Solo negli ultimi vent’anni si son contate, in Italia, nove mostre dedicate a vario titolo a Vasilij Kandinskij, senza menzionare le occasioni espositive costruite coi suoi multipli, o quelle dove il nome del grande astrattista è stato inserito nel titolo di rassegne che indagavano un periodo o un movimento artistico, con la consueta formula “da questo a quello”. Artista dalla solida e duratura fortuna espositiva, dunque. Una fortuna che si spiega col gradimento che le sue opere riscuotono presso il grande pubblico: il suo nome, ovviamente ben noto anche al di fuori della cerchia degli appassionati, può esser paragonato, in termini di capacità attrattiva, a quello degli impressionisti, di Frida Kahlo, di Chagall, giusto per limitarsi ad artisti ch’è difficile non trovare nei palinsesti annuali dei nostri musei. Per inquadrare allora la decima mostra italiana su Kandinskij dell’ultimo ventennio, quella che Paolo Bolpagni ed Evgenija Petrova hanno allestito nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo (il titolo, di sorprendente semplicità, è Kandinskij. L’opera 1900-1940), non si può prescindere dal contestualizzare l’esposizione veneta nel quadro della storia delle recenti mostre su Kandinskij: è operazione necessaria per individuare similarità e novità.
Scorrendo la storia espositiva di Kandinskij in Italia, si noterà che diverse rassegne son state costruite con nuclei d’opere provenienti da un’unica raccolta. Risalendo sino al 2003, fu così per Kandinsky e l’avventura astratta, che alla Villa Manin di Passariano esponeva più d’un centinaio di lavori della Fondazione Guggenheim. Stesso discorso per Kandinsky e l’anima russa, tenutasi tra il 2004 e il 2005 alla Galleria d’Arte Moderna “Achille Forti” di Verona: le opere giungevano in prestito, in blocco, dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, e più che d’una mostra monografica su Kandinskij, malgrado il titolo, si trattava d’un percorso sulla storia dell’arte russa dalla fine della seconda metà dell’Ottocento sino agli anni Trenta all’incirca. Più chirurgica Wassily Kandinsky e l’astrattismo in Italia 1930-1950 del 2007, la mostra che Milano, a sessant’anni di distanza dall’ultima mostra in città su Kandinskij, organizzava per indagare i riflessi della lezione dell’artista di Mosca sugli astrattisti italiani. Piccola e raffinata la mostra del MAR di Aosta del 2012, Wassily Kandinsky e l’arte astratta tra Italia e Francia: Alberto Fiz radunava una quarantina d’opere d’artisti francesi e italiani contemporanei di Kandinskij per esplorare, di nuovo, come il lascito del maestro russo si fosse diffuso alle nostre latitudini. La mostra che più s’avvicina a quella di Rovigo (si giovava peraltro della stessa curatrice, Evgenija Petrova) è Wassily Kandinsky. Dalla Russia all’Europa (a Pisa, Palazzo Blu, tra il 2012 e il 2013), che prendeva in esame i primi vent’anni della carriera dell’artista, con opere dal Museo di Stato Russo e altri istituti. Di nuovo a Milano, tra il 2013 e il 2014, Wassily Kandinsky predisponeva un percorso dagli esordî fino agli anni Trenta, che s’avvaleva unicamente delle opere del Centre Pompidou. Ancora Evgenija Petrova curava, nel 2014, la rassegna Wassily Kandinsky – L’artista come sciamano, al Centro Arca di Vercelli, con un ventina di opere da otto musei russi, assieme a lavori di altri avanguardisti, per dar vita a un focus sugli anni tra il 1901 e il 1922, ovvero dall’avvio della carriera fino all’abbandono definitivo della Russia, lo stesso periodo preso in esame dalla rassegna pisana dell’anno prima. Dedicate a temi specifici le ultime due mostre: Kandinskij, il cavaliere errante, al Mudec nel 2017 con la curatela di Silvia Burini, s’è concentrata sul percorso di Kandinskij verso l’astrazione, mentre Kandinsky->Cage: Musica e Spirituale nell’Arte, a Palazzo Magnani, Reggio Emilia, tra il 2017 e il 2018, è stata un approfondimento, curato da Martina Mazzotta, sulle relazioni tra pittura e musica.
