La mostra su Pietro Paolini e i pittori della luce: Lucca ritrova i suoi caravaggeschi


Recensione della mostra “I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini”, a Lucca, Ex Cavallerizza, dall'8 dicembre 2021 all'8 ottobre 2022.

Il 1968 fu un anno di somma importanza per la città di Lucca: apriva le porte al pubblico il Museo Nazionale di Villa Guinigi, acquisita dallo Stato vent’anni prima, e sottoposta per due decennî ai doverosi lavori di restauro e di sistemazione delle collezioni. Contestualmente veniva pubblicato il primo catalogo della raccolta, e in quel fondamentale volume Silvia Meloni Trkulja, nella parte sulla pittura del Seicento da lei curata, poteva scrivere che, nella rivalutazione della pittura italiana del secolo XVII, Pietro Paolini era andato a “occupare un posto più che onorevole, per la formazione e la tenuta pittorica ben superiore a un livello provinciale, per l’attualità e la ragionata ampiezza della sua cultura”. Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta che indagava con ammirevole lena le proprie radici, che apriva musei fin nei borghi più sperduti e che riscopriva i grandi pittori locali del passato, Lucca aveva trovato uno dei suoi campioni, quel Pietro Paolini ch’era stato a Roma negli anni in cui il linguaggio caravaggesco orientava le scelte dei committenti e le inclinazioni degli artisti, che aveva compiuto il suo alunnato nella bottega di Angelo Caroselli e che se n’era tornato in patria arricchito d’esperienze che avrebbero fatto di lui quel “caravaggesco bizzarro”, come lo definisce Nikita de Vernejoul ricalcando il giudizio che di lui diede Filippo Baldinucci, capace ancor oggi di suscitare moti di vivo stupore in chiunque, trovandosi dentro una chiesa o un museo di Lucca, finisca al cospetto delle sue pitture.

In effetti, Paolini conosceva in quegli anni una stagione di studî densi e d’autentica riscoperta, lui che figurava nella Storia pittorica d’Italia dell’abate Lanzi, che aveva ottenuto il privilegio d’una biografia nelle Notizie de’ professori del disegno di Baldinucci (è il grande storiografo fiorentino a dirlo “pittore di gran bizzarria e di nobile invenzione”, uso a dipingere “con gran pazienza e studio”), che aveva disseminato i suoi dipinti per tutta la città, ch’era menzionato in tutte le guide degli eruditi locali fin dal Settecento e che cominciava a comparire financo nella pubblicistica odeporica. Impossibile, del resto, visitare Lucca senza imbattersi in un’opera di Pietro Paolini. Prima che Meloni Trkulja parlasse d’un Paolini rivalutato, avevano scritto di lui Anna Ottani Cavina e Alessandro Marabottini Marabotti che avevano contribuito a inquadrarne il percorso, e più tardi, nel 1987, Patrizia Giusti Maccari avrebbe curato la prima e per adesso ancora unica monografia sul pittore lucchese. Dopodiché, poco altro da segnalare: l’interesse nei suoi confronti è rimasto confinato all’ambito locale. E mai fino a oggi Pietro Paolini aveva goduto d’una sua mostra monografica. Che è arrivata a fine 2021, sotto mentite spoglie: il curatore, Vittorio Sgarbi, l’ha infatti intitolata I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini. Titolo certo adulatorio, tutto concentrato nell’intento di blandire il pubblico riservando al gran protagonista della rassegna soltanto l’ottava parola, l’ultima, di cui è composto, e sbandierando il nome di Caravaggio, presente invero solo nella prima sala, per di più con una riproduzione e con due opere che mai hanno messo d’accordo tutta la critica. Le code fuori dalle porte della Cavallerizza di Lucca sono il più icastico e tangibile attestato della riuscita dell’operazione. Ma se l’intento, nobilissimo, è quello di far conoscere Pietro Paolini al pubblico nazionale (ma anche agli stessi lucchesi), allora val bene anche uno di quei titoli carezzevoli che fanno inorridire i puristi.

