Verrocchio maestro di Leonardo, la prima monografica sul grande artista tra capolavori e nuove attribuzioni


Recensione della mostra “Verrocchio. Il maestro di Leonardo”, a Firenze, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, dal 9 marzo al 14 luglio 2019

Malgrado la figura del Verrocchio (Andrea di Michele di Francesco Cioni; Firenze, 1435 circa - Venezia, 1488) sia universalmente ritenuta tra le più significative della storia dell’arte e i suoi conseguimenti siano riconosciuti come base da cui sarebbe scaturito il Rinascimento maturo (ovvero quello che, con definizione vasariana, si è usi denominare “maniera moderna”), poche sono state le occasioni espositive in cui s’è potuto dar conto delle innovazioni introdotte dal grande maestro fiorentino, del primato da lui raggiunto nel contesto della Firenze laurenziana, dell’evoluzioni del gusto da lui determinato, del decisivo ruolo che la sua bottega ricoprì nell’ambito della formazione d’una vasta schiera d’artisti d’importanza tutt’altro che secondaria (basti pensare al solo Leonardo da Vinci). Prima della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo, in corso a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello dal 9 marzo al 14 luglio 2019, il Verrocchio è stato tutt’al più protagonista di rassegne focalizzate su di un’opera (è il caso di quella che seguì il restauro del David del Bargello nel 2003), o comprimario di più ampie esposizioni sul Quattrocento fiorentino (per esempio, nel 2011 il suo Busto di gentildonna e il Ritratto di Giuliano de’ Medici presero la via di Berlino prima e di New York poi per essere esposti alla grande mostra in due tappe sulla ritrattistica rinascimentale da Donatello a Bellini), o ancora attore non protagonista di monografiche dedicate ad altri (come quella su Leonardo tenutasi a Palazzo Reale nel 2015, quando il Verrocchio fu chiamato ad accompagnare l’illustre allievo con una buona selezione di fogli e una terracotta, o addirittura quando nel 2011 la sua Dama col mazzolino fu inclusa nella mostra su Lorenzo Bartolini per dimostrare come l’eco della sua lezione risuonasse anche a quasi quattro secoli di distanza). Ed è invero piuttosto facile arguire i motivi alla base d’una tale mancanza di considerazione: superato il problema dell’ingeneroso giudizio di Vasari, che per certi versi ha condizionato la fortuna del Verrocchio (lo storico dell’arte aretino, nel definire “alquanto dura e crudetta” la sua maniera, pur riconoscendolo “fra i rari et eccellenti artefici dell’arte nostra”, gli rimproverava un eccesso d’artificio a scapito della spontaneità), ci s’è comunque sempre scontrati, sul versante della scultura (com’è noto il Verrocchio giunse ai sommi gradi tanto nell’arte plastica quanto in quella del pennello), con l’inamovibilità dei suoi capolavori monumentali, che spesso costituiscono le punte più avanzate raggiunte dalla sua arte, e su quello della pittura con la difficoltà d’inquadrare la produzione d’un artista che giunse a dipingere solo in età avanzata, benché ciò non gli abbia impedito di raggiungere traguardi eccelsi, e i cui dipinti sono scarsamente documentati.

I curatori della mostra di Palazzo Strozzi, Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, tra i massimi specialisti del Quattrocento (rispettivamente per la scultura e la pittura), hanno assunto il loro compito consapevoli di questi problemi: per quanto riguarda l’attività scultorea del Verrocchio, s’è cercato di radunare nelle sale del piano nobile del palazzo e in quelle al pianterreno del Bargello i capolavori i più significativi della sua produzione mobile, e si può tranquillamente e obiettivamente asserire che il pubblico della mostra avrà fino a quest’estate l’opportunità di vedere raccolto a Firenze tutto il meglio di quanto il Verrocchio ha realizzato durante la sua carriera, senza esclusione alcuna (manca solo l’altare argenteo del Battistero, che s’è voluto lasciare al Museo dell’Opera del Duomo per non depauperare l’istituto, e s’aggiunga poi che l’opera è inserita in una teca a temperatura e umidità controllate, ulteriore ragion per cui la scelta d’evitarne uno spostamento di poche decine di metri non può ch’esser salutata in maniera positiva). Per ciò che invece concerne le opere pittoriche, Andrea De Marchi ha condotto un dettagliato studio che, oltre a ricostruire le vicende del Verrocchio “dipintore”, mira a riconsiderare il suo peso storico e la portata della sua arte nel più ampio quadro del pluridecennale dibattito critico attorno alla sua effettiva statura di pittore. Non può che colpire la quantità di materiale su cui De Marchi ha lavorato, per giungere a molte conclusioni di cui si darà conto in quest’articolo, anche perché, è necessario sottolineare, i visitatori non andranno a visitare una mostra dedicata solo al Verrocchio: la capacità d’irradiazione della sua arte comporta inevitabilmente un discorso ben più ampio, che a Palazzo Strozzi viene esaminato per temi e linee di sviluppo. Sia sufficiente considerare il rapporto che il Verrocchio ebbe con Leonardo: il sottotitolo dell’esposizione non è solo una concessione alle logiche del marketing (e, beninteso, se presso il grande pubblico si reclamizza una mostra del genere anche facendo leva sul nome del genio di Vinci, non si vede lato negativo alcuno) o un omaggio alle celebrazioni del cinquecentenario leoardiano (d’altissimo livello e che, ci si conceda una breve parentesi, non fa rimpiangere la mancanza d’una mostra-kolossal leonardiana, peraltro eventualmente poco utile passati appena tre anni e mezzo dalla summenzionata monografica di Palazzo Reale), ma è anche una netta esplicitazione, ovviamente argomentata con minuzia nelle sale, di quanto l’universalità e la versatilità d’un artista come il Verrocchio abbiano rappresentato per le sperimentazioni di Leonardo.

Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo
Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo


Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo
Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo


Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo
Una sala della mostra Verrocchio. Il maestro di Leonardo

Il dialogo tra maestro e allievo, nella mostra di Palazzo Strozzi, è dunque continuo, e ha inizio fin dalla prima sala, che ne indaga scaturigini e implicazioni sul terreno del ritratto femminile, che la generazione precedente a quella del Verrocchio fece tornare in auge e che diventa nella mostra campo privilegiato per tracciare un filo che ha per protagonisti i moti dell’animo umano (e, nella fattispecie, quelli della donna, nella prima sala) e che, partendo da Desiderio da Settignano (Settignano, 1430 circa – Firenze, 16 gennaio 1464), giunge fino a Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519). Il Verrocchio, com’è noto, ebbe la sua prima formazione nell’ambito dell’oreficeria, e prese confidenza con la scultura successivamente, accostandosi alla bottega di Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi; Firenze, 1386 - 1466), e parimenti subendo il fascino della maniera di Desiderio: un primo intento della mostra è peraltro quello d’offrire una lettura sui rapporti che legano il Verrocchio sia a Donatello sia a Desiderio, a proposito dei quali Caglioti non ravvisa incompatibilità che distanzierebbero il giovane Andrea di Michele dall’uno o dall’altro maestro (dal primo, sottolinea il curatore, l’artista ricavò il “respiro monumentale”, mentre dall’altro “la smania senza pecche”, la via verso il “trattamento fanatico della materia, quasi fino all’estenuazione”). Di Desiderio si sarebbe voluta portare un’opera di capitale importanza quale il Busto di Marietta Strozzi, e nell’impossibilità d’ottenerlo s’è optato per la Giovane gentildonna del Bargello, realizzata col concorso della bottega e posta ad apertura della mostra quale esempio d’una ritrattistica che idealizza la donna non senza però ammantarla di quegli accenti di dolcezza e lirismo che caratterizzano gran parte della produzione di Desiderio, abituato a lavorare il marmo con una ricercatezza e una finezza che non considerano l’ornato inferiore al modellato e che diventano mezzo con cui il Verrocchio poté realizzare due opere come la Giovane gentildonna del 1465 circa, oggi alla Frick Collection di New York (che sorprende per il finissimo modo di trattare riccioli e decorazioni della camicia e del corpetto), e la celeberrima Dama col mazzolino, con la quale l’artista introdusse la novità degli avambracci e delle mani che donano un moto inedito al ritratto (fino ad allora l’uso era quello di raffigurare le braccia dal gomito in su), tale da rendere l’immagine della dama un ritratto “sospeso, raccolto, mutevole”, con un gesto che vuole “trasformare il marmo, togliergli pesantezza, condurlo verso la stessa levità del mazzolino, senza rinunciare per questo a una precipua dimensione di esperienza vissuta” (così Marco Campigli nella scheda del catalogo). Una tale “mutevolezza” è quella che conduce a Leonardo e, in particolare, alla sua Ginevra de’ Benci, per un paragone da manuale di storia dell’arte, che a Palazzo Strozzi viene però condotto col tramite del foglio, in arrivo dalle collezioni dei reali d’Inghilterra, contenente lo studio per la parte inferiore (oggi perduta) della Ginevra, quella con le mani, la cui espressività e il cui dinamismo rimandano scopertamente alla Dama verrocchiesca.

Il legame tra Desiderio e il Verrocchio anima anche la seconda sala: il delicato scultore di Settignano è presentato al pubblico come l’inventore d’un nuovo genere di ritratto, il profilo marmoreo di donna (un tipo che, pur volendo in qualche modo richiamarsi all’arte classica, in realtà non aveva riscontri in antico se non in cammei e gemme: sottigliezze, per una committenza sì appassionata d’antichità, ma lungi dal voler rifiutare un’opera per lacune filologiche) che troverebbe un alto esempio nella Giovane gentildonna di collezione privata inglese e di recente attribuzione, saggio d’un artista che si trovava a perfetto agio anche nel bassorilievo (la padronanza di Desiderio, secondo Caglioti che ha formulato l’attribuzione, è ben dimostrata da alcuni pregevoli brani come la ciocca di capelli in secondo piano, scolpita a stiacciato, le ciglia, il modo di tagliare l’abito). L’opera è posta in dialogo col rilievo del Verrocchio raffigurante Un’eroina antica, a sua volta messo a paragone con un’omologa scultura della bottega: è questa una delle novità più considerevoli della mostra di Palazzo Strozzi, dacché l’attribuzione al Verrocchio dell’Eroina conservata al Castello Sforzesco (e peraltro restaurata per l’occasione nell’ambito d’una vasta campagna d’interventi realizzati su molte delle opere esposte) viene qui proposta per la prima volta. Prima la si era infatti assegnata a Desiderio, a Francesco Ferrucci o Francesco di Giorgio Martini, quando non la si era considerata un falso ottocentesco, e in certi casi era stata ritenuta la replica dell’altro rilievo, quello del Victoria & Albert Museum di Londra. Alla bellezza eterea e sentimentale della damina di Desiderio, Verrocchio “risponde” con una più disinibita eroina dai capelli scarmigliati e che non si fa problemi nel mostrare il seno all’osservatore, come vuole l’iconografia della Cleopatra (e che in pittura trova puntuale riscontro nella celeberrima Cleopatra di Piero di Cosimo, quella che troppo a lungo s’è voluta spacciare per improbabile ritratto di Simonetta Vespucci e che, secondo Caglioti, deriverebbe proprio dai modelli verrocchieschi) o quella dell’Olimpia madre d’Alessandro magno (che così, a seno nudo, appare in una scultura in pietra di Gregorio di Lorenzo). Di nuovo, il Verrocchio in mostra è presentato come un innovatore, capace non solo d’inventare di fatto un gusto sviluppando le intuizioni di Desiderio, ma anche d’imporlo con autorevolezza: dai profili di cui s’è appena detto sarebbero infatti nati i ritratti di condottieri affrontati. Nella stessa sala si trovano dunque, l’uno di fronte all’altro, lo Scipione l’Africano già nell’Ottocento riconosciuto come opera autografa, e l’Annibale cartaginese di collezione privata che invece figura come nuova attribuzione: dei condottieri del Verrocchio colpisce non soltanto l’elevato grado d’elaboratezza (si vedano gli elmi e le corazze), ma anche l’espressioni dure e accigliate che avrebbero fornito diversi spunti agli studî di fisiognomica di Leonardo, evocati in un foglio, proveniente anch’esso da Windsor e posto al centro della sala, sul quale l’artista di Vinci ha tracciato diversi volti di profilo. Chiude la sezione il famosissimo David del Museo del Bargello, summa delle meditazioni dell’artista sul tema dell’eroe nonché simbolo tra i più emblematici della sua arte e del Rinascimento tutto.