Ripercorrendo le tappe che hanno accompagnato la fortuna di Kandinskij in Italia negli ultimi vent’anni risulta dunque già chiaro il carattere di novità del progetto di Bolpagni e Petrova che, oltre a essere uno dei pochi (ulteriore nota di merito) che in tutti i testi adotta la trascrizione scientifica dal cirillico invece di quella anglossasone ch’è sempre andata per la maggiore, s’è anche dimostrato il più vario e completo, forte d’un allestimento fresco e coinvolgente, dotato di apparati chiari (nonostante la difficoltà insita in qualsiasi mostra su Kandinskij: il rischio di esporsi a eccessive banalizzazioni da un lato, e dall’altro il pericolo di ordinare un itinerario di visita troppo ponderoso e faticoso), e sostenuto da un progetto scientifico apparentemente semplice e passibile di cadere nel déjà-vu (“cogliere l’arco unitario del percorso dell’artista individuandone le costanti che, dai primi anni del Novecento sino alla fine, innervano il suo modo personalissimo di dipingere”, avevano dichiarato i curatori prima che la mostra s’aprisse), ma puntuale e dalle basi ben solide, e sostenuto da una selezione che evita la pedanteria e che, per ognuna delle fasi dell’arte di Kandinskij, propone al pubblico un nucleo ristretto di opere, ma decisamente significativo. Mancano alcuni lavori fondanti, come il Primo acquerello astratto del Pompidou o l’Impressione III (Concerto) della Lenbachhaus di Monaco di Baviera, ma lo spirito di certi capisaldi vien comunque ben evocato dalla presenza di opere di qualità.
Sebbene, lo s’è ricordato, tutti abbiano sentito nominare Kandinskij almeno una volta, non così noto è invece il fatto che la sua carriera sia iniziata molto tardi, a trent’anni esatti, ovvero a un’età in cui all’epoca s’era ritenuti uomini fatti, con una precisa e solida posizione nella società: nel 1896, dopo una laurea in giurisprudenza e una carriera universitaria in ascesa (faceva il ricercatore), Kandinskij decise d’abbandonare il suo lavoro e il suo paese per inseguire il sogno dell’arte, che coltivava fin da bambino, da dilettante. In un suo scritto del 1913, Sguardi sul passato, pubblicato a seguito delle polemiche che avevano investito le sue prime opere astratte (e proposto integralmente in appendice nel catalogo della mostra), il pittore aveva ripercorso le tappe della sua iniziazione all’arte. Nove i momenti fondanti, riassunti con dovizia nel saggio di Philippe Sers in catalogo: centrale, nel 1886, la contemplazione d’un tramonto su Mosca, folgorante l’incontro con i Covoni di Monet nel 1896 durante una mostra sugli impressionisti nella capitale russa, rivelatrice la visione dei colori delle case contadine nell’oblast di Vologda, cinquecento chilometri a nord di Mosca, visitato durante un viaggio di lavoro durato un mese, all’epoca in cui l’artista ancora faceva il ricercatore (fu incaricato di recarsi in quella regione remota per studiare il diritto delle popolazioni che lì abitavano). È da questo viaggio che comincia il racconto della mostra: oggetti d’uso quotidiano, piccoli giocattoli, stampe popolari (lubki), icone (di cui il pittore fu pure collezionista), tessuti, pezzi d’artigianato accolgono il pubblico per ricreare l’atmosfera che dovette accompagnare Kandinskij nel suo viaggio tra le campagne della regione di Vologda, e che tanto lo ispirarono, dacché i suoi taccuini son pieni d’appunti su ciò che vide. La mostra di Rovigo offre la rara occasione d’ammirare un’opera che si può collocare in un periodo molto vicino alla decisione di Kandinskij di dedicarsi in via esclusiva all’arte: s’intitola A Pasqua e la si trova subito in apertura, vicino a un’opera leggermente più tarda, Domenica (Vecchia Russia), in prestito dal museo Boijmans van Beunigen di Rotterdam. Il primo dipinto, in uno stile vicino a quello dei Nabis, trasmette fin da subito quel senso di spiritualità che sempre avrebbe accompagnato l’arte di Kandinskij (“la convinzione profondissima che nella vita, come nell’arte”, scrive Evgenija Petrova, “l’anima, lo spirituale, la sensibilità debbano avere la precedenza sulla materialità dava forma alla sua concezione del mondo”), mentre il secondo, che trova i suoi riferimenti nel pointillisme di artisti francesi come Léo Gausson e Théo van Rysselberghe, rivela la passione dell’artista per gli usi e le tradizioni delle popolazioni della Russia, altro interesse che avrebbe seguitato a permeare la sua pittura.
