In quali luoghi e in quanti modi diversi si può raffigurare il silenzio in un dipinto? I silenzi non sono infatti tutti uguali: c’è il silenzio della quiete domestica, c’è il silenzio della contemplazione, il silenzio dell’attesa di un evento gioioso e il silenzio dell’attesa che preannuncia qualcosa di drammatico, c’è il silenzio della malinconia e della solitudine, il silenzio della notte. C’è il silenzio in un interno e il silenzio in un paesaggio, naturale e urbano che sia. Silenzi che si sentono e si percepiscono all’interno di un quadro in maniera del tutto differente, attraverso la presenza o l’assenza di una figura umana, attraverso le espressioni o attraverso i colori.
Particolare e forse unico è il modo di dipingere il silenzio e il vuoto di un pittore danese, Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864 – 1916), attivo tra Ottocento e Novecento, che in vita fu uno dei più grandi pittori danesi della sua epoca, famoso non solo nel Nord Europa ma anche in molti paesi europei, ma che poi ha conosciuto, al di fuori della sua terra d’origine, lunghi decenni di oblio, all’incirca da poco dopo la sua morte fino agli anni Ottanta, e che ora solo recentemente, in epoca moderna, è stato riscoperto, sia sul mercato sia dal punto di vista espositivo. Negli ultimi anni si sono succedute mostre a Barcellona, Londra, Monaco di Baviera, Parigi, Cracovia. Le ultime presenze importanti in Italia risalgono alle Biennali di Venezia del 1903 e del 1932 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911; si deve perciò alla sensibilità del curatore Paolo Bolpagni il merito di aver ora riportato in Italia una selezione delle atmosfere nordiche di questo pittore in mostra a Rovigo, a Palazzo Roverella.
Sono in tutto quattordici su ottantaquattro dell’intero percorso espositivo le opere di Hammershøi presenti in Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia, questo il titolo dell’attuale mostra rodigina, e solo il fatto di poterle ammirare riunite in un’unica sede vale la visita, considerando anche che in Italia è conservata solo un’opera dell’artista, un autoritratto del 1913 donato nel 1920 alle Gallerie degli Uffizi dalla moglie Ida (che purtroppo non è stato portato in mostra) e che per vedere quelle qui esposte bisognerebbe normalmente spingersi ad Amburgo, a Copenaghen, a Stoccolma, a Odense o a Parigi. Tuttavia chi scrive avrebbe preferito poter ammirare una selezione ancora più ampia dei dipinti di Hammershøi, che includesse altri dei suoi tipici interni, come Interno. Strandgade 30 dello Städel Museum di Francoforte sul Meno, Interno con donna al pianoforte, Strandgade 30 di collezione privata o Raggi di sole o Luce del sole. Granelli di polvere che danzano nei raggi del sole dell’Ordrupgaard di Charlottenlund, e alcuni ritratti come il Ritratto di giovane donna, che altra non è che Anna, la sorella dell’artista, e Interno con giovane uomo che legge (Svend Hammershøi), entrambi custoditi all’Hirschsprung Samling di Copenaghen, rimpicciolendo forse l’ultima sezione dedicata ai paesaggi silenziosi realizzati negli anni in cui visse Hammershøi, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni Venti, da artisti francesi, belgi e italiani.
Per contro si ha il piacere di ammirare il suo primo Interiør privo di figure del 1888 intitolato La porta bianca (Interno con vecchia stufa), in cui una porta bianca aperta costituisce il passaggio da un ambiente in penombra con stufa a un corridoio luminoso su cui si affaccia un’altra porta bianca, in questo caso chiusa; un passaggio dunque dall’ombra alla luce, che però è una luce nordica, tenue e fioca. È esposto inoltre il celebre Hvile (Riposo) del 1905, entrato nelle collezioni del Musée d’Orsay dal 1996: il dipinto, che raffigura la moglie di spalle seduta su una sedia, con i capelli raccolti, la nuca scoperta e la camicetta che si confonde con il colore della parete verso cui la donna è rivolta, in contrasto con il bianco del recipiente a forma di fiore al centro del mobile che sta accanto al soggetto ritratto, era tra le tredici tele provenienti dalla collezione di Alfred Bramsen, collezionista e affezionato sostenitore dell’artista, con cui Hammershøi partecipò a distanza all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911. Fu tra i dieci vincitori del primo premio, ottenne diecimila lire. E ancora, si ha occasione di ammirare l’unico dipinto di soggetto italiano di Hammershøi, oggi conservato al Kunstmuseum Brandts di Odense, ovvero una veduta dell’interno della basilica di Santo Stefano Rotondo di Roma, chiesa di origine paleocristiana sul Celio caratterizzata da una pianta centrale con colonne ioniche architravate che sostengono il tiburio. Hammershøi e la moglie Ida partirono per Roma nell’ottobre del 1902: si sa che l’artista fu attratto principalmente dalle architetture antiche, mentre rivolse poca attenzione a Raffaello, a Michelangelo e alle opere di età barocca. Rimase colpito da Santo Stefano Rotondo e, dopo aver ottenuto il permesso di lavorare dentro la basilica e dopo aver studiato l’inquadratura in un disegno a matita oggi conservato alla Pierpont Morgan Library, cominciò a dipingere, decidendo di abbandonare la visione frontale per un punto di vista laterale, spostato a destra, con quattro colonne in primo piano. La luce è qui, straordinariamente, calda e soffusa.
