Distrutto dalla malattia e dal dolore, ribelle nell’atteggiamento, distaccato dal mondo e dal quotidiano, artista di finissimo ingegno sconfitto dalla vita. L’8 febbraio del 1943, Raffaello Gambogi si congeda dal mondo: solo, povero, disperato, devastato dall’alcol e da un’esistenza con poche gioie. Da una ventina d’anni s’era dimenticato di tutti, e tutti s’erano dimenticati di lui. Del giro dei postmacchiaioli, che s’erano formati nel solco della lezione di Giovanni Fattori, Raffaello Gambogi è forse il meno lineare, e anche il più sfortunato. E pensare che, quand’era un giovane di soli ventitré anni, aveva ricevuto un paio di endorsement eccellenti, diremmo oggi: quello del maestro, Fattori appunto (anche se poi, anni dopo, avrebbe cambiato idea), ch’era stato suo maestro dopo che Angelo Tommasi lo aveva avviato all’arte, e quello di Telemaco Signorini. Era il 1897, e l’anno prima Gambogi aveva partecipato alla Festa dell’arte e dei fiori, grande kermesse che offriva agli artisti la possibilità d’esporre i loro lavori in una mostra internazionale, presentando Il riposo delle gabbrigiane, uno dei suoi migliori dipinti, e riscuotendo consenso e apprezzamenti. Poi, a costo di scadere nel luogo comune, era cominciata per lui una vita degna d’esser raccontata in un film.
Per primo l’incontro con la pittrice finlandese Elin Danielson, di tredici anni più grande di lui: i due s’innamorano, si sposano, e lavorano insieme, sperimentando, aprendosi l’uno all’altra in una sorta di simbiosi che avrebbe modificato radicalmente la pittura d’entrambi. Poi, le difficoltà di conciliare l’arte con le necessità pratiche dell’esistenza: vendere diventa difficile, subentra una crisi coniugale, Raffaello ed Elin si spostano in Finlandia nel tentativo di ritrovarsi, forse ci riescono, ma l’idillio dura poco, perché già tra i boschi del nord subentrano i primi segni d’un disagio psichico che poi, al rientro in Italia, sfocerà in una malattia grave. Forse una seria forma di depressione, che costringe Raffaello Gambogi al ricovero nel manicomio di Volterra. Elin deve assistere il marito e sobbarcarsi tutte le incombenze del quotidiano, smetterà quasi di dipingere. Poi, la sua morte nel 1919 è il colpo fatale per Raffaello: continuerà a produrre, scrivendo anche pagine originalissime, ma non più come un tempo, e soprattutto quasi isolato, chiuso nel suo dolore. Questa è la storia che viene raccontata dalla mostra Raffaello Gambogi. Arte come rivelazione, a cura di Giovanna Bacci di Capaci, che il Museo Civico “Giovanni Fattori” di Livorno accoglie fino al 25 febbraio.
Non è la prima volta che la produzione di Gambogi è fatta oggetto d’una rassegna dedicata: a tracciare per la prima volta un profilo completo della sua vicenda artistica, dopo tanti anni di oblio, era stata, nel 2017, la mostra Raffaello Gambogi. Il tempo dell’impressionismo, curata da Francesca Cagianelli alla Pinacoteca Comuanle di Collesalvetti. Una quarantina di opere per ricostruire un profilo compiuto di Raffaello Gambogi: quello d’un artista che nasce macchiaiolo, dipingendo opere che guardano a Fattori, dopodiché cresce garbato impressionista che ammanta d’una tersa luce nordica i suoi dipinti, e termina la sua carriera con quadri taglienti, gestuali, violenti, originali, in grado quasi di precorrere le ricerche del dopoguerra. Lo stesso percorso è quello che s’apprezza alla mostra allestita nel piano nobile di Villa Mimbelli, sede del Museo Civico Fattori.