Desiderio da Settignano e bottega, Giovane gentildonna (1455-1460 circa; marmo, 47,5 x 43,5 x 22 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 62)
Desiderio da Settignano e bottega, Giovane gentildonna (1455-1460 circa; marmo, 47,5 x 43,5 x 22 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 62)


Andrea del Verrocchio, Giovane gentildonna (1465-1466 circa; marmo bianco, 47,3 x 48,7 x 23,8 cm; New York, The Frick Collection, inv. 1961.2.87)
Andrea del Verrocchio, Giovane gentildonna (1465-1466 circa; marmo bianco, 47,3 x 48,7 x 23,8 cm; New York, The Frick Collection, inv. 1961.2.87)


Andrea del Verrocchio, Dama dal mazzolino (1475 circa; marmo, 59 x 46 x 24 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 115)
Andrea del Verrocchio, Dama dal mazzolino (1475 circa; marmo, 59 x 46 x 24 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 115)


Leonardo da Vinci, Braccia e mani femminili; Testa maschile in profilo (1474-1486 circa; punta d’argento e punta di piombo, con ritocchi successivi dei profili in matita nero-grigiastra tenera, il tutto lumeggiato con biacca a pennello e a gouache, su carta preparata leggermente in rosa color pelle, 215 x 150 mm; Castello di Windsor, Royal Library, The Royal Collection Trust, inv. RCIN 912558)
Leonardo da Vinci, Braccia e mani femminili; Testa maschile in profilo (1474-1486 circa; punta d’argento e punta di piombo, con ritocchi successivi dei profili in matita nero-grigiastra tenera, il tutto lumeggiato con biacca a pennello e a gouache, su carta preparata leggermente in rosa color pelle, 215 x 150 mm; Castello di Windsor, Royal Library, The Royal Collection Trust, inv. RCIN 912558)


Desiderio da Settignano, Giovane gentildonna (1455-1460 circa; marmo, 39,5 x 29,8 x 9,7 cm; Inghilterra, Collezione privata)
Desiderio da Settignano, Giovane gentildonna (1455-1460 circa; marmo, 39,5 x 29,8 x 9,7 cm; Inghilterra, Collezione privata)


Andrea del Verrocchio, Un’eroina antica (Olimpia o Cleopatra) (1461-1464 circa; marmo, 46 x 31 x 6,5 cm; Milano, Museo d’Arte Antica, Castello Sforzesco, inv. 1092)
Andrea del Verrocchio, Un’eroina antica (Olimpia o Cleopatra) (1461-1464 circa; marmo, 46 x 31 x 6,5 cm; Milano, Museo d’Arte Antica, Castello Sforzesco, inv. 1092)


Bottega di Andrea del Verrocchio, Un’eroina antica (Olimpia o Cleopatra) (anni Sessanta-Settanta del Quattrocento; marmo, 47 x 34 x 10,30 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 923-1900)
Bottega di Andrea del Verrocchio, Un’eroina antica (Olimpia o Cleopatra) (anni Sessanta-Settanta del Quattrocento; marmo, 47 x 34 x 10,30 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 923-1900)


Andrea del Verrocchio, David vittorioso (1468-1470 circa; bronzo con tracce di dorature, 122 x 60 x 58 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Bronzi 450 - testa di Golia e inv. Bronzi 451 - David)
Andrea del Verrocchio, David vittorioso (1468-1470 circa; bronzo con tracce di dorature, 122 x 60 x 58 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Bronzi 450 - testa di Golia e inv. Bronzi 451 - David)

Nella terza sala si comincia a familiarizzare col Verrocchio pittore, argomento per il quale Andrea De Marchi ha messo a punto un percorso che parte con la cosiddetta Madonna 104A dei Musei Statali di Berlino (“104A” è il suo numero d’inventario), posta ad aprire il discorso in quanto si tratta del dipinto che ha goduto dei maggiori consensi presso la comunità scientifica verso una riconosciuta autografia. Il Verrocchio palesa modi che hanno debiti nei confronti di Filippo Lippi (gli atteggiamenti, come quello del Bambino che protende le braccia, l’ovale del volto, la pettinatura, i panneggi, l’eleganza formale), ma è stata posta in risalto anche l’ascendenza fiamminga del paesaggio: a questi valori s’aggiungono le caratteristiche tipiche del Verrocchio pittore, quali il vigoroso e pressoché monumentale plasticismo delle figure e i notevoli brani di virtuosismo (si noti la cura profusa nella resa delle stoffe). Si prosegue con la Madonna 108, anch’essa da Berlino, e la Madonna col Bambino e due angeli della National Gallery, esposte affiancate sulla stessa parete vicine alla 104A: varrà la pena accennare al fatto che qui De Marchi ha voluto rinominare l’opera londinese come Madonna di Volterra, giungendo a elevarla tra le cinque opere capitali del Quattrocento fiorentino (le altre, per il curatore, sono la Trinità di Masaccio, la Pala di San Marco del Beato Angelico, la Pala di Santa Lucia de’ Magnoli di Domenico Veneziano e l’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci). Il proponimento di De Marchi è duplice: da un lato, s’intende fornire alcune risposte al problema del Verrocchio pittore ricostruendone la sua attività, e dall’altro si vuole inquadrare l’esordio d’alcuni grandi artisti della generazione successiva (su tutti il Perugino) sulla scorta dell’iter verrocchiesco. Quanto alla 108, la mostra di Palazzo Strozzi intende riaffermare l’attribuzione al Verrocchio già avanzata da Bernard Berenson, condivisa da Konrad Oberhuber e ribadita da Pietro Scarpellini, e riproporre l’idea di Berenson che la considerava testo fondante per il Perugino (Pietro Vannucci, Città della Pieve, 1450 circa - Fontignano, 1523): l’opera si contraddistingue per l’idea di porre il Bambino in piedi sul davanzale, retto dalla Vergine con le mani che recano quelle dita mosse e contorte che De Marchi morellianamente individua tra le “sigle” dell’artista fiorentino, e che sarà puntualmente ripreso dal Perugino nella Madonna col Bambino del Musée André-Jacquemart di Parigi, sistemata sulla parete opposta (e la cui attribuzione al pittore umbro fu formulata per la prima volta da Berenson, benché non accettata all’unanimità, anzi: anche di recente l’opera ha suscitato discussioni). Una tavola che ricalca la 108 esasperandone il decorativismo, accentuando le rotondità del Bambino fino a donargli un carattere quasi muscolare, abbassando l’orizzonte dello scorcio di paesaggio (che è del tutto simile ai brani paesistici che figurano in altre realizzazioni giovanili di Pietro Vannucci). In merito alla meravigliosa Madonna di Volterra, così detta da De Marchi in quanto nell’Ottocento di proprietà della famiglia Contugi che dimorava nell’antica città toscana, la mostra di Palazzo Strozzi fornisce occasione di ribadire l’attribuzione al Verrocchio, anch’essa per prima avanzata da Berenson negli anni Trenta del secolo scorso: tra i vertici dell’arte fiorentina della seconda metà del Quattrocento, è opera intrisa di sentimento, è manifesto di quella tendenza del Verrocchio a ricondurre entro una dimensione di raffinatissima ma vivida naturalezza le pulsioni idealizzanti tipiche dell’arte del tempo (tutt’altro che sopite: la geometria formale del dipinto parla chiaro), è prova dell’approccio meticoloso con cui l’artista si metteva all’opera, è capolavoro di luce e limpidezza le cui conseguenze si sarebbero avvertite nella produzione dei “creati”.