Ecco, dunque, le esperienze del primo Kandinskij, che terminata la sua carriera da ricercatore in legge lascia la Russia e si trasferisce a Monaco di Baviera per approfondire lo studio della pittura, dapprima con Anton Ažbe e poi con Franz von Stuck. L’interesse per la tradizione, per le fiabe e per le leggende russe è al centro della sua pittura, come dimostra l’album delle Xylographies pubblicato nel 1909 (ma in realtà eseguito due anni prima), una raccolta di motivi fiabeschi, personaggi e piccoli paesaggi dove la semplificazione formale prelude al passaggio verso l’astrattismo, con le figure ormai ridotte all’essenziale lasciando presagire che di lì a poco le sensazioni sperimentate dinnanzi al reale si tramuteranno in note di colore (lo stesso Kandinskij, del resto, paragonava l’incisione alla musica, dal momento che una xilografia presupponeva che l’artista facesse emergere il “suono interiore” dei soggetti). Di sommo interesse sono poi alcuni paesaggi, dipinti su tavolette di compensato, che offrono un’ulteriore testimonianza del Kandinskij degli esordî, un pittore che guarda con vivo interesse alla pittura post-impressionista. Nelle prime due sale han già preso forma due temi portanti della rassegna, ovvero lo spirituale e l’interesse per le arti popolari: l’idea di base della rassegna, del resto, è anzitutto quella d’indagare le fonti dell’atteggiamento di Kandinskij dinnanzi alla pittura.
La sezione successiva della rassegna indaga il periodo di Murnau e del “Cavaliere Azzurro” (Der Blaue Reiter). Nel 1908, dopo aver cominciato a cogliere i primi successi (nel 1904 espose anche al Salon d’Automne di Parigi), acquistò una casa nella cittadina di Murnau, in Baviera, e nello stesso giro d’anni ebbe modo di conoscere e frequentare Gabriele Münter, che fu per qualche tempo anche la sua compagna di vita. Risale invece al 1911 l’avvio dell’attività del gruppo del Cavaliere Azzurro, con la prima mostra, aperta il 18 dicembre di quell’anno, alla galleria Thannhauser di Monaco di Baviera. Tre soli sono i paesaggi del periodo di Murnau in mostra, ma tutti rilevanti per comunicare al pubblico gli sviluppi dell’arte di Kandinskij che approda a una nuova veduta, una veduta interiore, che trasfigura nel paesaggio uno stato d’animo, anche se con mezzi diversi rispetto a quanto avevano fatto una ventina d’anni prima i simbolisti, i pittori del paysage-état d’âme: Kandinskij s’esprime attraverso campiture piene di colore puro, come la grande lama rossa che vediamo al centro di Muro rosso. Destino, opera del 1909 che giunge dalla Galleria d’Arte Statale “Dogadin” di Astrakhan, fondamentale dipinto che, scriveva lo storico dell’arte esperto d’avanguardie russe John Bowlt, costituiva una sorta di risposta alle forme delle cupole delle chiese russe, che s’ammirano sullo sfondo del dipinto, integrando espressionismo, fauvismo e neo-espressionismo. Predomina invece il blu in Murnau. Paesaggio estivo, dove colori accesi e linee curve comunicano una sensazione di letizia, di buona disposizione d’animo. Era, del resto, una “necessità interiore” (un principio che, lo si vedrà più avanti, è alla base dell’arte di Kandinskij) quella che aveva portato alla nascita del gruppo Der Blaue Reiter, come attesta il dattiloscritto originale, i cui quattro fogli son tutti esposti a Rovigo, che Kandinskij e Franz Marc avevano preparato per presentare il loro programmatico Almanacco, raccolta di opere e scritti degli artisti del movimento e di quanti li ispirarono. “Al tempo della pseudo-stagione fiorita, del grande trionfo del materialismo nel secolo appena trascorso”, scriveva Kandinskij, “sono nati, quasi inavvertiti, i primi elementi nuovi dell’atmosfera spirituale, che alimentano e alimenteranno il fiorire dello Spirituale”. In mostra s’ammira un dipinto assurto a manifesto di questa stagione, il celeberrimo Cavaliere della Galleria Tret’jakov di mostra, in realtà un san Giorgio che si scaglia con la sua lancia contro il drago per salvare la principessa, vestita in abiti tradizionali: sorta di alter ego dell’artista, san Giorgio è l’eroe del messaggio catartico di Kandinskij, la metafora di questa “missione salvifica del cavaliere e dello sciamano”, per adoperare le parole di Jolanda Nigro Covre, un’immagine che l’artista trae dal repertorio tradizionale della sua terra e carica d’inediti significati. Chiudono il cerchio, nella sala, le opere di Gabriele Münter, di Marianne von Werefkin, di Alexej von Jawlensky e di Paul Klee per rievocare, anche solo parzialmente, lo spirito che aleggiava su quella compagine d’artisti così innovativa.