Gambogi, scrive la curatrice Bacci di Capaci, si rivela dapprima “particolarmente interessato alla figura umana che è felice protagonista di molti suoi dipinti giovanili”. Sono quelli che si vedono nella prima sala della rassegna: Le fascinaie in Tombolo, col suo prepotente controluce contro a un tramonto infuocato, rivela già una personalità originalissima, che sviluppa la lezione del maestro Angelo Tommasi verso una direzione che pare già anticipare gl’indirizzi che la pittura toscana assumerà verso la fine del secolo sulla scorta di Nomellini e Grubicy, mentre il successivo Ritratto della madre, del 1893, segna un momentaneo ritorno a una pittura di macchia più tradizionale, più vicina ai maestri Tommasi e Fattori, e lo stesso si potrebbe dire per il Cortile in Banditella, che nonostante il soggetto umile, un pollaio con le galline in primissimo piano, assume un tono quasi lirico per effetto dei bagliori all’orizzonte, e dimostra spiccate qualità compositive, con i covoni sul fondo che conferiscono ulteriore movimento alla scena e spingono l’occhio ad abbandonare per qualche istante i polli onde scrutare il paesaggio in lontananza. Il successivo Sosta, noto anche come Riposo dei campi, rinvia invece alla stagione in cui Gambogi comincia a mettersi in mostra, letteralmente, partecipando alle esposizioni: l’intonazione è simile a quella de Il riposo delle gabbrigiane, con un contadino che viene ritratto durante un momento di quiete, in un dipinto che lascia intravedere il Gambogi degli anni successivi. Ovvero, un pittore che dimostrerà una vena naturalista che comincerà ad allontanarsi progressivamente dalla lezione dei maestri per virare verso un delicato impressionismo, e soprattutto un interesse per la luce che diverrà, nel torno d’anni a cavallo tra Otto e Novecento, l’elemento preponderante della sua ricerca. Se ne avvertono le avvisaglie già in questo dipinto: la figura del contadino in controluce, i raggi del sole che colpiscono la sua schiena e fanno brillare la sua schiena bianca, le fini modulazioni sul profilo delle montagne, i campi biondi alle pendici delle alture che risaltano nel caldo della luce estiva.
Il Gambogi “impressionista” è quello con cui si familiarizza nella sala successiva, dove son stati disposti alcuni dipinti frutto dei fecondi scambi con la moglie Elin Danielson. È lei che porta nella pittura di Raffaello la luce fredda e delicata del nord Europa, rendendo il marito un postmacchiaiolo originale che vede il paesaggio della costa di Livorno con gli occhi della moglie, con gli occhi d’una finlandese. I due, per adoperare un’efficace immagine di Francesca Cagianelli, “dovettero costituire un fenomeno alquanto anomalo” all’interno della compagine dei pittori che frequentavano la Torre del Lago di Puccini (Plinio Nomellini, Giorgio Kienerk, Ferruccio Pagni, e diversi altri), per via della loro maniera che mescolava “innovazione impressionista” e “ossessione nordica” indirizzata verso la Scuola di Skagen (e in particolare verso Peder Severin Krøyer), che Elin doveva conoscere molto bene. Appartengono a questo periodo dipinti come Pini sul mare, il Pescatorello ad Antignano, entrambi dei primi del Novecento, oppure il più tardo Ore calde del 1916, dipinto estivo che racconta un bagno sul litorale di Antignano, luogo diletto e più d’ogni altro amato: una donna, nuda, se ne va verso il largo, camminando nel mezzo degli scogli, con l’orizzonte che si perde nel bianco della luce del sole. Più tersi sono invece i dipinti dei primi anni del XX secolo, memori della luce cristallina dei pittori danesi conosciuti col tramite di Elin, forse attraverso le riviste, oppure direttamente, sia a Parigi, nel 1900, quando l’artista soggiorna in Francia per raggiungere la moglie che partecipava all’Esposizione Universale di quell’anno, sia in Finlandia l’anno dopo, per il primo soggiorno nella terra d’origine di Elin. S’erano conosciuti verso il 1895: lei era scesa in Italia per ragioni di studio, s’erano subito trovati e, nel 1898, la decisione di sposarsi. “Siamo tutti e due felici e contenti, e stiamo facendo migliaia di progetti per la nostra vita in comune in futuro”, scriveva Elin, poco prima del matrimonio, a una coppia di amici in Finlandia.