“Tutti vollero imitare queste sottili capacità illusive e questa nuova eleganza”, sottolinea De Marchi, e le idee del Verrocchio, inizialmente divulgate dal Perugino, si diffusero dapprima in Umbria e quindi fino a Roma e in Abruzzo: dopo un breve passaggio dedicato al Verrocchio frescante, con l’esposizione del San Girolamo dalla chiesa di San Domenico a Pistoia, la sezione seguente della mostra vuole puntualizzare termini e modi di tali propagazioni (o almeno di quelle ch’ebbero luogo a Perugia e dintorni). Si comincia con l’importante prestito di tutte le tavole della cosiddetta “Bottega del ’73”, impresa corale (si tratta delle decorazioni, eseguite nel 1473, della nicchia che ospitava la statua di san Bernardino nella chiesa di San Francesco al Prato di Perugia) cui presero parte diversi notevoli artisti umbri del tempo, con la critica che s’è da sempre interrogata in merito a chi avesse dipinto cosa, sebbene ci sia sostanziale accordo sul fatto che la regia dell’insieme spetti al Perugino. La mostra intende concentrarsi sulle dipendenze delle otto tavole dall’arte del Verrocchio (e di conseguenza, il 1473 diventa data cardine per avanzare la datazione delle prime sue pitture), che evidenziano la loro cultura fiorentina segnatamente nelle storie eseguite direttamente dal Perugino (ovvero il Risanamento dell’ulcerata e il Miracolo del cieco): l’eleganza formale, il culto per l’antichità classica evidente soprattutto nelle architetture (che dialogano in maniera mirabile e coerente tanto col paesaggio quanto con i personaggi, capaci d’animare le scene donando loro spiccati accenti narrativi), i brani di paesaggio (quello che si vede oltre l’arco scorciato in prospettiva centrale nella scena del Risanamento è ripresa quasi pedissequa dalla Madonna col Bambino e due angeli della National Gallery), le atmosfere terse, le pose di alcuni personaggi che rimandano al David, le ombreggiature adoperate per modellare le figure. Alcuni di questi motivi, su tutti la ricchezza dell’apparato decorativo, trovarono terreno fertile nel Pinturicchio (Bernardino di Betto; Perugia, 1456 circa - Siena, 1513), che partecipò all’impresa del 1473: la limpidezza del paesaggio e il gusto per l’antico (evidente nelle decorazioni del parapetto: un gusto che, tuttavia, il Pinturicchio ebbe modo di coltivare e sviluppare soggiornando a Roma) che riscontriamo nelle tavole di san Bernardino si riverberano nella Madonna col Bambino della National Gallery di Londra. Ovviamente la lezione del Verrocchio pittore fu accolta di buon grado anche in Toscana: a Palazzo Strozzi arriva da Edimburgo la Madonna Ruskin di Domenico del Ghirlandaio (Domenico di Tommaso Bigordi; Firenze, 1448 - 1494), dipinta dall’artista poco più che ventenne probabilmente nel momento in cui si trovava a bottega dal Verrocchio e opera dal linearismo che si rifà a quello della Madonna 108 o della Madonna già a Volterra (con la sostanziale differenza che il Ghirlandaio ammorbidisce i profili più incisivi del maestro: è invece del tutto aliena al Verrocchio la singolare ambientazione architettonica), mentre dal Museo Diocesano di Cortona giunge l’imponente Assunzione della Vergine di Bartolomeo della Gatta (Pietro d’Antonio Dei; Firenze, 1448 - Arezzo, 1502), qui ritenuta, sulla falsariga delle considerazioni di Alberto Martini e Luciano Bellosi, opera giovanile del pittore, e considerata tale anche in virtù delle sue ascendenze verrocchiesche (s’insiste sui panneggi taglienti, sulle relazioni tra certe pose e certe espressioni che troverebbero riscontro in opere del maestro, a partire dall’affresco di Pistoia che spiegherebbe i profili dei santi anziani di Bartolomeo della Gatta). Il Ghirlandaio abbonda in sala (con ben tre opere), mentre si registrano le assenze di pittori che pure guardarono al Verrocchio, su tutti Botticelli: per lui un solo dipinto nella sezione precedente, almeno in apparenza più per trovare accordi con la comune fonte lippesca che per sottolineare i debiti verso il Verrocchio da parte di Sandro, che pure è definito da Cecilia Martelli in catalogo come artista che certamente subì “l’ascendente dell’artista allora più in voga a Firenze”.