Ma andiamo con ordine. Il percorso espositivo prende il via con una sezione dedicata alla formazione di Hammershøi: lo Studio a carboncino di nudo maschile visto di spalle che apre la sezione e la mostra è probabilmente frutto delle lezioni alla Scuola di studio indipendente per artisti che il giovane Hammershøi cominciò a frequentare dopo l’Accademia Reale di Belle Arti Danese, di lunga tradizione accademica. C’è da sottolineare tuttavia come il suo avvicinamento al disegno risalga in realtà alla tenera età di otto anni e come la sua precoce educazione all’arte sia stata finanziata in particolar modo dalla madre Frederikke che gli fece impartire lezioni di disegno e di pittura da alcuni dei grandi nomi del panorama artistico danese del tempo, tra cui Niels Christian Kierkegaard, cugino del celebre filosofo e allievo di Christoffer Wilhelm Eckersberg, il quale come importante esponente del Neoclassicismo aveva lasciato nei suoi eredi una particolare predilezione per lo studio del nudo ma con l’utilizzo di modelli veri, viventi. Vilhelm proveniva infatti da una famiglia alto-borghese e colta, dunque ebbe la fortuna di coltivare e di assecondare senza alcun tipo di problema economico la sua dote artistica, sia privatamente che presso importanti istituzioni. E se all’Accademia Reale ricevette un approccio più tradizionale, alla Scuola di studio indipendente ebbe la possibilità di confrontarsi anche con un’arte che guardava fuori dalla Danimarca, soprattutto alla Francia e a Parigi: tra i suoi maestri figura anche Peder Severin Krøyer, tra i massimi esponenti della Scuola di Skagen, una sorta di declinazione scandinava dell’Impressionismo francese ma senza la frammentazione del colore in piccole pennellate; tra gli elementi cari a Krøyer vi era proprio il motivo del raggio di luce che entra dalla finestra e attraversa la composizione, come si ritrova in molte opere di Hammershøi. Tornando allo Studio di nudo visto di spalle, il disegno rivela la capacità di Vilhelm di raffigurare un corpo giovanile in modo realistico ma allo stesso tempo mantenendone la fragilità della giovane età; è da notare inoltre come compaia fin da subito il tema del soggetto ritratto di spalle, che si ritroverà spesso nella sua produzione, specialmente quella dedicata agli interni con persone, dove la persona è quasi sempre la moglie Ida. Altra importante influenza che Hammershøi ebbe nella sua formazione, grazie a un viaggio a ventitré anni nei Paesi Bassi e in Belgio, fu la conoscenza diretta e lo studio dei pittori del Seicento olandese e fiammingo e dell’ottocentesca Scuola dell’Aja caratterizzati da una pittura di genere con un approccio intimista e soggetti domestici, con donne intente a leggere, a cucire, a suonare strumenti musicali (figure molto care anche ad Hammershøi), e da colori sobri. Qui in questa sezione sono ad esempio presenti opere di Gerard ter Borch, Johan Hendrik Weissenbruch, Bernard Blommers e Jan Jacob Schenkel, tutte accomunate dalla raffigurazione di interni con persone intente nelle loro attività. Vi è poi un grande dipinto, con in primo piano un albero, realizzato dal fratello minore di Vilhelm, Svend, che anche lui diventò pittore ma a differenza del fratello anche ceramista: ciò che si nota è tuttavia la cromia predominante, quasi una monocromia con toni bruni e grigi.
