di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 08/02/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Novecento - Roma
Recensione della mostra Voglia d'Italia. Il collezionismo internazionale nella Roma del Vittoriano, a Roma, Palazzo Venezia e Vittoriano, fino all'8 aprile 2018.
Raccontare le origini, lo sviluppo e l’ingresso nel patrimonio pubblico d’una collezione che due coniugi statunitensi radunarono tra la fine dell’Ottocento e gli inizî del Novecento, nel contesto di un’Italia appena nata, capace d’attrarre, coi suoi tesori, l’interesse di schiere di collezionisti stranieri, e che conosceva all’epoca i primi provvedimenti in fatto di conservazione, tutela ed esportazione di opere d’arte: questo, a grandi linee, il tema della mostra Voglia d’Italia. Il collezionismo internazionale nella Roma del Vittoriano, che prende le mosse dall’approfondito studio di un’imponente ed eclettica raccolta, quella di George Washington Wurts (Trenton, 1843 - Roma, 1928) ed Henrietta Tower (Pottsville, 1856 - Lucerna, 1933), per poi spaziare sul collezionismo internazionale che caratterizzò l’Italia di quegli anni: il periodo preso in considerazione dalla rassegna curata da Emanuele Pellegrini è all’incirca quello che copre il cinquantennio che va dalla breccia di Porta Pia, con la conseguente annessione di Roma al Regno d’Italia, all’avvento del regime fascista. Nel mezzo, tante storie diverse, ma tutte tra loro legate, a cominciare da quella d’una Roma che, proclamata capitale d’Italia con legge del 1871, fu coinvolta in una mastodontica opera di rinnovamento e vide aprire decine di cantieri che avrebbero portato alla luce un numero sterminato di reperti antichi. Tra i cantieri che aprirono, figura quello del Vittoriano, sede dell’esposizione assieme a Palazzo Venezia, l’edificio in cui nel 1933, a seguito della scomparsa di Henrietta Tower, venne trasferita in blocco la raccolta Wurts-Tower, secondo esplicita intenzione dei due coniugi, che nel loro legato testamentario avevano espresso la volontà di donarla allo stato italiano.
E poi ci sono le singole storie dei collezionisti, che raccoglievano opere d’arte seguendo il proprio gusto e le proprie inclinazioni: c’erano i fini connoisseur che collezionavano facendosi guidare dai loro interessi artistici (è il caso di Herbert Percy Horne e di Bernard Berenson), c’era chi collezionava col preciso intento d’allestire una raccolta che, attraverso esempî di rilievo e secondo un progetto che prevedeva nuclei ben precisi, potesse dar conto delle produzioni artistiche di varie parti del mondo (Frederick Stibbert), chi nutriva una predilezione verso un periodo circoscritto della storia dell’arte e regolava i suoi acquisti di conseguenza (Robert J. Nevin), e anche chi non aveva un fine preciso, ma comperava oggetti come ricordo d’un viaggio o d’un soggiorno, oppure perché spinto dal desiderio di possedere un oggetto che rappresentasse qualcosa a livello affettivo (è quest’ultimo il caso della raccolta Wurts-Tower che, pur passibile d’esser suddivisa in alcuni nuclei tematici principali, non ebbe mai un carattere organico). E ancora, come anticipato, c’è la storia della nascita della tutela, ma anche quella del commercio d’arte, quella delle origini del “made in Italy”, quella della produzione di falsi. Svariate erano le tipologie d’oggetto nei confronti delle quali si rivolgeva l’interesse dei collezionisti: non solo dipinti e sculture, ma anche tessuti pregiati (arazzi, tappeti), ceramiche e porcellane, manufatti esotici provenienti da tutti gli angoli del mondo, stampe e disegni, mobilia e vasellame. Tutto riassunto in un gustoso dipinto di Napoleone Coccetti (Firenze, 1850 - ?), conservato in collezione privata e presente in mostra nelle sale al Vittoriano, che raffigura una signora altolocata alle prese con l’esame d’alcune stampe, in un ambiente che presenta pressoché tutte le tipologie d’oggetto artistico che muovevano la curiosità dei collezionisti dell’epoca.