Ugualmente, per quanto la sala accenni alla diffusione romana e abruzzese del linguaggio pittorico del Verrocchio, tale argomento viene lasciato da parte e Roma torna semmai nella sezione successiva ma, tolta la presenza d’una Natività di Antoniazzo Romano, soprattutto per ragionare sul soggiorno che Andrea di Michele vi trascorse (secondo Caglioti prima del papato di Sisto IV, contrariamente a quanto sostenuto da Vasari) e soprattutto sul tema del suo rapporto con l’antico, che siamo costretti a valutare nell’assenza d’opere realizzate direttamente a Roma: non ce ne sono giunte. Tuttavia, più che tornare su di un argomento cui era già stato fatto cenno nella sala che esponeva i condottieri antichi (in questo senso il Busto di Giuliano de’ Medici è una sorta di straordinaria ripresa, ancorché si tratti di ritratto d’un personaggio contemporaneo: il giovane fratello del Magnifico, brutalmente assassinato durante la congiura dei Pazzi, è stato da Caglioti paragonato a un Alessandro Magno), è interessante comprendere come Roma abbia recepito la scultura verrocchiesca. La mostra prende dunque in esame alcune opere d’un anonimo seguace del maestro, uno scultore d’origini fiorentine transitato per la bottega del Verrocchio e quindi stabilmente a Roma. I suoi due Scudieri dei Musei Capitolini di Roma mescolano un rigoroso classicismo (evidente nella posa) all’esuberanza decorativa del Verrocchio, e dirette emanazioni del maestro sono i frammenti d’architettura che decoravano la facciata di un’abitazione romana in via dell’Arco dei Ginnasi (si noti, in particolare, la Gorgone del tutto simile a quella che compare sulla corazza del Giuliano de’ Medici): lavori che per qualità non sono ascrivibili alla mano del Verrocchio, e per i quali Caglioti in questa sede avanza, seppur con prudenza e punti interrogativi, l’attribuzione a Michele Marini da Fiesole (Fiesole, 1459 - ?), tenuto conto di tutte le difficoltà che comporta l’assegnazione d’un’opera (o d’un gruppo d’opere) a un artista così scarsamente documentato. Altro motivo che, si presume, sarà fonte di discussioni tra gli specialisti.

Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino (1470 o 1475 circa; tempera e olio su tavola, 75,8 x 54,6 cm; Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie, inv. 104A)
Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino (1470 o 1475 circa; tempera e olio su tavola, 75,8 x 54,6 cm; Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie, inv. 104A)


Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino e due angeli (1471-1472 circa; tempera su tavola, 96,5 x 70,5 cm; Londra, The National Gallery, inv. NG296)
Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino e due angeli (1471-1472 circa; tempera su tavola, 96,5 x 70,5 cm; Londra, The National Gallery, inv. NG296)


Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino (1470 circa; tempera su tavola, 75,8 x 47,9 cm; Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie, inv. 10)
Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino (1470 circa; tempera su tavola, 75,8 x 47,9 cm; Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie, inv. 10)


Pietro Perugino, Madonna col Bambino (1470-1471 circa; olio su tavola, 62,3 x 41,4 cm; Parigi, Musée Jacquemart-André, inv. MJAP-P.1830)
Pietro Perugino, Madonna col Bambino (1470-1471 circa; olio su tavola, 62,3 x 41,4 cm; Parigi, Musée Jacquemart-André, inv. MJAP-P.1830)


Pietro Perugino, San Bernardino risana da un'ulcera la figlia di Giovannantonio Petrazio da Rieti (1473; tempera su tavola, 79,1 x 56,9 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. 2)
Pietro Perugino, San Bernardino risana da un’ulcera la figlia di Giovannantonio Petrazio da Rieti (1473; tempera su tavola, 79,1 x 56,9 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. 2)


Domenico del Ghirlandaio, Madonna in adorazione del Bambino nota come Madonna Ruskin (1470 circa; tempera e olio su tela, trasportata da tavola, 106,7 x 76,3 cm; Edimburgo, National Galleries of Scotland, inv. NG 2338)
Domenico del Ghirlandaio, Madonna in adorazione del Bambino nota come Madonna Ruskin (1470 circa; tempera e olio su tela, trasportata da tavola, 106,7 x 76,3 cm; Edimburgo, National Galleries of Scotland, inv. NG 2338)


Pinturicchio, Madonna col Bambino (1475 circa; tempera su tavola, 48,3 x 36,8 cm; Londra, The National Gallery, inv. NG2483)
Pinturicchio, Madonna col Bambino (1475 circa; tempera su tavola, 48,3 x 36,8 cm; Londra, The National Gallery, inv. NG2483)


Bartolomeo della Gatta, Assunzione della Vergine con san Benedetto e santa Scolastica (1473 circa; tempera su tela, 317 x 222 cm; Cortona, Museo Diocesano di Cortona )
Bartolomeo della Gatta, Assunzione della Vergine con san Benedetto e santa Scolastica (1473 circa; tempera su tela, 317 x 222 cm; Cortona, Museo Diocesano di Cortona )


Andrea del Verrocchio, Giuliano di Piero de’ Medici (1475 circa; terracotta, anticamente dipinta, 61 x 66 x 28,3 cm; Washington, National Gallery of Art, Andrew W. Mellon Collection, 1937.1.127)
Andrea del Verrocchio, Giuliano di Piero de’ Medici (1475 circa; terracotta, anticamente dipinta, 61 x 66 x 28,3 cm; Washington, National Gallery of Art, Andrew W. Mellon Collection, 1937.1.127)


Allievo fiorentino di Andrea del Verrocchio attivo a Roma (Michele Marini da Fiesole?), Gorgone (frammento di fregio architettonico; 1485-1495 circa; terracotta dipinta a monocromo, 30 x 37 x 7 cm; Roma, Museo di Roma a Palazzo Braschi, inv. MR 36901)
Allievo fiorentino di Andrea del Verrocchio attivo a Roma (Michele Marini da Fiesole?), Gorgone (frammento di fregio architettonico; 1485-1495 circa; terracotta dipinta a monocromo, 30 x 37 x 7 cm; Roma, Museo di Roma a Palazzo Braschi, inv. MR 36901)