Si prosegue con interni domestici senza presenze umane raffigurati da Hammershøi, tra cui spicca il già citato primo suo Interiør, La porta bianca, e Luce del sole nel salotto III, dove la luminosità fioca del sole del Nord Europa filtra timidamente da una finestra all’interno dell’ambiente, creando lievi ombre e sfumature, ma senza rendere visibile quella finestra (se ne vede solo la forma riflessa sulla parete). Gli interni raffigurati in Luce del sole nel salotto III, come in Interno, Strandgade 30, e come nella maggior parte delle sue scene d’interno che compariranno nella sua produzione anche con figure, sono quelli dell’appartamento al numero civico 30 di Strandgade, una delle vie principali del quartiere di Christianshavn a Copenaghen, dove Vilhelm e Ida abitarono dal 1898 al 1909. Sono opere in cui le linee delle pareti spoglie, gli arredi essenziali, un divano e sedie solitarie appoggiate alle pareti, gli scorci di sbieco che creano geometrie tra una libreria, un mobile, una porta, un armadio e un busto, rendono, come scrive Bolpagni, “il piccolo mondo borghese di Hammershøi, che indugia sui frammenti di ordinario, dove si nasconde una bellezza inaspettata, e che, in un filosofico ‘elogio dell’assenza’, ha scelto di ‘coltivare il proprio giardino’, trovandovi tutto ciò di cui ha bisogno”, denotando allo stesso tempo un’accurata attenzione a quello che lo stesso artista chiamava ‘il carattere architettonico del quadro’. In un’intervista alla rivista danese Hver 8. Dag rilasciata nel 1907, Hammershøi affermava: ‘Quello che mi fa scegliere un soggetto sono spesso le sue linee. E poi, naturalmente, la luce, che importa molto. Ma sono le linee la cosa che amo di più’. I tre interni di Hammershøi sono qui posti a confronto con i due interni raffigurati dal francese Charles-Marie Dulac (Parigi, 1865 – 1898) e dal belga Georges Le Brun (Verviers, 1873 – Stuivekenskerke, 1914), nei quali, pur concentrandosi su elementi essenziali del mobilio, vi è una luce del tutto differente in un caso e una resa minuziosa dei dettagli nell’altro. È in questa sezione inoltre che le scene di interni del pittore danese vengono paragonate attraverso due video su strutture a pavimento a scene tratte dal film Gertrud (1964) di Carl Theodor Dreyer, poiché sono stati notati parallelismi tra le inquadrature, gli schemi compositivi e le atmosfere sospese dei dipinti e della pellicola.
Ci si chiedeva all’inizio in quanti modi diversi si può raffigurare il silenzio in un dipinto. La sezione immediatamente successiva, legata inevitabilmente a quella appena descritta, pare darne risposta, ed è inoltre tra gli obiettivi dichiarati della mostra “individuare, attraverso confronti tra i suoi dipinti e quelli di altri artisti a lui coevi e della generazione successiva, una poetica che pone al centro il tema del silenzio”. Come già accennato, quella di Hammershøi è una poetica del vuoto e della luce, dove il vuoto non è il nulla, ma l’assenza di persone, e dove vi sono persone, è l’assenza di azione, di gesti, per lasciare spazio al silenzio, all’immobilità, eliminando ogni aspetto narrativo, e dove la luce non è mai sintomo di un’atmosfera calma e tersa, ma soffusa, tendente al malinconico, che semmai è sintomo di un’atmosfera inquieta che si sprigiona da una calma apparente. Ecco quindi che il suo Interno con divano del 1907 viene posto in questa occasione a confronto con quei pittori che in Danimarca, ma anche in Italia e in area franco-belga, s’ispirarono a lui: si susseguono l’Interno dall’atmofera confortevole e dalla luce calda di Carl Holsøe (Aarhus, 1863 – Roma, 1952), suo amico e compagno d’Accademia, la sgargiante opera di Henri-Eugène Le Sidaner (Port Louis, 1862 – Parigi, 1939), le opere di Giuseppe Ar (Lucera, 1898 – Napoli, 1956), l’italiano più vicino alle composizioni di Hammershøi per la presenza di porte e finestre spesso bianche, ma illuminate da una luce calda che esprime tranquillità domestica, il malinconico e dimesso interno di Orazio Amato (Anticoli Corrado, 1884 – Roma, 1952) e l’evocativo convento di Sant’Anna a Orvieto di Umberto Prencipe (Napoli, 1879 – Roma, 1962); e ancora, l’inquietante interno di Xavier Mellery (Laken, 1845 – Bruxelles, 1921) e l’opprimente interno di un mulino di Charles Mertens (Anversa, 1865 – Calverley, 1919). Si prosegue ancora con i confronti nella successiva sezione, dedicata agli interni con figure, che vede artisti tutti a lui coevi: i due quadri di Hammershøi, che vedono in un caso una donna leggere e nell’altro una donna spazzare il pavimento (qui è chiaro il richiamo all’arte olandese e fiamminga ma con tutta un’altra atmosfera, poiché non vi è il senso di attesa e di sospensione per possibili angosce segrete come in quelle del danese), sono messi a confronto con Solitudine e Donna con fruttiera di Carl Holsøe, con Aspettando gli ospiti dell’amico e cognato Peter Vilhelm Ilsted (Sakskøbing, 1861 - Copenaghen, 1933), con La signora Ojetti al pianoforte di Oscar Ghiglia (Livorno, 1876 - Prato, 1945) in cui si notino le ombre sul vestito e sulla libreria e i riflessi sulla superficie lucida del pianoforte, l’atmosfera notturna e inquietante dell’incisione Luce e ombre della simbolista svedese Tyra Kleen (Stoccolma, 1874 - 1951) a confronto con un interno notturno di Hammershøi, e il misterioso Uomo che passa di Georges Le Brun.