Il percorso verso l’astrattismo, saldamente raggiunto tra il 1910 e il 1912, è l’oggetto della sezione seguente, che espone quattro opere eseguite nello stesso torno d’anni per dar conto al pubblico del processo che conduce verso una sempre maggior stilizzazione, che parte da un’impressione (una sortita sul lago, per esempio: è il caso di Una gita in barca, altra opera in prestito dalla Galleria Tret’jakov dove il paesaggio è uno spartito dai toni scuri che offrono la suggestione dell’acqua, del cielo e della costa, con veloci note bianche in cui riconosciamo le sagome delle barche coi rematori) e conduce a una pittura in cui colori e forme sono svincolati da qualsiasi funzione rappresentativa: servono per evocare sensazioni, suoni, stati d’animo, passando dalla sinfonia di Non oggettivo, dal Museo d’Arte Regionale “Kovalenko” di Krasnodar, ai forti contrasti tra sentimenti opposti evocati da Macchia nera I, altra opera del 1912 dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo. La mostra di Rovigo cerca costantemente di risalire alle scaturigini dell’ispirazione di Kandinskij, e in questo processo la musica assume un ruolo determinante, come del resto è noto a chiunque abbia approfondito l’opera dell’astrattista russo. La musica, scriveva Kandinskij nel celebre saggio Lo spirituale nell’arte dato alle stampe nel dicembre del 1911, è una forma d’arte che “già da alcuni secoli non utilizza i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali, ma per esprimere la vita psichica dell’artista”, e di conseguenza, scrive il curatore Bolpagni, “potrà servire da modello alle altre arti, in particolare alla pittura, che dovrà appunto affrancarsi dalla mimesi e rispondere al principio della necessità interiore”. Ogni sensazione corrisponde a un colore, a una forma, a un suono, secondo legami e relazioni stabilite da questa “necessità interiore”: il colore, in particolare, “è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima”, scriveva Kandinskij. “Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel taso, mette opportunamente in vibrazione l’anima umana. È chiaro pertanto che l’armonia dei colori deve fondarsi solo sul principio della giusta stimolazione dell’anima umana. Questa base dev’essere designata il principio della necessità interiore”.
Decisivo fu l’incontro con la musica del compositore austriaco Arnold Schönberg: Kandinskij assistette per la prima volta all’esecuzione d’un suo concerto il 2 gennaio del 1911, e l’esperienza fu tanto fulminante da indurlo a scrivere a Schönberg e a instaurare con lui un durevole rapporto d’amicizia (la mostra non trascura questo legame, rievocato anche dalla presenza di alcune opere di Schönberg, che si dilettava con la pittura). Come Schönberg, con le sue dissonanze, aveva sovvertito le regole della musica classica, lo stesso si proponeva di fare Kandinskij con le sue improvvisazioni, con le sue composizioni. Nel 1914, al rientro in Russia, l’artista trascorse alcuni anni a promuovere anche nel suo paese le novità della sua arte, e la rassegna dedica una sala intera a ciò che l’artista produsse tra l’anno del suo ritorno e il 1922, anno in cui Kandinskij, ostracizzato dall’ambiente culturale russo, più incline ad assecondare l’arte dei costruttivisti in quanto più in linea coi desiderata del regime, decide di lasciare definitivamente la sua terra natale per tornare in Germania. In questo periodo, Kandinskij lavora soprattutto sulle “composizioni”, ritenendo importante la sua permanenza a Mosca che, scrive Silvia Burini nel suo saggio in catalogo, per l’artista “è sempre collegata a una sensazione materna e avvolgente, da un lato, ma anche, dall’altro, si scopre fonte di una sorta di dissonante armonia”. Le “caratteristiche contraddittorie” (questa l’espressione usata da Kandinskij in Sguardi sul passato) della capitale russa sono alla base di molti dipinti che cercano d’esprimere queste sensazioni, passando dal turbinio della Composizione del Museo delle Tradizioni Locali di Tjumen’, con l’andamento circolare che si ritrova in diverse opere di questo periodo, quasi a rievocare la sicurezza d’un abbraccio, all’esplosione su fondo scuro del Crepuscolo del