di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 20/01/2019
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Romanticismo - Milano - Ottocento
Recensione della mostra “Romanticismo”. A Milano, Gallerie d'Italia di piazza Scala e Museo Poldi Pezzoli, dal 26 ottobre 2018 al 17 marzo 2019.
Rimonta al 1955 il primo contributo sul ruolo della finestra aperta sul paesaggio in età romantica: s’intitolava The open window and the storm-tossed boat: an essay in the iconography of Romanticism (“La finestra aperta e la nave nel mezzo della tempesta: un saggio sull’iconografia del romanticismo”), e il suo autore, Lorenz Eitner, rimarcava come i dipinti aventi per protagoniste le finestre non avessero precedenti e non potessero essere considerati semplicemente scene di genere. La veduta con finestra è, sostanzialmente, un’innovazione romantica: né pittura di paesaggio, né veduta d’interno, bensì una “curiosa combinazione d’entrambe”, affermava Eitner. Ne scaturisce un ineludibile scontro, quello tra la dimensione intima di ciò ch’è al di qua della finestra, e l’immensità dello spazio che s’apre oltre la soglia: un contrasto talora vivificato dalla presenza d’una figura affacciata alla finestra, che il riguardante coglie di spalle. Eitner scriveva che la finestra dava corpo a uno dei temi preferiti della letteratura romantica: il desiderio, irrealizzabile, di lasciarsi alle spalle il proprio mondo e le angustie della propria esistenza per accogliere l’infinito. O, in altri termini, quello struggimento cui i tedeschi diedero il nome di Sehnsucht, e che nel 1834 sarebbe diventato (proprio col titolo Sehnsucht) il soggetto d’una lirica di Joseph von Eichendorff che non poteva che aprirsi col motivo della finestra: “Es schienen so golden die Sterne, / Am Fenster ich einsam stand / Und hörte aus weiter Ferne / Ein Posthorn im stillen Land. / Das Herz mir im Leib entbrennte, / Da hab’ ich mir heimlich gedacht: / Ach wer da mitreisen könnte / In der prächtigen Sommernacht!” (“Le stelle brillavano di luce dorata / E io stavo solo alla finestra / E ascoltavo il suono distante / Del corno della posta nella campagna calma. / Il cuore mi s’incendiò in corpo / E io pensavo segretamente: / Ah, se solo potessi viaggiare anch’io là / in questa magnifica notte d’estate!”).
E con una finestra, un capolavoro giovanile col quale Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 - Dresda, 1840) catturò il paesaggio dell’Elba a Dresda dall’interno del suo studio, s’apre anche la mostra Romanticismo: fino al 16 marzo 2019, per l’occasione, sono radunate a Milano, nella doppia sede delle Gallerie d’Italia di piazza Scala e del Museo Poldi Pezzoli, circa duecento opere che compongono un affresco inedito e completo dell’intera vicenda del romanticismo italiano, analizzato per temi, considerato secondo le evoluzioni che conobbe nei varî centri della penisola, e talvolta posto in un’ottica di rapporto con quanto avveniva a livello europeo. E non potrebbe essere altrimenti, dacché tra gli obiettivi dichiarati del curatore, Fernando Mazzocca, figura anche quello di stabilire se l’arte che si produsse in Italia in questo ampio scorcio d’Ottocento (a grandi linee dai primi del secolo, specie se si considera anche l’apporto dei cosiddetti “protoromantici”, fino all’Unità) sia stata all’altezza di quanto emerse nell’Inghilterra di Turner e Constable, nella Francia di Delacroix e Géricault, o nella Germania di Friedrich e Runge. E ancora, la rassegna milanese intende mostrare come l’Italia fosse riuscita a innovare i modelli tradizionali e a sostenere il confronto col suo passato: un’operazione meritoria, specie se si considera che ancor oggi vige una certa tendenza a sottostimare l’arte italiana del romanticismo rispetto a quella dell’epoche immediatamente precedenti.