Allievo fiorentino di Andrea del Verrocchio attivo a Roma (Michele Marini da Fiesole?), Due scudieri (1485-1495 circa; bronzo, 46,5 x 19,5 x 8 cm lo Scudiero di sinistra, 46 x 19,5 x 8 cm lo Scudiero di destra; Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, Appartamento dei Conservatori, Sala dei Trionfi o dello Spinario, invv. S1168 e S1172)
Allievo fiorentino di Andrea del Verrocchio attivo a Roma (Michele Marini da Fiesole?), Due scudieri (1485-1495 circa; bronzo, 46,5 x 19,5 x 8 cm lo Scudiero di sinistra, 46 x 19,5 x 8 cm lo Scudiero di destra; Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, Appartamento dei Conservatori, Sala dei Trionfi o dello Spinario, invv. S1168 e S1172)

Un allestimento minimal introduce alla settima sezione, dov’è presentato il Putto col delfino (o Spiritello con pesce, titolazione con cui l’opera viene introdotta in mostra) restaurato in vista dell’esposizione, e che può esser considerata una sorta di prosecuzione della sala precedente, benché qui il rapporto con l’antico sia letto in riferimento all’arte di Donatello: lo Spiritello riprende un soggetto largamente frequentato dal grande scultore (si pensi al Putto danzante del Bargello per rimanere sulle opere in bronzo, oppure, volendo spaziare, ai putti del Pulpito di Prato: e di putti in movimento è ricco un foglio in arrivo dal Département des Arts Graphiques del Louvre posto al centro della sala, e sul cui retro figura un’ode in latino che celebra il Verrocchio come l’autore del monumento a Bartolomeo Colleoni, il grande capolavoro della sua maturità), che era tipico della statuaria antica e che il Verrocchio riprende infondendogli una nuova, gioiosa, vivacissima naturalezza, che in mostra è appaiata a quella, tenerissima, del Bambino di Desiderio da Settignano, che in quanto soave specialista dei ritratti infantili è considerato immediato precedente per la scultura verrocchiesca. È da rilevare il fatto che putti come quelli eseguiti dal Verrocchio venissero destinati alla decorazione di fontane monumentali, e Andrea di Michele a Palazzo Strozzi viene introdotto anche come artista che contribuì a dar forma al più riconosciuto e tipico canone per le fontane all’antica. Dalle imprese per i Medici (pur in assenza di documenti è del tutto probabile che la committenza dello Spiritello sia, appunto, medicea) si passa a quelle per Pistoia, una in pittura (la Madonna di Piazza) e una in scultura (il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri). Ci si trova nella fase matura dell’arte del Verrocchio, nella seconda metà degli anni Settanta del Quattrocento: tuttavia la difficoltà, rimarca Caglioti, sta nel fatto che se in mostra si può puntualmente dar conto del livello cui in pittura era giunto il Verrocchio all’epoca (la Madonna di Piazza è stata infatti concessa in prestito dalla Cattedrale di Pistoia ed è presente in mostra, eccezionalmente riunita alle due tavolette di Lorenzo di Credi identificate come pannelli della predella), per la scultura occorre contentarsi dei modelli. Partendo da questi ultimi, la rassegna porta a Palazzo Strozzi sia il modelletto del cenotafio intero, realizzato in terracotta e proveniente dal Victoria and Albert Museum, sia i modelli intermedi dei due angeli volanti, dal Louvre: il cenotafio è opera in cui il Verrocchio raggiunge un’inusuale spettacolarità, che risalta anche dalla terracotta, nella quale “plasmata con rapidità inusitata, la materia brulica di eccitazione e nel modellato dei panni rende gli stessi effetti di volume e di luce che troviamo nelle esercitazioni grafiche di Andrea” (Gabriele Fattorini). Della Madonna di Piazza realizzata, com’è stato ormai chiarito da decennî, con la collaborazione del grande allievo Lorenzo di Credi (Lorenzo d’Andrea d’Oderigo; Firenze, 1457 circa - 1537), responsabile di quello che De Marchi ritiene un “raggelamento” del “fremito vitale delle figure disegnate da Verrocchio” per via dell’accuratissima levigatezza cui il giovane pittore sottopone le superfici, si sottolinea come l’impianto della composizione, ideato dal Verrocchio (e dove le stesse figure dei santi paion quasi esser parte della struttura architettonica), ne risulti comunque intatto in tutta la sua nuova monumentalità, segno evidente delle soluzioni che il maestro andava sperimentando in quel periodo.

Da segnalare in sala anche l’importante presenza (che passa però un poco in sordina data la sua sistemazione forse non proprio felicissima) della Madonna Dreyfus, dipinto la cui attribuzione è ancora fortemente discussa, con gli studiosi che si sono divisi sostanzialmente su due fronti: da una parte chi la ritiene opera di Leonardo da Vinci (per primo fu Wilhelm Suida, poi seguito da altri, soprattutto studiosi d’area italiana, come Giovanni Previtali, Gigetta Dalli Regoli, e Pietro C. Marani, che ha riconfermato le proprie convinzioni anche alla grande mostra di Palazzo Reale del 2015) e chi invece di Lorenzo di Credi (un’ipotesi che trova riscontro soprattutto in area anglosassone, a partire da Bernard Berenson, poi con Everett Fahy, David A. Brown, Anna Ruehl). Chi tende ad assegnare la Madonna Dreyfus a Leonardo ne sottolinea la distanza dall’usuale freddezza di Lorenzo di Credi e, al contrario, la parentela con le opere giovanili dell’artista di Vinci nei termini d’una vivacità e d’un’armonia coloristica che ben s’accorda a lavori come la Ginevra de’ Benci (tutti elementi di nuovo sottolineati da Marani quattro anni fa): in questa sede, Andrea De Marchi rileva affinità con l’Annunciazione di Lorenzo di Credi al Louvre (in passato peraltro attribuita in toto a Leonardo) e divergenze nei confronti delle opere leonardiane (“la natura di verdi declivi e alberi tondeggianti”, scrive il curatore, è “estranea alla mente di Leonardo”) per ritenerla “attribuibile” a Lorenzo di Credi. La Madonna Dreyfus apre all’ultima sala in Palazzo Strozzi, quella in cui il rapporto tra Verrocchio e Leonardo torna nel confronto tra gli studî su tela di lino, opere nelle quali, racconta De Marchi, “maestro e allievo si sfidarono nel catturare l’effetto della luce sui panni, simulato con stoffe bagnate plasmate su manichini”, dando vita a superfici monocrome che “si animano di continuo nel gioco trascorrente della luce, nei lini di Verrocchio con un intarsio più cristallino, in quelli di Leonardo con lustri setosi e trapassi più sfumati” (diversi sono i lini esposti). Ma non è un azzardo affermare che il pubblico non sia tanto interessato da questi aspetti, quanto dal coup de théâtre con cui i due curatori chiudono la prima parte di mostra: la Madonna col Bambino in terracotta del Victoria and Albert Museum, che Caglioti, con fare sicuro e stavolta senza punti interrogativi, assegna a Leonardo da Vinci (e di cui si dirà meglio più sotto).