Museo di Stato Russo, opera del 1917 che evoca la sensazioni provate di fronte allo spettacolo del tramonto. Tra i vertici della produzione “musicale” di Kandinskij di questi anni è possibile includere anche un’opera come la Cresta azzurra, una specie di paesaggio interiore costruito con note molto contrastanti e dissonanti, con note gialle e rosse, accese e vivaci, che cercano d’incunearsi su di un solenne spartito blu, dando vita a una profonda antitesi. Una piccola sala è invece dedicata alla raffinata e divertente produzione su vetro di Kandinskij del 1918: piccoli olî dedicati alle fiabe russe (“bagatelle”, li chiamano Bolpagni e Petrova nel catalogo), che segnano un ritorno al figurativismo (o, ancor meglio, vanno forse intesi come un impegno a proseguire l’approfondimento d’un interesse che non abbandonò mai Kandinskij) e che trasportano il riguardante in un mondo onirico, quasi infantile. Una presenza importante in mostra poiché testimonia quanto versatile e tutt’altro che monolitico sia stato il percorso di Kandinskij, artista cui piaceva spesso cambiare direzione.
Poco prima di lasciare la Russia, Kandinskij, nel 1920, dipinse Sul Bianco I, opera che anticipa alcune tendenze che saranno proprie del periodo successivo, indagato nelle ultime due sale della rassegna rodigina: la tendenza alla geometrizzazione (compare anche una scacchiera), l’utilizzo di tonalità fredde, di partiture chiare, l’uso esteso del bianco (il bianco, scriveva Kandinskij ne Lo spirituale nell’arte, “è come un simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come proprietà e sostanze materiali, sono scomparsi. Questo mondo è così lontano sopra di noi che non possiamo percepirne alcun suono. Di là viene un grande silenzio che, rappresentato materialmente, ci si presenta come un freddo muro insormontabile, indistruttibile, che si prolunga all’infinito [...]. È un silenzio che non è morto, bensì ricco di possibilità”). L’importanza accordata alle forme pure (il cerchio, la linea, il punto), tra le quali è possibile intravedere l’ombra di Malevič, è evidente nei dipinti eseguiti dopo il ritorno in Germania: Kandinskij vi si trasferì nel 1922 per insegnare al Bauhaus, a Weimar. Esemplificative di questa fase sono opere come Rosso in una forma appuntita, una delle rare opere dell’artista conservate in collezioni italiane (l’acquerello in questione è custodito al Mart di Rovereto), o ancora Alleanza interna dell’Albertina di Vienna che insiste sulla rigida distinzione tra gli opposti, per arrivare alle forme sinuose e giocose del Nodo rosso della Fondation Maeght. È forse il periodo meno noto di Kandinskij, quello che segna la svolta verso l’astrazione geometrica, rifiutata negli anni di Monaco di Baviera, argomenta Nigro Covre, perché avrebbe altrimenti “limitato l’infinita libertà delle forme e delle combinazioni numeriche”: l’interesse per lo spirituale, alieno alla poetica di Malevič, non s’allontana però dalla pittura di Kandinskij, e l’astrazione geometrica, scrive Nigro Covre, è nient’altro che “uno sviluppo dell’astrazione lirica”, dove la disposizione delle forme, i loro avvicinamenti e i loro scontri, gli accordi e i disaccordi coi colori, le tensioni tra gli elementi che organizzano la composizione sono le modalità più evidenti con le quali Kandinskij continua a esprimere la sua “necessità interiore”.
Chiude la mostra una sala che presenta al pubblico una selezione di tavole dall’album Klänge (“Suoni”) pubblicato nel 1913, tappa ineludibile nel percorso dell’artista: un insieme d’incisioni che Kandinskij aveva pubblicato con l’intento di ripercorrere le origini del suo viaggio verso l’astrattismo, verso lo “spirituale nell’arte”, una sorta di sintesi della sua arte sino a quel momento, dove l’artista, scrive Philippe Sers, “mette in forma artistica la dialettica tra ispirazioni e occasioni sul piano personale” e dove “rimugina sulle proprie intuizioni spirituali rispetto agli avvenimenti della sua vita sottoponendole al processo della composizione sintetica, esercizio di sapienza creatrice”. Un congedo per tornare al problema principale della mostra: le origini delle idee che mossero la mano e la mente di Kandinskij.