Certo, per i romantici affermarsi fu tutt’altro che facile, ed emblematica in tal senso è la diatriba (ampiamente evocata nel catalogo dell’esposizione) che s’accese attorno alla realizzazione del monumento ad Andrea Appiani, tra i più grandi pittori neoclassici d’Italia e non solo, ch’era scomparso nel 1817: da una parte, gli artisti e gl’intellettuali sostenitori della tradizione (potremmo nominare, tra gli altri, Vincenzo Monti e Luigi Cagnola) intendevano affidare l’incarico al grande danese Bertel Thorvaldsen, che avrebbe scolpito un solenne monumento neoclassico, dove Appiani, il “pittore delle Grazie”, sarebbe comparso ritratto di profilo in un medaglione, al centro d’un’edicola decorata con un rilievo raffigurante “le tre Grazie in mesto atto piangenti” (così la commissione incaricata delle operazioni aveva scritto in una lettera a Thorvaldsen datata 10 aprile 1819). La fazione romantica, al contrario, spingeva perché Appiani venisse raffigurato in abiti moderni, seduto, e con in mano (unica concessione alla tradizione) un disegno delle Grazie. I romantici, in altri termini, desideravano che il monumento ad Appiani rompesse totalmente col passato, tenuto conto del fatto che, nell’Italia dell’epoca, un monumento che ritraesse l’effigiato in vesti contemporanee fosse semplicemente impensabile: ne nacque così una lunga contesa che terminò con la vittoria dei classicisti, e il monumento ad Appiani (che trovò posto a Brera), terminato nelle 1826, oggi ci appare nelle forme in cui il “partito” classico l’aveva immaginato. Si trattò, tuttavia, dell’ultima resistenza, dell’affermazione estrema (ed effimera) di tendenze che di lì a poco avrebbero inesorabilmente ceduto il passo di fronte al dilagare d’un gusto totalmente nuovo e di radicali fratture nei confronti di ciò ch’era stato.
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Caspar David Friedrich, Vista dallo studio dell’artista, finestra di sinistra (1805-1806; grafite e seppia su carta, 314 × 235 mm; Vienna, Belvedere)
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Mostra Romanticismo a Milano, sala alle Gallerie d’Italia
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Mostra Romanticismo a Milano, sala alle Gallerie d’Italia
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Mostra Romanticismo a Milano, sala alle Gallerie d’Italia
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Mostra Romanticismo a Milano, sala al Museo Poldi Pezzoli
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La rivoluzione romantica, tuttavia, non era cominciata dalla scultura monumentale. Le prime avvisaglie del nuovo gusto s’avvertirono nella pittura di paesaggio, e la mostra di Milano, dopo l’introduzione dedicata al tema della finestra, comincia con una lunga disamina sull’argomento, che occupa ben otto sezioni sulle sedici di cui si compone la prima parte della rassegna, alle Gallerie d’Italia. L’apertura è affidata ai pittori del sublime, quel sentimento che Kant, nella Critica del giudizio, definiva come un piacere indotto indirettamente “dalla sensazione d’una momentanea inibizione delle forze vitali seguita immediatamente da una loro più forte effusione”: sublime è, in altri termini, tutto ciò ch’è smisurato e oltre la portata umana, che atterrisce ma che al contempo attrae, che inquieta ma insieme affascina. Una sensazione simile s’avverte nelle produzioni d’alcuni pittori piemontesi attivi agl’inizî dell’Ottocento: una nuova pittura di paesaggio si diffuse nel regno di Sardegna verso l’ultimo decennio del Settecento, quando, scrivono Virginia Bertone e Monica Tomiato nel loro saggio in catalogo, “nella tradizione del vedutismo topografico e descrittivo, regolato da precise leggi ottico-prospettiche e da un’esigenza di oggettività documentaria, s’insinua un crescente interesse per la resa dei valori di luce e d’atmosfera e lo sguardo dei pittori prende a fissarsi sugli aspetti più transitori e instabili della natura”. Nacque una nuova sensibilità nei confronti degli aspetti più insoliti della natura, e prova ne è l’inedita attenzione dedicata alle Alpi, che coi loro dirupi, i loro orridi, i ponti sospesi sui burroni, le foreste intricate sulle coste dei monti, le impervie vie di valico, gli eventi atmosferici estremi che spesso le battono, divennero soggetto di molte vedute capaci di dar forma a questo sentimento. Dipinti come la Salita al Moncenisio di Giuseppe Pietro Bagetti (Torino, 1764 - 1831), straordinario paesaggista dotato di formidabili doti topografiche ma capace anche di panorami in grado di muovere gli animi, o il Paesaggio nella bufera di Giovanni Battista De Gubernatis (Torino, 1774 - 1837), rivelano una visione poetica della natura, lasciano trapelare riflessioni su quel “beau pictoresque” ch’era stato oggetto d’una conferenza che lo stesso De Gubernatis tenne nel 1803 all’Académie subalpine d’histoire et des beaux-arts di Torino, aprono il campo a un modo totalmente nuovo di concepire la veduta. Non si può tuttavia ancora parlare di romanticismo compiuto, dal momento che furono questi stessi protoromantici, in certe occasioni, ad avversare il romanticismo: Mazzocca ricorda come Bagetti, in un suo scritto del 1827, avesse affermato che “consegnare tutto l’estro delle arti al solo genio, all’immaginazione, all’ispirazione, è cosa troppo incerta e scabrosa”. Ciò tuttavia non gl’impedì, afferma il curatore, “di piegare l’oggettività della sua visione a un’emozione che finisce di conferire ai suoi acquerelli una dimensione visionaria, onirica che sembra contraddire queste sue convizioni antiromantiche”. Questo spirito fu tuttavia pienamente colto dagli artisti delle generazioni successive: significativa è l’opera di Giuseppe Canella (Verona, 1788 - Firenze, 1847) che, aggiornatosi sugli esiti dei paesaggi intimi di Jean-Baptiste-Camille Corot, seppe creare commoventi scene come la Veduta della campagna romana con temporale, opera che, tramite gli effetti di luce e l’evocazione di condizioni atmosferiche particolarmente suggestive, è capace d’ammantare il paesaggio d’un’aura quasi elegiaca.