Una sala di Villa Mimbelli è stata peraltro riservata anche alle opere di Elin: un inserto utile per consentire un confronto col marito e apprezzare i risultati degli scambi fecondi che intercorsero tra i due grandi artisti, che dipingevano insieme: curioso vedere un dipinto di Raffaello, Il villino Benvenuti, in cui è raffigurata la casa di Benvenuto Benvenuti nella quale lui ed Elin vissero per qualche tempo, e Antignano alto della moglie, che altro non è che la stessa strada dipinta dal marito, ma vista dalla parte opposta, come se lei si fosse messa a dipingere davanti a lui. E allo stesso modo è interessante l’opera Incontri, del 1901, dove le firme di Raffaello ed Elin compaiono assieme, probabilmente perché entrambi lavorarono assieme a questo dipinto che raffigura tre donne, tre amiche, colte in un momento di felicità davanti al mare di Livorno. La visita prosegue poi nella sala dedicata alla degenza di Raffaello Gambogi a Volterra: nel periodo del ricovero, l’arte sola riesce a dare a Raffaello qualche momento di spensieratezza, qualche istante di leggerezza, l’arte sola pare avere su di lui un effetto benefico. Elin ne è consapevole, anche perché lo stesso direttore del frenocomio, il dottor Luigi Scabia, vede nella pittura una sorta d’antidoto al malessere psichico che aveva colpito l’artista: Elin, dunque, lo asseconda, lo lascia dipingere in tranquillità, al prezzo d’esser lei a rinunciare quasi totalmente all’arte per occuparsi della gestione delle faccende di tutti i giorni, oltre che del marito. Guardando i dipinti volterrani quasi non sembra di trovarsi dinnanzi a un artista che prova un profondo disagio: al contrario, le opere di Volterra proseguono le ricerche serene e distese che l’artista conduceva sul lungomare di Livorno, mostrando una città radiosa, con la luce piena del giorno che investe gli antichi monumenti. Sono le chiese e gli edifici del centro storico ad attirare l’attenzione di Gambogi: poco spazio alla figura umana, l’artista trova sprazzi di felicità se ha l’opportunità di concentrarsi sul paesaggio. Qui, la ricerca di Gambogi, ha scritto Francesca Cagianelli, “sembra procedere in direzione di un’amplificazione emotiva della veduta, tra paesaggio-stato d’animo, folklore urbano e memorie architettoniche, dove funzionano da catalizzatori lirici tanto certi sorprendenti prodigi luminosi, quanto una gamma cromatica sempre più evocativa, in termini non dissimili da quelle impressioni concepite da Francesco Gioli sull’onda di una sorta di intuizione musicale, di cui Matilde Bartolommei Gioli coglierà più tardi ‘il carattere del frammento intonato al sentimento del colore: seduzione musicale direbbe Baudelaire’, fino a giudicare il suo Mercato a Volterra non in termini di mera ‘illustrazione del luogo, ma il resultato d’impressioni assimilate’”. Quando invece gli esseri umani entrano nella sua pittura, il tono cambia: è del periodo di Volterra uno dei capolavori di Gambogi, Fra le pazze, monumentale raffigurazione, di sei metri di larghezza, delle degenti del manicomio della cittadina toscana, purtroppo smembrato in epoca imprecisata e oggi noto nella sua totalità soltanto attraverso vecchie fotografie in bianco e nero (in mostra una riproduzione a grandezza naturale è stata installata nella sala delle vedute di Volterra). Oggi ne sopravvive soltanto una parte, quella centrale, conservata al Museo d’Arte di Turku in Finlandia, che raffigura una donna con lo sguardo perso nel vuoto, accudita da un’accompagnatrice che la guarda un poco distaccata mentre la tiene per il braccio durante una passeggiata nel cortile in un’ora d’aria. Presente all’Esposizione Nazionale d’Arte di Milano del 1906, l’opera suscita enorme scalpore, ma dato il tema e date soprattutto le sue dimensioni non riesce a trovare alcun acquirente, neppure tra le istituzioni pubbliche, gli unici soggetti che forse avrebbero potuto comprare un quadro di quelle proporzioni. L’anno dopo, Elin manda l’opera in Finlandia con la speranza di venderla nel suo paese natio, ma senza esiti positivi: dell’opera si perdono dunque le tracce, fino al ritrovamento recente della porzione centrale. Probabile che, per facilitare la vendita di un’opera tanto mastodontica, si decide per lo smembramento.