Difficile suggerire al visitatore da dove iniziare il proprio itinerario, se da Palazzo Venezia, luogo che accoglie la sezione dedicata al focus sulla collezione Wurts-Tower, o se dal Vittoriano, dov’è invece allestita la sezione sul contesto storico e culturale. In questa sede, al fine di presentare meglio al lettore il quadro generale entro cui si dipanò la vicenda dei coniugi Wurts, s’è ritenuto più sicuro partire dalla sezione che occupa gli spazî delle Gallerie Sacconi al Vittoriano.
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L’ingresso della mostra Voglia d’Italia al Vittoriano |
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Una sala della mostra Voglia d’Italia |
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George Washington Wurts ed Henrietta Tower |
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Una stanza dei Wurts-Tower in una fotod’epoca
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Napoleone Coccetti, Au salon (1881; olio su tela; Firenze, collezione privata) |
L’inizio del percorso è affidato a tre teste romane, tutte rinvenute nel sottosuolo di Roma tra il 1886 e il 1888, un paio in occasione dei lavori di scavo per il monumento a Vittorio Emanuele II (il Ritratto femminile d’età antonina e il Ritratto di Socrate), mentre il terzo, un Ritratto maschile della metà del terzo secolo dopo Cristo, fu trovato da un privato cittadino che lo vendette a un antiquario, e a seguito d’altri due passaggi l’opera finì al Museum of Fine Arts di Boston. Diversa sorte toccò agli altri due ritratti, subito ricoverati presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme: poiché furono scoperti nell’ambito d’un cantiere pubblico, per lo stato italiano fu facile procedere con la loro conservazione presso la sede museale. Diverso il caso dell’altro ritratto: è vero che l’archeologo che lo vendette al museo statunitense, Rodolfo Lanciani (Roma, 1845 - 1929), a seguito d’alcune operazioni arrischiate (tra le quali la cessione del summenzionato ritratto) fu accusato di traffico illecito d’antichità e, pur senza subire sanzioni ufficiali, ritenne prudente lasciare ogni incarico archeologico istituzionale, ma occorre anche sottolineare che una più ferrea disciplina in materia d’esportazione sarebbe giunta soltanto nel 1903, con la legge “sull’esportazione all’estero degli oggetti antichi di scavo e degli altri oggetti di sommo pregio storico ed artistico”, che vietava l’esportazione fuori dai confini nazionali di ogni oggetto artistico incluso nel catalogo dei beni di sommo pregio, istituito a seguito della legge Nasi, varata l’anno precedente, e che rappresentava il primo intervento dello stato italiano in materia di tutela.
Occorre poi considerare un altro aspetto del collezionismo dell’epoca: le uscite d’opere all’estero erano spesso compensate dalle donazioni che gli amatori stranieri lasciavano allo stato italiano, e la mostra mette bene in evidenza questo fondamentale risvolto del collezionismo otto-novecentesco. Scrive nel catalogo il curatore: “Nella consueta considerazione del collezionista straniero come responsabile della esportazione dai confini nazionali di molti oggetti d’arte, si tende a dimenticare l’altra faccia della medaglia, ossia le donazioni che molti stranieri iniziavano a rivolgere allo Stato italiano. Al famelico collezionista straniero che priva il patrimonio nazionale degli oggetti artistici, spesso con la complicità e nell’indifferenza delle autorità locali, bisogna contrappore l’accrescimento del patrimonio nazionale derivato dalle donazioni delle collezioni straniere, spesso costituite da opere, magari italiane, comprate all’estero e riportate in patria”. I collezionisti sapevano d’aver tra le mani opere legate al territorio italiano, e loro precisa volontà era quella di far sì che tali opere rimanessero in Italia. La mostra espone dunque diversi pezzi entrati a far parte del patrimonio pubblico italiano grazie all’intelligenza e alla lungimiranza dei collezionisti che li acquistarono: una Madonna col Bambino di Neroccio di Bartolomeo, donata da Herbert Percy Horne (Londra, 1864 – Firenze, 1916) assieme a tutta la sua collezione di Palazzo Corsi (a Firenze, oggi sede del Museo Horne), un Lot e le figlie di Luca Giordano, parte della collezione di Frederick Stibbert (Firenze, 1838 – 1906) anch’essa donata alla pubblica fruizione, e un paio di dipinti secenteschi (tra cui un Cristo tra i dottori di Dirck van Baburen) che figuravano invece nella collezione Wurts-Tower. Opere particolarmente importanti in quanto esemplificative di quel “tentativo di assorbimento del patrimonio culturale italiano” (così Emanuele Pellegrini) che spesso i collezionisti mettevano in atto: un tentativo d’assorbimento che li spingeva a procurarsi anche dipinti nei confronti dei quali vigeva scarsissimo interesse all’epoca, come nel caso delle opere del Seicento (il gusto del tempo accordava infatti preferenza a fondi oro, opere dei primitivi e opere rinascimentali).