Gli scenarî cambiano nella quinta sezione, dedicata alle vedute notturne: motivo di forte fascinazione per molti artisti, la notte, da Friedrich in avanti (ma si potrebbe fare lo stesso ragionamento per la letteratura: si pensi ai componimenti di Leopardi), tocca gli animi nel profondo, e può farlo tanto in maniera positiva (s’evoca la dolcezza della notte, il conforto che reca ai cuori degli amanti, il piacere che suscita alla fine delle calde giornate d’estate, la bellezza d’un chiaro di luna che rischiara le acque d’un mare placido) quanto con toni negativi (il buio che reca angoscia e inquietudine, le tenebre in cui s’invocano streghe e spiriti). Esemplificano le due anime della notte il Notturno a Capri di Salvatore Fergola (Napoli, 1799 - 1874), una quieta veduta del mare della Marina piccola di Capri illuminato dai soavi bagliori lunari e con le barche ormeggiate a poca distanza dagli scogli, e Il noce di Benevento di Bagetti, terribile riunione di streghe e spettri ispirata dall’omonimo ballo di Salvatore Viganò in cui protagonista, come nel dipinto, è il famigerato albero attorno al quale, secondo la tradizione locale, fin da tempi antichissimi si celebravano sabba di streghe (uno dei quali è puntualmente descritto nell’opera del pittore piemontese). Un’importante novità del romanticismo italiano fu poi il paesaggio istoriato, ovvero le vedute in cui hanno luogo avvenimenti storici: principale esponente del genere fu Massimo d’Azeglio (Torino, 1798 - 1866), cui spetta il merito d’aver per primo inventato questa singolare contaminazione tra veduta e pittura storica che tocca uno dei suoi apici ne La morte del conte Josselin de Montmorency (un condottiero francese che cadde durante la terza crociata, nel 1191, per salvare, secondo la tradizione, la sorella di Riccardo Cuor di Leone), opera con cui l’artista riscosse un larghissimo successo alla mostra di Brera del 1831 e nella quale l’episodio storico ha luogo in una rigogliosa ambientazione esotica che rende “quasi accessorio” l’accadimento “rispetto all’esaltante descrizione della varietà del paesaggio e della vegetazione” (Bertone e Tomiato).