Dagli interni si passa poi ai ritratti: Hammershøi era contrario a ritrarre soggetti su commissione, poiché pensava che un ritratto presupponesse una stretta conoscenza della persona da ritrarre, perciò i suoi ritratti si limitarono alla madre, alla moglie, alla sorella, al fratello e agli amici più stretti. Qui la moglie Ida Ilsted è ritratta in ben tre dipinti, ovvero il ritratto frontale dell’allora ancora fidanzata, caratterizzato da uno sguardo assente e trasognato della giovane e da una giacca il cui colore si confonde con lo sfondo (Rainer Maria Rilke rimarrà così colpito da quest’opera esposta nel 1904 a Düsseldorf che decise di andare a Copenaghen per incontrare l’artista), il già citato Hvile (Riposo) affiancato dal ritratto della moglie di Oscar Ghiglia di spalle mentre suona il pianoforte, e il Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio, esemplificativo del tema dell’incomunicabilità. A questi si aggiunge solo il ritratto di Henry Bramsen, il violoncellista figlio dell’amico, collezionista e mecenate Alfred. Sarebbe stato piacevole poter ammirare in questa sezione il ritratto della sorella Anna e Interno con giovane uomo che legge (Svend Hammershøi), ma ci si inoltra invece d’ora in avanti nel silenzio del paesaggio, a cominciare dal già menzionato unico dipinto di soggetto italiano di Hammershøi per continuare con la rappresentazione della città. Ultima sua opera in mostra è infatti la raffigurazione del Palazzo di Christiansborg, uno degli edifici più famosi di Copenaghen, immerso in un’atmosfera ovattata, senza alcuna presenza umana e con una luce dominante tendente al grigio, poi, come scritto dal curatore, “il discorso si allarga alle vedute urbane deserte, ai notturni desolati, ai ‘paesaggi dell’anima’, alle ‘città morte’, che tanta fortuna ebbe in Francia, in Belgio e in Italia negli anni in cui visse Hammershøi: un’ulteriore declinazione di quel sentimento sfuggente ed enigmatico, sottilmente angoscioso, che troviamo nella sua produzione”. La scelta è stata quindi quella di allargare il concetto di silenzio, secondo il parere di chi scrive talvolta anche forzandone un poco i confini, per inserire opere che riflettono più sui temi del vuoto e del silenzio piuttosto che sulla particolare visione di Hammershøi, pittore al quale è dedicata la mostra. Vi sono la Bruges di Fernand Knopff e di Henri-Eugène Le Sidaner, le visioni serali di Émile-René Ménard, i tetti di Parigi di Charles Lacoste o del Jardin du Luxembourg di Eugène Grasset, la Venezia notturna di William Degouve de Nuncques, le incisioni di Umberto Prencipe e una serie di scorci urbani e marittimi dell’Aja e di Anversa di Vittore Grubicy de Dragon. E ancora, sotto il segno delle Città del silenzio di Gabriele d’Annunzio, si susseguono i notturni di Mario de Maria, Giuseppe Ugonia, Domenico Baccarini, Raoul Dal Molin Ferenzona. Per concludere con l’ultima sezione dedicata ai paesaggi silenziosi e ad altri “artisti del silenzio” che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni Venti, realizzarono opere “permeate da una malinconica e assorta immobilità”: sfilano dunque uno dopo l’altro Alphonse Osbert con le sue figure femminili immerse nel paesaggio, Charles-Marie Dulac con i suoi bagliori mistici, Giuseppe Ugonia con le sue litografie arcadiche, Mario Reviglione con le sue atmosfere crepuscolari, Umberto Moggioli con le sue meditazioni in luoghi solitari, Giulio Aristide Sartorio con le sue architetture immerse nel verde, le desolate campagne di Onorato Carlandi e Napoleone Parisani e le vedute di Enrico Coleman e Pio Bottoni.
Di fronte a tutta questa carrellata di artisti, lo sguardo del visitatore viene forse alle volte distolto da quello che dovrebbe essere il principale protagonista dell’esposizione, visto anche che si tratta, come detto, della prima presenza importante in Italia in epoca moderna di un nucleo di opere dell’artista danese riunite insieme.
Ben fatto il catalogo, che ripercorre fedelmente la mostra con tutte le opere presenti (mancano tuttavia le schede delle singole opere), e che dedica saggi ai vari aspetti della poetica di Hammershøi, dai temi ai luoghi, alle figure femminili, al rapporto con l’Italia e alla fortuna della sua arte.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.