Altro elemento interessante è rappresentato dagli scambi d’opere d’arte che venivano proposti da collezionisti e antiquarî allo stato, in cambio del permesso d’esportare alcune opere d’arte o della riduzione delle tasse. È questo il caso d’un Cristo portacroce di Giovanni Francesco Maineri, oggi agli Uffizi, che fu donato allo stato nel 1906 dall’antiquario Elia Volpi (Città di Castello, 1858 - Firenze, 1938), proprio a fronte del permesso d’esportare altre opere. Uno scambio ben accetto agli occhi dello stato, dal momento che, come commentò Corrado Ricci (Ravenna, 1858 - Roma, 1934), allora direttore generale del Ministero della pubblica istruzione (ovvero il ministero che s’occupava della materia prima che venisse istituito, nel 1974, il Ministero dei beni culturali), il dipinto “è perfettamente conservato, aumenta d’importanza se si considera la rarità delle opere conservate in Italia di un’artista che non è dei minori fra gli emiliani seguaci della fiorentissima scuola ferrarese del ‘400” e “viene opportuno ad arricchire, nelle nostre Gallerie, la serie di quegli artisti che per i recenti acquisti di opere del Tura e del Costa ha raggiunto notevole importanza”.
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I tre ritratti romani: da sinistra, Ritratto maschile (metà del III secolo d.C.; marmo afrodisiense di Goktepe, altezza 39 cm; Boston, Museum of Fine Arts), Ritratto di Socrate (copia romana databile alla metà del I secolo d.C.; marmo pentelico, altezza 35,5 cm; Roma, Museo Nazionale Romano), Ritratto femminile (età antonina; marmo lunense, altezza 31 cm; Roma, Museo Nazionale Romano) |
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Neroccio di Bartolomeo dei Landi, Madonna con il Bambino e i santi Girolamo e Maria Maddalena (1496-1499 circa; tempera mista su tavola, 71,5x52 cm; Firenze, Museo Fondazione Horne)
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Luca Giordano, Lot e le figlie (1686; olio su tela, 122 x 173 cm; Firenze, Museo Stibbert)
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Dirck Van Baburen, Cristo fra i Dottori (1619-1620 circa; olio su tela, 170 x 210 cm; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) |
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Giovan Francesco Maineri, Cristo portacroce (post 1506; olio su tavola, 50 x 42 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi) |
L’esposizione di tre importanti opere rinascimentali (il San Lorenzo di Donatello dalla collezione Silverman, il Busto di fanciullo di Luca della Robbia e la Madonna col Bambino d’ambito michelozziano dalla collezione Loeser) offre ulteriori spunti di riflessione. Con il Fanciullo di Luca della Robbia si sfiora il tema della nascita dei Musei Artistici Industriali, sorti a fianco di quelle scuole artistiche industriali che si ponevano l’obiettivo di “mantenere alta la qualità delle lavorazioni tradizionali” e di “formare maestranze capaci di confrontarsi con le necessità della nascente industria, in buona sostanza con l’intento di trasformare gli artigiani in professionisti, e le botteghe in moderni opifici capaci di imporsi su mercati ben più ampi di quelli locali” (Claudio Paolini in catalogo): l’opera robbiana fu esposta, assieme a un gruppo di maioliche e porcellane rinascimentali che rappresentavano modelli d’ispirazione per gli artigiani delle scuole locali, nel Museo Artistico Industriale fondato a Napoli da Gaetano Filangieri (Napoli, 1824 - 1892), che aprì l’istituto col duplice obiettivo di garantire accoglienza alla propria collezione e di dotare la sua città d’un museo artistico industriale che s’ispirasse ai coevi modelli europei. Il Donatello di collezione Silverman (riconosciuto come opera del maestro nel 2014) e la Madonna Loeser introducono materie che il visitatore approfondisce nelle sale successive: se con la Madonna s’apre l’argomento della rielaborazione dell’antico, col San Lorenzo si comincia ad approfondire il tema delle vendite poco limpide e della scaltrezza degli antiquarî che spesso non si facevano troppi scrupoli se il fine era quello di portare a termine buoni affari. Nella fattispecie, l’opera in questione fu ceduta dal pievano di Borgo San Lorenzo (l’opera si trovava infatti sul portale maggiore della locale pieve di San Lorenzo) all’antiquario Stefano Bardini (Pieve Santo Stefano, 1836 – Firenze, 1922), che pensò di sostituire l’originale con una copia e di vendere il vero Donatello al principe Giovanni II del Liechtenstein.