L’apporto di Massimo d’Azeglio si rivelò fondamentale ai fini dell’elaborazione d’una nuova pittura di paesaggio, ma non fu l’unico: il gran peso che l’esposizione delle Gallerie d’Italia dedica alle vedute è anche dovuto al fatto che proprio in quest’ambito si registrarono alcuni tra i rinnovamenti più dirompenti. Tra questi, è possibile annoverare anche l’introduzione delle vedute urbane, cui è interamente votata la settima sezione della mostra e il cui iniziatore fu il piemontese Giovanni Migliara (Alessandria, 1785 - Milano, 1837), che si pose come erede del vedutismo veneto del Settecento spostando però l’attenzione sugli scorci metropolitani e sugl’interni d’architetture (la Veduta d’interno dell’Abbazia di Altacomba ne è altissimo esempio), e che fu ben presto seguito da Angelo Inganni (Brescia, 1807 - Gussago, 1880), eccellente interprete di animati frammenti della vita quotidiana d’una Milano in fermento: la sua Veduta di Milano (che è peraltro opera di proprietà delle Gallerie d’Italia: nel museo di piazza Scala figura una ricca raccolta di vedute urbane della Milano d’inizio Ottocento) fu definita addirittura “prodigiosa” dalla critica coeva e ci trasporta lì, davanti alla cattedrale, come se noi riguardanti potessimo essere partecipi della scena. Da Milano s’arriva in Campania, alle porte di Napoli, dove i pittori della scuola di Posillipo (espressione inizialmente utilizzata dai critici in modo spregiativo, dacché questi artisti si collocavano ben al di fuori delle cerchie accademiche), sospinti dalle frequenti richieste dei viaggiatori stranieri che volevano portarsi a casa un paesaggio come ricordo del loro soggiorno nell’Italia del sud, presero a studiare il vero en plein air, producendo opere tese a cogliere tutta la mitezza del clima mediterraneo e la pienezza della luce del meridione. Iniziatore della “scuola” fu l’olandese Anton Sminck van Pitloo (Arnhem, 1790 - Napoli, 1837), che fu il primo a rompere con la tradizione dell’Accademia che voleva il paesaggio rappresentato secondo precisi canoni estetici, e cominciò invece a recarsi con tela e pennelli in loco, per cogliere coi colori il variare della luce sulla natura e sulla città: in mostra vediamo una sua Spiaggia di Chiaia da Mergellina dove “la particolare atmosfera della giornata chiara e tersa di sole, illuminando a pieno la città, fa svanire il rigore prospettico e l’intenzione della veduta topografica settecentesca, traducendola in un paesaggio reale, dove i popolani e i pescatori in primo piano, realizzati con rapidi tocchi cromatici, animano una scena vera, di vivace abilità pittoresca” (Luisa Martorelli). Principale erede di van Pitloo è considerato Giacinto Gigante (Napoli, 1806 - 1876): la sua Napoli vista dalla Conocchia unisce l’attenta indagine della realtà all’interpretazione fortemente sentimentale della veduta, caratteristiche tipiche della scuola di Posillipo. Il “viaggio” nella pittura di paesaggio si conclude con la nona sezione, dedicata ai continuatori della tradizione della veduta veneta: il principale fu Ippolito Caffi, che rilesse la produzione di pittori come il Canaletto o Bernardo Bellotto concentrandosi sugli effetti atmosferici e di luce (quasi surreale è l’Eclisse di sole alle Fondamenta Nuove, proveniente da una collezione privata).
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Giuseppe Pietro Bagetti, Salita al Moncenisio (1809 circa; acquerello su carta, 415 × 550 mm; Torino, collezione privata, già collezione Antonicelli)
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Giovanni Battista De Gubernatis, Paesaggio nella bufera con castello a quattro torri e grande trifora sovrastante il portale (1803; matita e acquerello su carta vergata bianca, 457 × 585 mm; Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea)
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Giuseppe Canella, Veduta della campagna romana con temporale (1841; olio su tela, 122 × 170 cm; Milano, Accademia di Belle Arti di Brera, in deposito presso Camera dei Deputati, Roma)
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Salvatore Fergola, Notturno a Capri (1848; olio su tela, 106 × 131 cm; Napoli, Polo Museale della Campania, in deposito presso Certosa e Museo di San Martino) |
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Giuseppe Pietro Bagetti, Il Noce di Benevento (Sabba delle streghe) (1822-1826; acquerello su carta, 380 × 430 mm; Collezione privata - Courtesy Benappi)
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Massimo d’Azeglio, La morte del conte Josselin de Montmorency presso Tolemaide in Palestina (1825; olio su tela, 149 × 202,4 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea)
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Giovanni Migliara, Veduta dell’interno dell’Abbazia di Altacomba (1833; olio su tela, 56 x 72 cm; Milano, Gallerie d’Italia di Piazza Scala)