La questione, in effetti, è oltremodo complessa, e l’album Klänge non è che una parte della risposta, per la quale occorre attraversare buona parte della produzione, scritta e dipinta, dell’artista. È interessante in questa sede riprendere anche le parole di Sers, che individua almeno tre fonti che stanno all’origine della “necessità” di Kandinskij, ovvero quel tentativo d’instaurare un contatto con l’animo. La prima fonte è la personalità stessa dell’artista, che come ogni essere umano è chiamato a una missione nel mondo: per compiere la propria, l’artista s’avvale delle sue opere. La seconda origine, scrive Sers, è “l’apporto o il linguaggio dell’epoca dell’artista e del suo ambiente culturale, della sua nazione”, lo “stile nel suo valore interiore”, e infine il terzo livello è l’“ispirazione pura ed eterna dell’arte, vale a dire il messaggio dell’arte in ciò che ha di universale”. Uno dei motivi d’interesse della mostra di Palazzo Roverella sta nell’aver indagato puntualmente questi aspetti con un percorso che attraversa l’intero arco della carriera di Kandinskij e con una selezione che, facendo perno su alcuni lavori fondamentali, riassume con precisione l’arte di Kandinskij e che non sempre è dato vedere nelle mostre sull’artista russo. E quella di Rovigo è di sicuro una delle migliori mostre su Kandinskij che si siano viste negli ultimi anni, la più completa tra quelle che il pubblico ha avuto modo di vedere in Italia. La rassegna è sostenuta da un catalogo denso, dov’è stato anche ripubblicato il corposo saggio Vasilij Kandinskij di Andrea Gottdang del 2003: peccato manchino le schede delle singole opere (com’è ormai purtroppo tipico dei cataloghi delle mostre sull’arte otto-novecentesca), e soprattutto una bibliografia, che sarebbe stata molto utile (non serve rimarcare quanto sia scomodo dover cercare i titoli tra le note dei saggi).
C’è, infine, un altro elemento che corre sotto traccia per tutta la mostra: entro quali riferimenti culturali inserire Vasilij Kandinskij? Riduttivo definirlo semplicemente un “artista russo”, come spesso si tende a fare per convenzione. Lui stesso, nei suoi Sguardi sul passato, racconta del suo “grande amore” per la musica, “per la letteratura russa, e per la profonda natura del popolo russo”, così come racconta della sua passione, fin da bambino, per le fiabe tedesche (e lui ha sempre parlato tedesco: la nonna materna veniva dalla Germania), e allo stesso tempo ricorda i viaggi in Italia e in Germania coi genitori, la bellezza di Mosca, il marchio decisivo che sulla sua idea di fare il pittore ebbero il Lohengrin di Wagner e i Covoni di Monet, e poi ancora i quadri di Repin e di Rembrandt, la musica di Liszt. Dopo, sarebbero arrivate l’esperienza monacense, quella francese, l’insegnamento al Bauhaus. Se è innegabile che la sua arte abbia profonde radici nella cultura russa, altrettanto fondamentale è stato l’apporto dell’esperienze più varie e dei viaggi e dei soggiorni in diversi paesi europei: hanno probabilmente ragione i tanti che lo hanno definito, e continuano a definirlo, un “russo cosmopolita”. Nato in Russia, cresciuto in Ucraina, a lungo attivo in Germania e in Francia, artista che parlava più lingue, poco interessato alla politica ma messo a margine dal regime sovietico prima e ostile al regime nazista poi (quando il Bauhaus venne chiuso per decisione politica, Kandinskij poteva comunque commentare in maniera sarcastica notando che per altri due anni la scuola, per impegno preso dall’amministrazione di Dessau, avrebbe continuato a ricevere sussidî, mentre “noi ci troviamo fuori dalle passioni politiche e non dipenderemo più dalle loro imbecillità”), in contatto con alcune delle più eminenti personalità della cultura del suo tempo, Kandinskij è stato uno degl’intellettuali più raffinati e meno incasellabili del suo tempo, che applicò anche all’arte la sua attitudine di ricercatore. Per giungere a esiti che cambiarono le sorti della storia dell’arte.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).