La sala successiva approfondisce proprio quella rielaborazione dell’antico che fu largamente praticata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento: le botteghe dell’epoca non si limitavano a creare oggetti ispirati alle produzioni medievali o rinascimentali (oggetti sui quali spesso compariva la dicitura “Made in Italy”: ci troviamo agli albori d’una storia che prosegue tuttora), o a restaurare le opere antiche, ma spesso, dietro esplicita indicazione dei committenti, procedevano con integrazioni anche invasive, o con assemblaggi realizzati tramite pezzi fabbricati ad hoc. Decisamente interessante è il passaggio in cui all’osservatore viene offerto il confronto tra due cassoni, tipo d’oggetto molto apprezzato dai collezionisti del tempo. Il primo, quello più grande, proviene dalla raccolta di Frederick Stibbert: si tratta d’un cassone che risulta dall’assemblaggio di alcuni pannelli attribuiti a Mariotto di Nardo e provenienti da almeno due cassoni diversi, su di una struttura anch’essa pesantemente restaurata, al pari delle pitture (che si presentano totalmente ridipinte dallo stesso Stibbert, che appose la sua firma sui pannelli), e rimaneggiata in età moderna (il pannello centrale, per esempio, fu tagliato a metà per realizzare un’inusuale apertura a battenti). Il secondo invece è un oggetto moderno, realizzato dal pittore Federigo Angeli (Castelfiorentino, 1891 - Firenze, 1952) che s’ispira ai cassoni rinascimentali e che, al pari del trittico di Francesco Gentili esposto poco più avanti, contraddistinto dalle numerose ridipinture ottocentesche, conduce il pubblico verso una delle sezioni più interessanti dell’intera mostra, quella dedicata ai falsi, dacché spesso le abilità dei pittori contemporanei in grado di riprodurre opere antiche, o di creare opere che potevano benissimo esser scambiate per antiche, furono sfruttate per fini tutt’altro che leciti. Il visitatore viene quindi a conoscenza della truffa che l’antiquario Elia Volpi ordì ai danni della collezionista Helen Frick (Pittsburgh, 1888 - 1984) nel 1923, quando lo scaltro mercante presentò e riuscì a vendere alla sua cliente un gruppo scultoreo, raffigurante un’Annunciazione, che venne spacciato per un’improbabile creazione di Simone Martini (avvalorata dal monogramma “SM” e dalla datazione 1316), artista del quale, come spiega Gianni Mazzoni in catalogo, s’inventò di sana pianta un’attività scultorea: l’opera era in realtà una creazione di uno dei più abili falsari del tempo, Alceo Dossena (Cremona, 1878 - Roma, 1937), che con la complicità di antiquarî e storici dell’arte compiacenti riuscì a gabbare moltissimi collezionisti, prima d’esser scoperto nel 1928, anno in cui lo scandalo emerse con forza negli Stati Uniti d’America, mercato privilegiato dei falsarî. L’ultima sala, forse la più debole della mostra (ma ben compensata da un buon saggio in catalogo di Vincenzo Farinella), documenta quanto l’interesse per le antichità avesse “contagiato” anche il settore pubblico: si spiega così l’uso del fregio all’antica per decorare edifici pubblici (tra i quali lo stesso Vittoriano).