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Angelo Inganni, Veduta sulla piazza del Duomo con il Coperto dei Figini (1838; olio su tela, 173 × 133 cm; Milano, Palazzo Morando - Costume Moda Immagine)
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Anton Sminck van Pitloo, La spiaggia di Chiaia da Mergellina (1829; olio su tela, 53,5 × 76 cm; Napoli, collezione privata)
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Giacinto Gigante, Napoli vista dalla Conocchia (1844; olio su tela, 53 × 79 cm; Collezione privata) |
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Ippolito Caffi, Eclisse di sole alle Fondamenta Nuove (1842; olio su tela, 88 × 152 cm; Collezione privata)
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Dopo una parentesi dedicata al tema de I Promessi Sposi che ispirò molti artisti del tempo, la mostra passa a esaminare il ritratto romantico, ambito in cui si consumò una sorta di rivalità tra Giuseppe Molteni (Affori, 1800 - Milano, 1867) e Francesco Hayez (Venezia, 1791 - Milano, 1882): il primo fu autore d’eleganti, disimpegnati e mondani ritratti istoriati (ovvero ambientati in spazî che venivano resi con mirabile minuzia descrittiva: fu lo stesso Molteni a inventare questo genere), che per la loro esuberanza spinta fin quasi all’ostentazione si ponevano in linea pressoché diretta con la grande ritrattistica barocca, mentre il secondo seguì Molteni sul suo “terreno” ma, al contrario del collega, il veneziano puntò su di un’introspezione psicologica che spesso arrivava a coinvolgere anche il paesaggio circostante, visto quasi come un’estensione del soggetto e non come una mera ambientazione del ritratto. La mostra ci consente d’avanzare un confronto tra il superbo Ritratto di Antonio Visconti Aimi di Molteni, che raffigura l’orgoglioso giovane marchese all’interno della sua abitazione, circondato dagli oggetti di cui andava fiero, e il coevo Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe, considerato da Mazzocca “uno dei più emozionanti di Hayez e del secolo”, e colmo di reminiscenze cinquecentesche (specie nel colorismo tenue e nelle forme allungate) e di significati simbolici (la posa simile a quella d’una Madonna col Bambino, motivata probabilmente dal fatto che il piccolo raffigurato morì bambino, ma non ci è dato sapere se l’opera sia stata eseguita prima o dopo il tragico evento) che ci restituiscono un’immagine di rara intensità, quasi solenne.
Sacro e profano s’incontrano nelle due sezioni successive, la dodicesima e la tredicesima: la prima è dedicata al nudo, la seconda alla religiosità romantica, e occupano la stessa sala. Certo non a caso: si noti, per esempio, la languida Sposa dei Sacri Cantici, opera di Gaetano Motelli (Milano, 1805 - Besana Brianza, 1858) ispirata alla figura di Sulamite (la sposa che compare nel Cantico dei Cantici) e che destò grande attenzione a Milano quando fu esposta, proprio in virtù di quella morbidezza e di quell’aria dolcemente sognante che potevano apparire eccessive, o quanto meno ambigue, per un soggetto religioso. Ad ogni modo, se si pensa alle immagini di nudo in epoca romantica, è impossibile non menzionare le provocanti eroine di Hayez, che fu anche uno dei pittori più sensuali di tutta la storia dell’arte. Puntualissima, la rassegna milanese porta in piazza Scala la celeberrima Meditazione, opera in cui la nudità della bellissima giovane raffigurata è motivata da giustificazioni allegoriche (il seno scoperto allude all’Italia che nutre i suoi figli: il dipinto è del 1851), ma occorre porre l’accento su di un sensazionale inedito privo di rimandi simbolici e carico d’un denso erotismo che rivela tutto l’amore (passionale) di Hayez per il genere femminile: è il Nudo di donna (Modella in riposo) che non si pone altro fine se non quello di ritrarre, in tutta la sua intimità, una modella seminuda e sdraiata su di un letto sfatto. E se si parla di nudo, occorre anche porre in evidenza le differenze tra un nudo virginale e innocente, che allude a una dimensione di purezza e sincerità, come la Eva tentata dal serpente di Natale Schiavoni (Chioggia, 1777 - Venezia, 1858), e il nudo carnale e lascivo, come la sconvolgente Orgia di Torquato Della Torre (Verona, 1827 - 1855), scultura difficile per contenuti e tecnica, e che ha per protagonista una donna nuda che s’abbandona scomposta su di un trono dopo un amplesso. La svolta della pittura religiosa verso una sensibilità più attenta al reale è testimoniata da dipinti come L’Educazione della Vergine di Giacomo Trécourt (Bergamo, 1812 – Pavia, 1882) o l’Episodio del diluvio di Domenico Induno (Milano, 1815 - 1878), divisi per intenti (il primo cerca d’essere rassicurante, il secondo invece muove ed è potente), ma accomunati dai propositi di ricercare una pittura da cui trasparisse un “bisogno di domestico, di intimo e di naturale” (Giuseppe Fusari).