La rassegna si conclude nelle due sale al pianterreno del Museo del Bargello: nella prima giganteggia l’Incredulità di san Tommaso, fondamentale capolavoro verrocchiesco commissionato per la nicchia del Tribunale della Mercanzia (la più importante) della chiesa di Orsanmichele a Firenze e svelato nel 1483 (benché il primo pagamento risalisse a ben sedici anni prima): lo straordinario bronzo è esposto soprattutto per dar conto della fortuna ch’ebbe la nuova formulazione del volto di Gesù da parte del Verrocchio (con l’espressione pacata e quasi serafica e il viso stretto tra una cascata di riccioli con scriminatura sul capo), come attestano le terrecotte d’artisti come Pietro Torrigiani (Firenze, 1472 - Siviglia, 1528) o di Agnolo di Polo de’ Vetri (Firenze, 1470 - Arezzo, 1528), che anche a distanza di molti anni (almeno una dozzina se si prende come riferimento la data dell’inaugurazione dell’Incredulità, ma certamente di più se si considera che la figura del Salvatore fu quella terminata per prima e che le novità verrocchiesche avevano già preso a circolare). La chiusura del sipario è affidata, nell’ultima sala, ai Cristi del Verrocchio e alla loro fortuna. Qui, il Crocifisso del Bargello, realizzato assieme alla bottega e che gli è stato assegnato di recente (da Beatrice Paolozzi Strozzi nel 2004), è posto a dialogo con i Cristi morbidi e raffinati di Benedetto da Maiano (Maiano, 1441 - Firenze, 1497), con quelli sanguigni e nerboruti di Giuliano da Sangallo (Giuliano di Francesco Giamberti; Firenze, 1443/1445 - 1516) e con quelli più delicati di Andrea Ferrucci (Fiesole, 1465 circa - Firenze, 1526): è con tali esiti che la mostra congeda il pubblico avviandolo sulla strada che avrebbe condotto a Michelangelo.

Andrea del Verrocchio, Spiritello con pesce o Putto col delfino (1470-1475 circa; bronzo, 70,3 x 50,5 x 35 cm; Firenze, Musei Civici Fiorentini-Museo di Palazzo Vecchio, inv. MCF-PV 2004-10615). Il restauro dell’opera è stato reso possibile grazie al generoso contributo di Friends of Florence
Andrea del Verrocchio, Spiritello con pesce o Putto col delfino (1470-1475 circa; bronzo, 70,3 x 50,5 x 35 cm; Firenze, Musei Civici Fiorentini-Museo di Palazzo Vecchio, inv. MCF-PV 2004-10615). Il restauro dell’opera è stato reso possibile grazie al generoso contributo di Friends of Florence


Desiderio da Settignano, Bambino (1455-1460 circa; marmo, 30,5 x 26,5 x 16,3 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, 1943.4.94)
Desiderio da Settignano, Bambino (1455-1460 circa; marmo, 30,5 x 26,5 x 16,3 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, 1943.4.94)


Andrea del Verrocchio, Modelletto per il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri nella Cattedrale di Pistoia (1476 circa; terracotta, 44,6 x 31,8 x 8,5 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 7599-186)
Andrea del Verrocchio, Modelletto per il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri nella Cattedrale di Pistoia (1476 circa; terracotta, 44,6 x 31,8 x 8,5 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 7599-186)


Andrea del Verrocchio e bottega, Angeli volanti (Angeli Thiers), modelli intermedi per il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri nella Cattedrale di Pistoia (?) (1480-1483 circa; terracotta, 36,5 x 32,8 x 5,5 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures, inv. TH 33; 37 x 34 x 4,5 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures, inv. TH 34)
Andrea del Verrocchio e bottega, Angeli volanti (Angeli Thiers), modelli intermedi per il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri nella Cattedrale di Pistoia (?) (1480-1483 circa; terracotta, 36,5 x 32,8 x 5,5 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures, inv. TH 33; 37 x 34 x 4,5 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures, inv. TH 34)


Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi, Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista e san Donato d’Arezzo nota come Madonna di Piazza (1475-1486 circa; olio su tavola, 196 x 196 cm; Pistoia, Cattedrale di San Zeno)
Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi, Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista e san Donato d’Arezzo nota come Madonna di Piazza (1475-1486 circa; olio su tavola, 196 x 196 cm; Pistoia, Cattedrale di San Zeno)


Lorenzo di Credi, Annunciazione (1476 circa; olio su tavola, 16,2 x 60,7 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, inv. M.I. 59)
Lorenzo di Credi, Annunciazione (1476 circa; olio su tavola, 16,2 x 60,7 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, inv. M.I. 59)


Lorenzo di Credi o Leonardo da Vinci, Madonna col Bambino nota come Madonna Dreyfus (1478-1480 circa; olio su tavola, 16,5 x 13,4 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. 1952.5.6)
Lorenzo di Credi o Leonardo da Vinci, Madonna col Bambino nota come Madonna Dreyfus (1478-1480 circa; olio su tavola, 16,5 x 13,4 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. 1952.5.6)


Leonardo da Vinci, Panneggio d’una figura inginocchiata, vista di profilo (1470-1475 circa; acquarellature marroni, tempera grigia e biacca su tela di lino preparata in colore grigio-bruno, 181 x 234. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. 225)
Leonardo da Vinci, Panneggio d’una figura inginocchiata, vista di profilo (1470-1475 circa; acquarellature marroni, tempera grigia e biacca su tela di lino preparata in colore grigio-bruno, 181 x 234. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. 225)