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Donatello, San Lorenzo (verso il 1440; terracotta già dipinta, altezza 74,5 cm; larghezza massima cm 62; larghezza della base cm 47; Parigi, collezione Kathleen Onorato - Peter Silverman) |
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Luca della Robbia, Ritratto di giovanetto (1445 circa; terracotta invetriata, 28 x 20 x 18 cm; Napoli, Museo Civico Gaetano Filangieri) |
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Cerchia di Michelozzo di Bartolomeo (con integrazioni di restauro), Madonna con il Bambino (terzo-quarto decennio del XV secolo; terracotta, 72 x 38 cm; Firenze, Museo di Palazzo Vecchio)
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I due cassoni |
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Mariotto di Nardo, Costantino Buonini, Frederick Stibbert, Storie di crociati? (1385-1390 circa e 1870-1871; cassone ligneo e tempera su tavola; Firenze, Museo Stibbert) |
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Francesco Gentili, Madonna col Bambino con angeli musicanti; Cristo alla colonna; san Giovanni Battista (Ottavo-nono decennio del XV secolo; tempera su tavola, pannello centrale 66,5x39 cm; pannelli laterali 66,8x19,5 cm; Assisi, Museo-Tesoro della basilica di San Francesco)
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Alceo Dossena, Angelo Annunciante (1920-1923; marmo, 213 x 228,5 cm; Pittsburgh, University of Pittsburgh Art Gallery)
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Usciti dalle Gallerie Sacconi s’attraversa la piazza e s’entra a Palazzo Venezia per visitare la parte seconda (o prima, a seconda di come si vuol impostare il proprio percorso) di Voglia d’Italia. Nella prima sala si viene introdotti alle figure di George Washington Wurts e di sua moglie Henrietta Tower: Wurts, diplomatico d’alto livello giunto in Italia nel 1865, prese residenza a Roma nel 1870 (anche se si stabilì definitivamente in città solo a fine secolo, dopo il matrimonio, in seconde nozze, con Henrietta Tower, celebrato nel 1898) e dopo poco era già ottimamente inserito nella società romana, potendo contare su frequentazioni d’altissimo livello e su contatti che seppe mantenere per tutta la vita. L’enorme collezione che i coniugi furono in grado di radunare (circa tremila pezzi) era esposta nelle tre residenze di Palazzo Mereghi, Palazzo Antici Mattei e Villa Sciarra (quest’ultima fu definita, in un articolo uscito sul New York Times nel 1913, “one of the wonders in Rome”, ovvero “una delle meraviglie di Roma”: l’appellativo può suggerire un’idea del tenore degli agî di cui i Wurts si circondarono), e si contraddistingueva per la sua eccezionale varietà, tale da rendere impossibile, come sottolinea in catalogo Grazia Maria Fachechi, “enucleare sottoinsiemi tipologici, cronologici, geo-culturali con relative quantificazioni”, mentre al contrario "è facile rilevare l’eccezionale ricchezza e l’estrema varietas della raccolta e, attraverso di questa, il carattere sfaccettato dei curiosi, ecumenici, sistematici, enciclopedici, smisuratamente ambiziosi Wurts, come collezionisti, a volte controcorrente nel comporre settori inesplorati da altri“. Una collezione ampia ed eclettica, con pezzi provenienti da ogni parte del mondo, ”nata per il piacere del possesso e dell’accumulo apparentemente indiscriminato", nella quale è tuttavia possibile individuare alcuni gruppi che hanno una preponderanza rispetto ad altri.