Ci s’avvia verso la conclusione del percorso in piazza Scala dapprima con una sala dedicata al tema del “riscatto dei miserabili”, con gli ultimi e gli sconfitti che popolano le città in trasformazione divenuti oggetto di nuova e profonda attenzione, nonché soggetti degni d’esser raffigurati in opere di rara intensità (imperdibili i piccoli bambini lavoratori di Molteni), che apriranno la strada alla pittura realista della seconda metà del secolo. È poi la volta della sezione (la penultima della mostra) dedicata alla pittura di storia, anch’essa profondamente rinnovata in quanto non più dedita soltanto a soggetti mitologici o tratti dalla storia antica, ma votata anche alla rappresentazione d’episodî della storia dell’Italia moderna, o alle vicende dell’attualità: gli artisti (su tutti Hayez, colui che diede il via alla rivoluzione del genere: in mostra è presente coll’immancabile Ultimo bacio tra Giulietta e Romeo) elaborarono composizioni in cui i drammi narrati si prefiggevano lo scopo di coinvolgere emotivamente l’osservatore, un fine inedito per la pittura di storia. Ne sortiscono opere dense di pathos: valga l’esempio di Saremo liberi!, dipinto di Cesare Mussini (Berlino, 1804 - Firenze, 1879) che racconta l’estremo sacrificio del patriota greco Georgios Rhodios, che toglie la vita prima a sua moglie e poi a se stesso così da non cadere nelle mani degli ottomani durante la guerra d’indipendenza greca (un tema d’attualità che infervorò gli artisti romantici). Si torna nel salone principale delle Gallerie d’Italia di piazza Scala e si termina la visita alla prima parte della rassegna con la sezione sulla scultura romantica: scultura che, a tutta prima, faticò a imporsi, dacché anche dopo la Restaurazione i neoclassici tenevano ancora saldamente il campo. Tuttavia, prima gli scultori puristi, su tutti Lorenzo Bartolini (Savignano di Prato, 1777 – Firenze, 1850), ch’è presente in mostra con la sua meravigliosa Fiduca in Dio (una sorta d’inno al bello naturale che si contrapponeva al bello ideale dei neoclassici), e poi gli artisti dell’impegno civile come Alessandro Puttinati (Verona, 1801 - Milano, 1872) e Vincenzo Vela (Ligornetto, 1820 - 1891), questi ultimi capaci di sbalorditivi e quasi violenti ritratti di personaggi storici (in mostra vediamo, rispettivamente, il Masaniello e lo Spartaco), aprirono la via a possibilità del tutto nuove e verso quella che sarebbe diventata la scultura della seconda metà del secolo XIX.
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Giuseppe Molteni, Ritratto di Antonio Visconti Aimi (1830-1835; olio su tela, 134 × 114 cm; Collezione Marco Voena)
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Francesco Hayez, Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe (1833; olio su tela, 129 × 105 cm - Lodi, Museo Civico (in comodato da ASST - Azienda Socio Sanitaria Territoriale di Lodi)
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Gaetano Motelli, La sposa dei Sacri Cantici (1854; marmo, 140 × 55 × 75 cm - Collezione Litta)
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Francesco Hayez, La Meditazione (1851; olio su tela, 92,3 x 71,5 cm; Verona, Galleria d’Arte Moderna “Achille Forti”) |
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Francesco Hayez, Nudo di donna (Modella in riposo) (1850-1860 circa; olio su tela, 65 × 50 cm - Collezione privata)
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Natale Schiavoni, Eva tentata dal serpente (Il Paradiso terrestre) (1844 circa; olio su tela, 150 × 101 cm - Gomiero-Grasselli)
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Torquato Della Torre, L’orgia (1851-1854; marmo, 111 × 96 × 105,5 cm - Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti)
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Giacomo Trécourt, Educazione della Vergine (1839; olio su tela 280 × 190 cm - Villongo, chiesa parrocchiale di San Filastro)
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Domenico Induno, Un episodio del Diluvio (1844; olio su tela, 124 × 165 cm - Collezione Banco BPM)
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Francesco Hayez, L’ultimo bacio tra Giulietta e Romeo (1823; olio su tela, 291 x 201,8 cm; Tremezzo, Villa Carlotta)
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Cesare Mussini, Giorgio Rhodios che uccide la moglie Demetria e poi se stesso per fuggire alla crudeltà musulmana (Saremo liberi!) (1841-1851; olio su tela, 170 × 142 cm - Torino, Musei Reali, Palazzo Reale)
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Lorenzo Bartolini, La Fiducia in Dio (1833-1836; marmo, 93 × 45 × 64 cm - Milano, Museo Poldi Pezzoli)
