Venezia, non smette di rammentarci che il suo curatore Milovan Farronato ha scomodato Calvino, Borges e Kierkegaard per giustificare l’impianto del “labirinto” che fino a novembre accoglierà i visitatori della rassegna veneziana. Quello che però i più omettono di scrivere, è che non è sufficiente citare tre illustri personalità del passato recente per dare una parvenza di legittimità a una mostra. Sussiste infatti un dettaglio, sempre più negletto, di cui tanti, tra curatori, critici e giornalisti, troppe volte parrebbero esser dimentichi: ovvero, la rete delle “citazioni” (per usare un termine evidentemente molto caro a diversi colleghi) dovrebbe dar vita a una struttura solida, in grado di reggere una mostra d’arte contemporanea onde offrire una lettura profonda, e il più possibile chiara, del problema di partenza. Il primo limite di Né altra né questa sta nel fatto che, forse, il problema di partenza non è chiaro neppure al curatore.

Una mancanza che tuttavia accomuna Farronato a quell’Italo Calvino che la mostra ascrive a suo nume tutelare, a sua guida concettuale: già nel sesto numero di Menabò, ovvero quello che immediatamente seguì l’uscita in cui era pubblicata La sfida al labirinto di Calvino dalla quale il curatore del Padiglione Italia è partito, Angelo Guglielmi, evidenziando i difetti del saggio dello scrittore ligure, scriveva che forse neppure lui stesso aveva un’idea ferma di cosa fosse la “sfida al labirinto”, anche in virtù del fatto che Calvino ne accennava fugacemente solo nelle battute conclusive del suo lungo scritto. Guglielmi provava a proporre la sua esegesi: “in parole povere, la letteratura della sfida al labirinto consisterebbe in una letteratura che non rinunci a esprimere giudizi morali e il cui discorso sia tale da incidere direttamente nella storia degli uomini”. Il giovane critico militante rimproverava a Calvino (peraltro, sarebbe interessante sapere perché, di tutta la letteratura sul labirinto disponibile, s’è optato proprio per un saggio d’uno scrittore il cui moralismo mal si sposa con la storia curatoriale di Farronato) il fatto che il suo desiderio di giungere a una letteratura della sfida al labirinto rimanesse confinato al puro piano del proposito, incapace di trovare una realizzazione concreta dacché mancherebbe delle “premesse storiche e di cultura sulla cui base potere verosimilmente concepire un proposito del genere”. E mancando, secondo Guglielmi, le premesse per una letteratura di sfida al labirinto, Calvino, implicitamente, accettava quella “letteratura del labirinto” che lui stesso rifiutava: così, la discussione si spostava sul livello dell’impegno della letteratura. Varrà la pena sottolineare che, secondo Guglielmi, l’idea d’una letteratura dai contenuti utili era al tempo irrealizzabile e che, anzi, il suo auspicio era che il cedimento a una letteratura disimpegnata divenisse una “consapevole e argomentata scelta”: ne scaturì un dibattito che andò avanti per qualche tempo e al quale presero parte diversi protagonisti della cultura dei primi anni Sessanta, incluso Edoardo Sanguineti che già una decina d’anni prima, nel suo Laborintus, utilizzava la metafora della palus putredinis per riferirsi al mondo contemporaneo (e, manco a dirlo, di Sanguineti non v’è traccia alcuna nei testi che dovrebbero sostenere la mostra).

Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti
Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti. Courtesy DGAAP-MiBAC


Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Italo Rondinella
Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Italo Rondinella. Courtesy La Biennale


Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Italo Rondinella
Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Italo Rondinella. Courtesy La Biennale


Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti
Immagine dalla mostra Né altra né questa. La sfida al labirinto. Ph. Credit Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti. Courtesy DGAAP-MiBAC


Milovan Farronato
Milovan Farronato. Ph. Credit Italo Rondinella. Courtesy La Biennale