Il primo di tali gruppi è quello degli oggetti di provenienza russa: Wurts, tra il 1882 e il 1892, lavorò come diplomatico all’ambasciata americana di San Pietroburgo, e sviluppò ben presto un forte interesse nei confronti della cultura e della tradizione del paese che lo aveva ospitato. Il suo interesse, più che alle opere d’arte, era rivolto agli oggetti tipici del folklore locale, o alle produzioni artigianali, e il nucleo “russo” della collezione riflette il gusto per la decorazione esuberante e l’idea d’una società fortemente legata alle tradizioni, elementi che caratterizzavano la cultura russa di fine Ottocento: da qui lo spiccato interesse per i copricapo tipici, presenti in gran numero nella raccolta Wurts ed esposti con dovizia d’esempî alla mostra di Palazzo Venezia. La stessa voglia di conservare oggetti in grado di costituire testimonianze d’una cultura che affascinava i Wurts aveva incoraggiato l’acquisto di numerosi oggetti giapponesi: una passione, quella per le produzioni nipponiche, sorta a seguito del viaggio di nozze del 1898, che fece tappa nel paese del Sol Levante, e proseguita negli anni, con acquisti che i due coniugi effettuavano direttamente sul mercato romano, anche sulla scorta della diffusione del giapponismo, la grande passione per l’arte giapponese che aveva conquistato l’alta società (romana e non solo) del tempo. Tra le opere che si trovano in mostra, un grande arazzo con due galli (nelle loro abitazioni, i Wurts fecero largo utilizzo di tessuti e tendaggi orientali), un uchishiki con draghi e uccelli ho-o (si trattava d’un tessuto per altari buddhisti: i Wurts però lo utilizzarono probabilmente come federa per guanciale, a dimostrazione del fatto che i loro interessi non erano dei più filologici), un simpatico gatto di porcellana come testimone delle numerose porcellane giapponesi dei Wurts, e una grande gru ornamentale a grandezza naturale, oggetto molto diffuso nelle residenze romane del tempo: una gru di bronzo appare nella descrizione della casa della marchesa d’Ateleta ne Il Piacere di Gabriele D’Annunzio, e occorre sottolineare che gli scritti del Vate ci offrono una chiara immagine di come all’epoca dovesse apparire una residenza come quella dei Wurts, e viceversa, percorrendo le sale della mostra, non potremo far a meno di pensare ad atmosfere dannunziane.
Altro nucleo importante è quello delle opere tedesche, entro il quale è possibile trovare pezzi di gran pregio: la ragione di tale passione si spiega in virtù delle origini teutoniche della famiglia Wurts (approfondite nella prima sala), che consentirono ai coniugi di rimanere sempre in ottimi rapporti con la Germania (e proprio l’asse tra Italia e Germania fu tra i motivi che favorirono la donazione della collezione allo stato italiano, anche perché i Wurts, peraltro, ebbero sempre buone relazioni con Mussolini). Oltre alle bizzarre statue di lanzichenecchi, il visitatore incontrerà a Palazzo Venezia un particolarissimo San Michele attribuito a Michael Pacher, ardita opera i cui dilemmi sulla paternità sono tuttavia lontani dall’essere risolti, e ancora una Sant’Anna Metterza che presenta un’iconografia del tutto inusuale per l’Italia ma particolarmente diffusa in Germania e in Austria (sant’Anna tiene sulle ginocchia sia Gesù Bambino che la Vergine, raffigurata con connotati adolescenziali, quasi infantili), e una serie di quattrocenteschi arazzetti che vengono esposti per la prima volta in questa occasione. Una raccolta non sarebbe stata completa senza i cosiddetti old masters, i lavori degli artisti che operarono prima di Raffaello e che furono tra i principali obiettivi dei collezionisti del tempo: a Palazzo Venezia viene presentato un nucleo di primitivi già in collezione Nevin, poi passati ai Wurts nel 1907, anno in cui i coniugi acquistarono parte della raccolta del reverendo statunitense presso l’antiquario romano Giuseppe Sangiorgi (e la gran parte degli old masters dei Wurts fu acquisita proprio in tale occasione). Tra questi, occorre segnalare una Madonna col Bambino di Ottaviano Nelli, pittore umbro del primo Quattrocento capace d’affascinare più d’un collezionista, e una serie di raffinate, sottili, delicate e rare tempere su carta raffiguranti Angeli portacero: si tratta di figure dipinte sopra fogli di carta incollati su più strati, sulla cui funzione tuttavia gli studiosi seguitano a interrogarsi (probabile che venissero appesi ai lampadarî durante le funzione religiose).