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Alessandro Puttinati, Masaniello (1846; marmo, 212 × 50 × 105 cm - Milano, Galleria d’Arte Moderna)
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Vincenzo Vela, Spartaco (1850; marmo, 208 × 80 × 126,5 cm; Lugano, Palazzo Civico - MASI - Museo d’Arte della Svizzera Italiana, Lugano. Collezione Città di Lugano. Deposito della Fondazione Gottfried Keller, Ufficio Federale della Cultura, Berna)
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Il percorso al Museo Poldi Pezzoli (non si tratta d’una mostra separata: è la continuazione di quanto i visitatori trovano in piazza Scala) riprende sul filo della pittura storica: la prima sezione entra nello specifico delle vite degli uomini illustri del passato o della letteratura. Si trattava, ancora, di temi che, in un momento in cui, scrive Beatrice Piazza, la “pressante dominazione straniera andava soffocando lo spirito dell’antico primato della nazione”, dovevano “ergersi a exempla di virtù e richiamo alla consapevolezza delle origini”. Non solo: tra i romantici di tutta Europa si diffuse il cliché dell’artista-genio, appassionato e tormentato, e a certi grandi d’un tempo venne quasi conferita una sorta d’aura mitica, come accadde, per esempio, a Torquato Tasso, che nei primi decennî dell’Ottocento conobbe un’esplosiva popolarità, confermata dalla crescente considerazione riservatagli dagli artisti. Al Poldi Pezzoli se ne trovano due esempî: uno è il Torquato Tasso che declama la Gerusalemme Liberata alla corte estense, opera di Francesco Podesti (Ancona, 1800 - Roma, 1895), dipinto che riecheggia tutta la passione che i romantici nutrivano per la produzione (oltre che per la vicenda biografica) del poeta, mentre l’altro è La morte di Torquato Tasso del tedesco Franz Ludwig Catel (Berlino, 1778 - Roma, 1856), dipinto che drammatizza con accenti quasi teatrali la dipartita del grande letterato. Come la letteratura è presente in un’apposita sezione alle Gallerie d’Italia con I Promessi Sposi, così è anche al Poldi Pezzoli, poiché una sala intende approfondire la Divina Commedia e i suoi personaggi: da segnalare la presenza de Il conte Ugolino nella torre di Giuseppe Diotti (Casalmaggiore, 1779 - 1846), un artista che potremmo quasi definire “di transizione” tra istanze classiciste e nuova pittura, e che alle novità introdotte da Hayez rispose coi suoi dipinti altrettanto moderni benché venati da una gravitas non dimentica dei legami con l’accademia, che il pittore lombardo mai volle recidere.
Una delle sezioni più interessanti e singolari della mostra è quella che affronta l’autoritratto, proposto al pubblico nelle sue più varie declinazioni: si passa da uno dei dipinti-simbolo della sensibilità romantica, l’autoritratto di Tommaso Minardi (Faenza, 1787 - Roma, 1871), che si raffigura solitario in una povera stanza da bohémien, e attraverso i fieri autoritratti di Hayez (che per tutta la sua carriera mai pose termine alla propria inclinazione per l’autorappresentazione, che lo portò anche ad autoritrarsi nelle situazioni più bizzarre, come testimonia il suo Autoritratto con un leone e una tigre: “l’artista, come una belva nella gabbia, è in conflitto con la società”, sottolinea Mazzocca) e un inedito di Natale Schiavoni che ritrae il figlio Felice in un elegante e spensierato ritratto di famiglia, si giunge all’Autoritratto con macchina fotografica di Alessandro Guardassoni (Bologna, 1819 - 1888) che, includendo il mezzo nel suo dipinto, pare già intuire le sorti future dell’arte. Si prosegue poi con una sala dedicata ai moti del 1848: la rivoluzione irrompe col suo carico di tensione ma anche, e forse soprattutto, in tutta la sua brutalità, narrata senza filtri da un dipinto in cui è in corso un sopruso, l’Episodio di saccheggio durante le Cinque giornate di Milano di Baldassare Verazzi (Caprezzo, 1819 - Lesa, 1886), e da uno in cui la violenza s’è già compiuta. È la Trasteverina colpita da una bomba di Gerolamo Induno (Milano, 1825 - 1890), e dinnanzi alla toccante immagine della povera bimba, colpita a morte da un ordigno durante la difesa di Roma del 1849, è quasi impossibile non cedere alla compassione. Romanticismo termina con una sorta di mostra nella mostra, ovvero l’ultima sezione (la quinta del Poldi Pezzoli), dedicata a Giambattista Gigola (Brescia, 1767 - Tremezzo, 1841), raffinatissimo miniaturista che, pur rimanendo legato a stilemi neoclassici, avvertì il nuovo sentire con le sue eleganti pitture su avorio.