La conclusione, nell’ultima sala, è per le opere dipinte da Raffaello Gambogi dopo la morte di Elin, occorsa nel 1919 per una polmonite. Anche durante il periodo della depressione e del ricovero a Volterra, l’artista non aveva comunque smesso di frequentare i proprî amici: dopo la scomparsa della moglie però tutto cambia. Raffaello si ritira in un isolamento sempre più mesto (sebbene non mancheranno le mostre, alcune delle quali pure importanti), e la sua pittura risente del suo tormento, anche se la pagina che l’artista scrive negli ultimi anni della sua vita segna una delle vette più originali della sua carriera, e lo dimostrano dipinti come Costa livornese, Via della Bassata o Giardini all’Ardenza, tutti eseguiti tra gli anni Venti e Trenta. Una porzione della carriera di Gambogi che meriterebbe nuovi approfondimenti critici. Le vedute qui si sfaldano in macchie grossolane e indefinite, che diventano sempre più incerte col progredire degli anni. Non manca la ricerca d’un qualche effetto di luce, come quelli che s’apprezzano in Giardini all’Ardenza, col sole che filtra in mezzo ai rami producendo chiazze luminose sul terreno, sotto le fronde dei pini. La pittura di questi anni è però decisamente istintiva, gestuale, pare quasi che Raffaello dipinga d’impulso, aggredendo la superficie del dipinto, talvolta pure graffiandola come in Via della Bassata, dove si vedono, sulla chioma degli alberi, le caratteristiche incisioni saettanti che solcano, in orizzontale e in diagonale, le chiazze di colore con cui l’artista dà forma agli elementi della veduta. Non manca comunque, neppure qui, il senso della luce: per avvedersene è sufficiente indugiare sulla facciata del palazzo. È un’arte di somma originalità, che per certi versi anticipa, naturalmente in maniera del tutto inconsapevole, la pittura degli anni Cinquanta e Sessanta. È il prodotto di un uomo travolto dalle sventure. Un uomo che non aveva altro all’infuori della sua arte.
Chi non si fermerà alla mostra e deciderà di visitare tutto il Museo Fattori, potrà salire d’un piano per ammirare l’opera più famosa di Raffaello Gambogi, che fa parte della collezione permanente dell’istituto, Gli emigranti, opera del 1894 circa che s’annovera tra le principali e le migliori di quante raccontino il dramma dei migranti italiani che, sul finire dell’Ottocento, lasciavano il paese per imbarcarsi alla volta dell’America, spesso partendo da Livorno: gli addii come quelli che l’artista coglie sulla sua tela, centrando la propria attenzione su alcune famiglie che si salutano (al contrario del maestro Angiolo Tommasi che, un paio d’anni dopo, avrebbe fornito una descrizione meno sentimentale e più cronachistica, potremmo dire, della partenza dei migranti dal porto di Livorno) offrendo agli occhi del riguardante una lettura elegiaca e malinconica dell’emigrazione, indugiando anche sulle valigie, tante valigie, che diventano simbolo del bagaglio di speranze che i migranti portano con sé verso il Nuovo Continente. Vedendo anche quest’opera, si riuscirà ad avere un profilo ancor più completo di Gambogi, che arriva dunque al pubblico con una mostra di sicuro interesse, in grado di proseguire quel percorso di riscoperta dell’artista avviato sette anni fa con la mostra di Collesalvetti, prima antologica mai dedicata al pittore livornese, rispetto alla quale l’attuale rassegna ha dimensioni più contenute pur mantenendo lo stesso impianto e pur mancando di alcuni lavori importanti che invece erano presenti alla mostra del 2017 (per esempio il Cacciatore, di cui la nuova mostra espone una riproduzione a grandezza naturale, oppure La mattina del giorno di festa di cui comunque si dà adeguatamente conto in catalogo).
Ne emerge un ulteriore, completo ritratto dell’artista, dipinto seguendo l’intero itinerario della sua vita e della sua carriera, nelle sale d’un museo la cui visita permette d’approfondire ulteriormente il contesto entro cui si sviluppò l’arte di Raffaello Gambogi. Sono queste le mostre che ci si aspetta di vedere a Livorno. Un omaggio utile nell’ottantesimo anniversario della scomparsa a quel “pittore emotivo ed empatico” e a quell’“uomo ipersensibile e inquieto”, come lo definisce Giovanna Bacci di Capaci, che ha vergato uno dei capitoli più significativi dell’arte del suo tempo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).