Tra le varie rotte che nel Dopoguerra allacciavano Europa e Stati Uniti, ce n’è una particolarmente cara al mondo dell’arte: Roma-New York. Negli anni Cinquanta, con il ritorno di artisti, scrittori e intellettuali dall’esilio e dai campi di prigionia, Roma emergeva come il centro di una nuova avanguardia. Tutta italiana, slegata dall’influenza parigina che aveva in gran parte definito la prima metà del ventesimo secolo. New York, d’altra parte, brillava della luce del cambiamento, illuminava il resto del mondo con la promessa di un orizzonte nuovo. In un ménage che univa arte e società, il legame tra le due città ha assunto il sapore di un passaggio di consegne, o quantomeno di una contaminazione irreversibile. Roma, con l’eredità decadente, ma sempre affascinante, di una lunga tradizione classica, umanistica e barocca. New York, oceano di libertà senza debiti pregressi, culla di novità anche in campo artistico, fautrice di un futuro ancora tutto da scrivere. Così accadeva che, grazie a figure di raccordo come il gallerista triestino, ma di base a New York, Leo Castelli, artisti posti agli estremi dell’Atlantico si incontravano, di qua o di là, per lavoro, amore, amicizia. Insomma, per l’arte.
Ma cosa avevano da offrirsi l’un l’altro? L’America, lanciata dal consumismo sulla via della Pop Art, trova in Italia una forma d’espressione più intimista, legata in particolare al gesto e alla materia, un Informale intriso di liricità antica. L’Italia, anch’essa sospinta dal boom economico, è ammaliata dall’immediatezza dall’iconografia consumistica americana, tanto da incorporarla nell’estetica dominante al tempo: il nuovo realismo. Il Nuovo mondo anelava dunque la cultura del Vecchio; il Vecchio mondo desiderava le trasformazioni del Nuovo. Di questo rapporto cruciale si occupa in questi giorni la sede newyorkese di David Zwirner, a Chelsea, nella mostra Roma/New York, 1953-1964, curata da David Leiber e visitabile fino al 25 febbraio.
Un racconto visivo di mondi ed estetiche intrecciate, come risulta evidente confrontando gli esiti artistici che i rispettivi autori hanno proposto. Nei lavori di artisti cresciuti con un’impronta neorealista - come Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mimmo Rotella e Mario Schifano - si nota dalla metà degli anni Cinquanta in poi l’annessione di elementi tratti dalla sfera dei consumi o dalla dimensione urbana di matrice americana. In particolare Schifano, che nel 1962 espone da Sidney Janis a New York nella storica mostra The New Realists, si fa portavoce di una pratica pittorica che accoglie frammenti di immagini, pubblicità e testi. É la nascita della Pop Art italiana, che si lascia sedurre dal fascino glitterato del consumismo d’oltreoceano ma è in grado di trasportarlo in una dimensione meno immediata, più stratificata, più ricca di implicazioni, più classica, più europea. Contaminazione inversa, invece, nel caso dell’Informale, corrente astratta caratterizzata da una ricerca sulla materia. Sono figure come Afro Basaldella, Toti Scialoja, Alberto Burri e Piero Dorazio a portare a New York - con le mostre nelle gallerie di Eleanor Ward, Catherine Viviano e Leo Castelli - i picchi sublimi di un movimento che a metà degli anni Sessanta andrà a perdere il suo mordente.
Allo stesso tempo, diversi artisti con sede a New York, come Philip Guston, Franz Kline, Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Salvatore Scarpitta e Cy Twombly esponevano a Roma, in particolare alla Galleria dell’Obelisco di Irene Brin e Gaspero del Corso e alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Un fitto intrecciarsi di personali e collettive che hanno determinato le rotte creative degli artisti in questione. E che Zwirner riprende, con una operazione curatoriale (e commerciale) volta a riaccendere prepotentemente i riflettori sui migliori esiti pittorici nostrani post-bellici in America (quindi sul mercato globale), accostandoli in modo da far ridondare rimandi e connessioni. Roma/New York, 1953-1964 si concentra infatti in particolare sugli artisti italiani, molti dei quali - tra cui Angeli, Perilli, Novelli - sono riconosciuti e acclamati in Italia, ma rimangono meno conosciuti negli Stati Uniti. Ma anche autori pressoché sconosciuti come Luigi Boille, che però nel periodo considerato si è reso protagonista di importanti mostre, tra cui una al Guggenheim di New York accanto a Fontana, Castellani e Capogrossi. Oppure Conrad Marca-Relli e la sua complessa pratica pittorica basata sul collage. Nato da genitori immigrati italiani, Marca-Relli è stato un punto di contatto chiave tra le due comunità artistiche, mettendo in relazione mercanti e artisti e aiutando a stabilire i rapporti che hanno reso questo periodo così importante, unico e forse irripetibile. Difatti già nel 1964, l’anno in cui Rauschenberg vinse il Leone d’oro alla Biennale di Venezia, le comunicazioni iniziarono a farse più rade. Roma perse la sua centralità nell’avanguardia artistica italiana, con Milano e Torino ad attrarre sempre più artisti e investimenti. New York invece rimase lì, centro nevralgico del sistema dell’arte mondiale, ed è lì è ancora oggi, all’apice del sistema artistico internazionale. E non dimentica quegli anni in cui, se si affacciava verso l’oceano, vedeva Roma.