Ecco: sarebbe stato sicuramente più interessante se Né altra né questa avesse condotto una riflessione sulle conseguenze, sugli sviluppi e sulle criticità del saggio di Calvino, anziché produrne una lettura superficiale, scolastica (nei contenuti e nella forma), adagiata su pochi assunti di base, con connessioni che, a voler esser generosi, paiono legate per paratassi (in 523 pagine di catalogo, l’unico passaggio, di poche righe, in cui si cita Kierkegaard, che pure dovrebbe essere una delle basi filosofiche della rassegna dato che ha fornito spunto per il titolo, è quello in cui s’afferma che l’espressione Né altra né questa intende richiamare i due stadî dell’esistenza definiti in Aut Aut: come però tutto ciò si colleghi al labirinto di Calvino, non è dato sapere, dal momento che Farronato non lo spiega). Il curatore sembra essersi limitato a classificare i lavori dei tre protagonisti del Padiglione Italia (Liliana Moro, Enrico David e Chiara Fumai) secondo le due linee che Calvino individuava nell’avanguardia, quella viscerale e quella razionalista (anche se non si comprende bene cosa Farronato intenda per “viscerale” e “razionalista” nella sua mostra: l’approccio al “labirinto” da parte dei tre artisti? il loro atteggiamento di fronte all’arte, alla cultura, alla realtà, al caos? il loro impegno?). Questa almeno parrebbe essere la sua principale preoccupazione nel saggio d’apertura: quello che però manca è una base teorica di fondo. E, beninteso, non serve avere una conoscenza profonda di Calvino e della scena letteraria italiana degli anni Sessanta per avvedersene: la frivolezza di questo Padiglione Italia emerge con cristallina evidenza se si tenta di capire cosa ci sia dietro le opere, dietro l’allestimento.

Per ordinare una mostra che funzioni, non basta soltanto elencare una serie di luoghi comuni sui labirinti (compreso quello secondo cui, citando testualmente, “a Roma [...] nel XVII secolo sono state erette elaborate facciate e sono stati aperti grandiosi varchi preceduti da angusti percorsi così da ottenere, per contrasto, un gradito e gradevole ‘effetto sorpresa’”: con buona pace di tutti quegli uomini del Seicento, da Virgilio Spada a Carlo Fontana, che si posero il problema di demolire, già allora, la Spina di Borgo, e con buona pace degli storici dell’architettura che ci dicono come stessero le cose): occorre che sussistano degli assunti ben strutturati (questo almeno se la si vuol legittimare sul piano filosofico). Assunti dei quali Né altra né questa è però priva: non emergono ragionamenti, chiavi di lettura, proposte forti. Non c’è discussione su Calvino: c’è semplicemente una ripresa. E quello che rimane al visitatore è un insieme di opere ordinatamente disposte entro impeccabili pannellature disposte a ricordare la forma d’un labirinto.

Del labirinto, poi, c’è solo il senso del vuoto (ma questo, forse, è un punto a favore, dato che lo spaesamento è sincero): sarà perché sembra una forzatura voler radunare oggetti diversi, di tre artisti diversi, realizzati in periodi diversi, fornendo loro una cornice (o qualcosa che le somigli) elaborata per un’occasione specifica, sarà perché una mostra così fiacca ha poco da affermare, sarà perché le opere paiono aver lavorato per il curatore e non viceversa (tanto che i commenti dei più si sono concentrati sul contenitore piuttosto che sul contenuto, come del resto era naturale che fosse: una proposta tanto scenografica a fare da contorno a opere che, stante la debolezza del progetto, hanno svolto il ruolo di comparse più che quello di protagoniste, non poteva condurre a un esito molto diverso). E il risultato finale è che il miglior artista del Padiglione Italia è sicuramente Milovan Farronato. Paradossalmente, in quella che sembra essere una delle peggiori falle del progetto, è possibile trovare il più interessante pregio della mostra: perché, se non altro, offre un’occasione per ragionare sulle trasformazioni che il ruolo del curatore d’arte contemporanea ha conosciuto negli ultimi anni (benché di artisti/curatori si parli da tempo). Ma probabilmente quest’idea esula dagl’intenti dell’esposizione.

Calvino sosteneva che il diavolo oggi è l’approssimativo. È dunque interessante vedere come il labirinto sia stato semplificato nei corridoi del Padiglione Italia, dove le riflessioni politiche (ammesso che davvero ce ne siano) si riducono a metafore prive di forza e incapaci d’essere incisive, dove di “avanguardia” nessuno osa parlare, malgrado la centralità dell’argomento nella Sfida al labirinto del ’62 (nel catalogo, la parola “avanguardia” compare sedici volte: quindici nel saggio di Calvino ripubblicato per l’occasione, e una nel cappello che lo introduce, perché citata nel titolo dell’Avanguardia e sperimentalismo di Guglielmi), dove la determinatezza dello scritto di Menabò si perde in afasici rivoli fatti di carte degli arcani maggiori, ombrelloni consunti, virgolettati vuoti, costruzioni improbabili, saggi di tediosa, autoreferenziale e scontata scrittura creativa che niente hanno da dire. Tutt’al più, finiscono per comporre un divertissement senza pretese di longevità, un negozio d’arredamento di lusso, una vetrina con un’insegna altisonante e retorica. Ma non è quello che ci s’aspetterebbe dal Padiglione Italia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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