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Francesco Podesti, Il Tasso alla corte di Ferrara (1831; olio su tela, 169 x 250 cm; Ancona, Pinacoteca Civica)
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Franz Ludwig Catel, La morte del Tasso (1834; olio, 129,5 x 179,5 cm; Napoli, Palazzo Reale)
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Giuseppe Diotti, Il conte Ugolino nella torre (1831; olio su tela, 173,5 x 207,5 cm; Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”) |
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Tommaso Minardi, Autoritratto (1813 circa; olio su tela, 37 x 33 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
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Francesco Hayez, Autoritratto con leone e una tigre in gabbia (1831; olio su tavola, 43 x 51 cm; Milano, Museo Poldi Pezzoli)
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Alessandro Guardassoni, Autoritratto con macchina fotografica (1855-1860; olio su tela, 125 x 92 x 7,5 cm; Bologna, Fondazione Gualandi a Favore dei Sordi)
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Gerolamo Induno, Trasteverina colpita da una bomba (1849; olio su tela, 114,5 x 158 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna)
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Alcune delle opere di Giovanni Battista Gigola in mostra
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Non si riscontrano cesure tra le due ripartizioni della mostra: tanto le sale delle Gallerie d’Italia quanto gli ambienti al Museo Poldi Pezzoli concorrono ad animare un discorso unico, che risulterebbe difficile immaginare separato poiché, se intento della mostra è quello di valutare il romanticismo italiano sott’ogni suo aspetto, nel primo caso si registrerebbe la carenza d’un finale, e nell’altro mancherebbero i presupposti (per quanto le sale del Poldi Pezzoli trovino il loro fil rouge nell’esame del contributo che l’arte romantica fornì all’elaborazione degl’ideali che poi diedero vita al Risorgimento). Un discorso che, peraltro, potrebbe estendersi ben al di là dei confini tracciati dal titolo, dal momento che prendere in esame la totalità del movimento romantico italiano significa parlare di più “romanticismi”, e qui occorrerebbe pensare, giusto a titolo d’esempio, al caso della scultura, al netto scarto ch’esiste tra un Pietro Tenerani e un Vincenzo Vela, al distacco dai temi della tradizione che in scultura fu molto più lento che in pittura: la rassegna si concentra su di un numero esiguo di lavori, ma tutti d’eccezionale importanza. L’approccio onnicomprensivo di Romanticismo è inoltre confermato dai continui rimandi alla storia e alla letteratura del tempo, che trovano poi puntuale riscontro (oltre che, ovviamente, nelle sale in cui i rimandi vengono esplicitati) nel catalogo, ottimo strumento di studio anche perché la mostra presenta addirittura una trentina d’inediti (e di due di questi s’è dato conto anche nel presente contributo), segno che sul romanticismo italiano molto è ancora da studiare.
Come rammentato in apertura, tesi della mostra è sostenere la validità del romanticismo italiano, sia in relazione a ciò che l’ha preceduto, sia al cospetto di quanto andava profilandosi nell’Europa del tempo. Onde fornire il pubblico di stringenti termini di confronto, la rassegna non manca d’esporre anche opere di Friedrich, Corot, Turner e altri protagonisti internazionali dell’epoca, per quanto tuttavia l’ottica non sia quella dello sviluppo comparato: lo sguardo rimane per lo più puntato sull’Italia e il romanticismo è analizzato specialmente nelle sue dinamiche interne e nelle accezioni che conobbe nelle varie regioni d’Italia (anche se, com’è lecito aspettarsi, è soprattutto su Milano che l’esposizione si sofferma, dato che il capoluogo lombardo fu senz’ombra di dubbio il principale centro propulsore del romanticismo nella penisola, tanto da esser definito da Mazzocca “la capitale culturale di un’Italia che politicamente ancora non esisteva”). Ne consegue, pertanto, una lettura che non manca d’intrecciarsi alle vicende politiche dell’Italia del tempo, con pittura e scultura viste come protagoniste, assieme alle lettere e alla musica, di quella stagione nella quale anche attraverso l’arte l’Italia assunse consapevolezza di sé e, al fine, realizzò la sua unità. Il risultato, per quella ch’è la prima mostra sul romanticismo italiano visto nel suo insieme (e che quindi in certi casi consolida e in altri casi riconsidera il posizionamento critico degli artisti che ne sono protagonisti: per d’Azeglio e Molteni, per esempio, emergono ruoli di primissimo piano), non può che dirsi pienamente positivo, e aperto a futuri sviluppi.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).