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I copricapo russi |
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Fontana a forma di gru con i suoi cuccioli in piedi tra piante di loto con due granchi e una rana (Periodo Meiji, 1868-1912; fusione in bronzo, 230 x 120 x 70 cm; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) |
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Le statuette dei lanzichenecchi |
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Manifattura giapponese (Kyoto), Pannello ricamato con scena d’autunno, polli, foglie d’acero e crisantemi (fine XIX secolo; seta ricamata e bordatura in broccato di seta; Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia) |
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Arazzo uchishiki: Tessuto rituale per altare buddista, con un disegno di draghi e uccelli ho-o (metà del XIX secolo; filo di seta, 60 x 65 cm; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia)
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Manifattura Kutani, Gatto (fine XIX secolo, porcellana; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) |
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Attribuito a Michael Pacher, San Michele Arcangelo (legno di pino cembro intagliato, originariamente policromato e dorato - spada e bilancia non originali; cm 93 x 37 x 35 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) |
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Bottega in Carinzia, probabilmente di Villach, Sant’Anna Metterza (1520 circa; legno di tiglio intagliato, policromato, dorato
e argentato, 94,7 x 50,2 x 18 cm; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) |
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Manifattura tedesca dell’area del Medio Reno (probabilmente di Colonia, 1465-1480) e Cartonista tedesco non identificato (probabilmente attivo a Colonia, 1465-1480), Episodi della vita di Maria e della vita e Passione di Cristo (serie di quattro arazzi, con ricami sovrapposti; orditi: 6 fili/cm; trame di lana e lino; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia)
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Gli angeli e la Madonna di Ottaviano Nelli |
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Maestro degli angeli di carta (Lorenzo di Puccio?), Angeli portacero (1450-1460 circa; tempera su carta, 63 x 43 cm ciascuno; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia)
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Ottaviano Nelli, Madonna con il Bambino (tempera e oro su tavola, cm 65,8 x 48,3; Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia)
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Un’ultima sala cerca di ricreare l’atmosfera che si doveva respirare in casa Wurts-Tower esponendo una serie d’oggetti disparati, posti accanto alle foto d’epoca che li ritraggono all’interno delle abitazioni dei coniugi statunitensi: positiva conclusione d’un percorso chiaro e ben adattato alle due sedi espositive, in maniera coerente, con una scansione ben più riuscita rispetto a quella dell’ultima mostra tenutasi a Palazzo Venezia e sede distaccata (ovvero quella sui Labirinti del cuore della scorsa estate). Voglia d’Italia è un’ottima rassegna, di alto livello, che analizza con rigore uno spaccato importante (e poco noto al grande pubblico) della storia dell’arte, che racconta un mondo complesso fatto di mercanti e di riscoperte, di antiquarî e di falsarî, di leggi per la tutela e operazioni illecite, che si presenta puntuale nel ricostruire le dinamiche che mossero il collezionismo anglo-americano di fine Ottocento e inizio Novecento, che offre anche spunti di riflessione sull’attualità, dal momento che il tema dell’esportazione delle opere d’arte è quanto mai urgente, essendo stata varata in estate l’ultima riforma del settore, una riforma capace d’animare un vivace dibattito, cui s’è dato ampio risalto su queste pagine. Certo è una mostra non facile ma, a dire il vero, s’avverte un gran bisogno di mostre come Voglia d’Italia, che fuoriescano da solchi sicuri e stimolino la curiosità del visitatore con operazioni inedite, supportate da solidi progetti scientifici, in grado d’approfondire aspetti poco conosciuti ma fondamentali per la storia del nostro patrimonio.
Il fatto che si tratti d’una mostra complessa di certo non incide sul fascino che l’esposizione è in grado di suscitare: si pensi solo al fatto che Voglia d’Italia costituisce l’occasione per restituire al pubblico la raccolta Wurts-Tower, presentata per la prima volta in modo organico. Una novità importante, se si considera che la collezione Wurts-Tower rappresenta il nucleo più voluminoso del Museo Nazionale di Palazzo Venezia. Per tali ragioni anche il catalogo, edito da arte’m, si configura come un prezioso strumento di studio e approfondimento: oltre cinquecento pagine per la più parte dedicate alla raccolta Wurts-Tower, con un buon numero d’opere schedate (la scelta di non procedere a una schedatura completa è stata dettata dall’enormità dell’impresa e dal fatto che molte opere Wurts-Tower erano già state catalogate in tempi recenti) e ben sedici saggi (difficile presentare qui un riassunto: si tratta comunque di lavori che non presentano mai cedimenti di qualità, come talvolta accade) per arricchire il discorso che ha inizio nelle sale del Vittoriano e di Palazzo Venezia.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).