Andrea del Verrocchio, Panneggio di una figura barbuta in piedi, vista di tre quarti (1470-1475 circa; acquarellature grigio-brune, tempera grigia e biacca su tela di lino preparata in colore grigio-bruno, 315 x 203 cm; Rennes, Musée des Beaux-Arts de Rennes, inv. 794.1.2507)
Andrea del Verrocchio, Panneggio di una figura barbuta in piedi, vista di tre quarti (1470-1475 circa; acquarellature grigio-brune, tempera grigia e biacca su tela di lino preparata in colore grigio-bruno, 315 x 203 cm; Rennes, Musée des Beaux-Arts de Rennes, inv. 794.1.2507)


Leonardo da Vinci?, Madonna col Bambino (1472 circa; terracotta, 49 x 27 x 24,5 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 4495-1858)
Leonardo da Vinci?, Madonna col Bambino (1472 circa; terracotta, 49 x 27 x 24,5 cm; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 4495-1858)


Andrea del Verrocchio, Incredulità di san Tommaso (1467-1483; bronzo con dorature, 241 x 140 x 105 cm; Firenze, Chiesa e Museo di Orsanmichele, dal tabernacolo dell’Università della Mercanzia)
Andrea del Verrocchio, Incredulità di san Tommaso (1467-1483; bronzo con dorature, 241 x 140 x 105 cm; Firenze, Chiesa e Museo di Orsanmichele, dal tabernacolo dell’Università della Mercanzia)


Pietro Torrigiani, Cristo salvatore (1492-1495 circa; terracotta dipinta, 54 x 60 x 33 cm; Firenze, Monastero di Santa Trìnita)
Pietro Torrigiani, Cristo salvatore (1492-1495 circa; terracotta dipinta, 54 x 60 x 33 cm; Firenze, Monastero di Santa Trìnita)


Agnolo di Polo de’ Vetri, Cristo salvatore (1498; terracotta dipinta, 72 x 74,5 x 42 cm con la mano destra, rifatta in legno, 72 x 63,5 x 31,5 cm senza la mano destra; Pistoia, Museo Civico, inv. 1975, 5)
Agnolo di Polo de’ Vetri, Cristo salvatore (1498; terracotta dipinta, 72 x 74,5 x 42 cm con la mano destra, rifatta in legno, 72 x 63,5 x 31,5 cm senza la mano destra; Pistoia, Museo Civico, inv. 1975, 5)


Andrea del Verrocchio e collaboratori, Crocifisso (1475 circa; legno intagliato, sughero, gesso e lino dipinti su croce non originale, braccia rifatte, altezza Cristo 98 x 103 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Depositi 60, in deposito dalla Venerabile Confraternita di San Girolamo e di San Francesco Poverino)
Andrea del Verrocchio e collaboratori, Crocifisso (1475 circa; legno intagliato, sughero, gesso e lino dipinti su croce non originale, braccia rifatte, altezza Cristo 98 x 103 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Depositi 60, in deposito dalla Venerabile Confraternita di San Girolamo e di San Francesco Poverino)

Per qualità e completezza, Verrocchio. Il maestro di Leonardo si può sicuramente annoverare tra gli eventi più ragguardevoli dell’anno e la si può collocare tra le migliori mostre di Palazzo Strozzi dell’ultimo decennio. Quattro anni di lavoro hanno prodotto una mostra di sicuro impatto, sia sul pubblico che sugli studî, e che vede nelle attribuzioni uno dei suoi focus principali. S’è accennato sopra all’idea che ha scatenato gli entusiasmi della stampa generalista, ovvero l’assegnazione alla mano di Leonardo della terracotta del Victoria and Albert Museum: è opportuno specificare che l’ipotesi, che ha origini lontane (l’avanzò per primo Claude Phillips nel 1899, seguito da numerosi altri, salvo poi essere provvisoriamente accantonata a seguito del granitico parere di John Pope-Hennessy che nel 1964 dava la statuetta ad Antonio Rossellino), era già stata rilanciata dallo stesso Caglioti in occasione della mostra su Matteo Civitali a Lucca nel 2004. Si tratta dunque d’uno spunto ben noto alla critica, che a seguito del “ritorno” del 2004 ha fornito pareri contrastanti (per esempio, è stata accolta da Edoardo Villata e invece rigettata o quanto meno fortemente ridimensionata da Maria Teresa Fiorio, che nel 2015 ci ha rimessi all’obbligo della prudenza parlando di “una scultura legata alla circolazione di modelli verrocchieschi e quindi partecipe di un clima e di una cultura largamente diffusi”). Caglioti basa la sua attribuzione su alcuni elementi come il sorriso della Vergine, il modellato delle mani, il drappeggio simile a quello dell’Annunciazione degli Uffizi o di alcuni lini leonardiani esposti in sala: impossibile negare che l’ipotesi sia affascinante, ma mai come in casi simili ci si sente di dire che la discussione è aperta (se n’è parlato anche su queste pagine ). Neppure è unico il tentativo d’assegnare opere fittili a Leonardo: un precedente, peraltro esposto in mostra, riguarda l’angelo di destra del modello per il Cenotafio Forteguerri, attribuito al giovane artista di Vinci, giusto per enumerare i casi più recenti, da Villata (2013) e Fiorio (2015). Perciò, chi ha una certa familiarità con l’argomento certo non si sarà stupito: la principale novità è che il dibattito ha momentaneamente lasciato le stanze degli studiosi ed è uscito a incontrare il grande pubblico.

Al di là delle questioni attributive (ma è comunque impossibile non tenerne conto, dacché uno degli obiettivi della mostra è quello di fornire un orientamento critico in grado d’avanzare o affermare nomi), l’impianto dell’esposizione appare ben congegnato, il percorso coinvolgente e calibrato con misura e accortezza (caratteristiche che connotano anche il corposo catalogo: due soli saggi introduttivi, e il grosso della trattazione affidato alle schede delle opere), il progetto capace di garantire un’approfondita monografica a un artista fondamentale, al quale per troppo tempo non era stato concesso l’onore d’una mostra a lui interamente dedicata. La lacuna è stata colmata: sarà ora interessante comprendere in quali modi gli studî sul Rinascimento avvertiranno il peso di questa importante rassegna.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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