Quali le ragioni della sfortuna espositiva di Pietro Paolini? Probabilmente il motivo è uno soltanto: il fatto che le cure della critica verso di lui non abbiano mai oltrepassato la cerchia muraria che cinge la città. “Il nome di Pietro Paolini”, scrive Sgarbi, “non è mai stato evocato, per esempio, dal Berenson, dal Longhi e dal Voss, che non gli riconobbero la statura che gli era dovuta, dedicandogli attenzione e considerazione”. La monografia di Giusti Maccari, preceduta da un saggio di Elisabetta Giffi pubblicato su Prospettiva nel 1986 (in cui la studiosa lamentava, peraltro, il silenzio nel quale l’artista era di nuovo piombato), ha effettivamente aperto la strada a un’altra stagione di studî su Paolini, culminati con la mostra sul primo Seicento a Lucca del 1994-1995 curata da Maria Teresa Filieri che però considerava tutto il fecondo ambiente artistico lucchese del tempo, e proseguiti coi lavori recenti di studiosi come Gianni Papi, la stessa Nikita de Vernejoul, Stefania Macioce, Paola Betti. Paolini però non ha avuto la fortuna ch’è toccata, giusto per elencare qualche nome, a un Orazio Gentileschi, a un Valentin de Boulogne, a un José de Ribera, ma anche più banalmente a un Battistello Caracciolo o a un Giovanni Serodine. E nelle mostre dedicate ai caravaggeschi, Paolini, sempre ammesso che fosse presente, non riusciva nemmeno a ottenere un ruolo da comprimario. La mostra di Sgarbi risarcisce pertanto una lacuna, e lo fa con un percorso ordinato in maniera impeccabile, con uno sviluppo lineare, accompagnando il visitatore dapprima nella Roma segnata dall’astro di Caravaggio, negli anni che immediatamente seguono la sua scomparsa, poi nella Lucca che vede crescere e affermarsi il genio di Paolini, e infine sonda con dovizia il vivissimo lascito del maestro, concedendo ampio spazio alle vicende di Girolamo Scaglia e di Giovanni Domenico Lombardi, i due pittori che più guardarono a Paolini. E non solo a loro.

Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini
Sala della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini

L’itinerario di visita parte da una sala che, a mo’ d’introibo, fissa i punti cardinali entro i quali occorre collocare il percorso di Pietro Paolini. Appena s’entra, varcato l’ingresso ci si trova davanti all’Adorazione dei pastori di Pieter Paul Rubens, in arrivo dalla Pinacoteca Civica di Fermo: prestito felicissimo per la mostra, un meraviglioso notturno del 1608 che trasporta il visitatore nelle atmosfere dei dipinti del tempo (da cogliere il legame storico che unisce Rubens a Caravaggio, dacché fu il grande fiammingo a segnalare la Morte della Vergine del lombardo a Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova che l’acquistò) e che introduce quel gusto neoveneto cui lo stesso Paolini non fu immune. E la Natività di Fermo è cronologicamente vicina alla Madonna della Vallicella di Rubens, dipinto che, scriveva Giusti Maccari nella sua monografia su Paolini, venne accolto “come reazione al classicismo bolognese”, e che riprendeva dai pittori veneti “gli aspetti più vistosi, quali l’impasto ricco di materia, la felicità d’invenzione, l’immediatezza d’esecuzione”. Nella stessa sala, oltre al facsimile del Seppellimento di santa Lucia di Caravaggio presente per dar conto al pubblico delle fasi estreme della sua attività, s’ammirano due opere discusse, il Ragazzo che monda un frutto e il Cavadenti, posti di fronte a un Sansone e Dalila del lucchese Pietro Sigismondi, inserito qui per mostrare cosa s’andava producendo a Lucca nel momento stesso in cui Caravaggio lasciava per sempre Roma (l’opera di Sigismondi, tardomanierista, è del 1606). Particolarmente suggestiva la presenza del Cavadenti, teso a render evidente quel rapporto di “diretta filiazione caravaggesca” (così scriveva Giffi nel saggio del 1986) palesato da certe opere di Pietro Paolini (su tutte, lo si vedrà, i due grandi martirî oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi) nelle quali il pittore lucchese affolla “gli spazî angusti di scorci improvvisi, gesti convulsi ed espressioni disperate”. E non è ozioso ricordare come Giffi chiamasse in causa, per esplicitare queste relazioni di discendenza, proprio il Cavadenti per il quale Carlo Volpe, nel 1970, avanzava addirittura il nome d’un pittore vicino a Paolini per l’esecuzione delle figure centrali.

Il saggio di Elisabetta Giffi entrava nel merito dei legami tra Pietro Paolini e il suo maestro romano, Angelo Caroselli: la formazione del lucchese presso di lui è attestata dalla letteratura ma non dalle carte, e ovviamente è testimoniata dalle tangenze stilistiche. Prima d’arrivare a Caroselli, tuttavia, la mostra indugia per una sala o due sulla Roma che rimane folgorata dalla luminosa stella di Caravaggio cogliendone il portato rivoluzionario: una contestualizzazione necessaria per comprendere la risposta degli artisti a quell’ultimo Caravaggio “tutto a luce artificiale”, rimarca Sgarbi nell’introduzione del catalogo. S’indagano prima gli artisti più prossimi al milanese: lo Spadarino che rivisita il tradizionale tema iconografico dell’Angelo Custode in una sofisticata composizione tutta orchestrata sulle gradazioni del bianco, quel Giovanni Baglione troppo spesso ridotto sbrigativamente al rivale più acre di Caravaggio ma in realtà pittore che immediatamente risponde al realismo del Merisi aggiornando il suo linguaggio (è presente con una Madonna incoronata), il ticinese Giovanni Serodine che medita sui rapporti di luce e ombra, oltre che sull’espressioni dei personaggi, con il suo Cristo deriso, e uno dei caravaggeschi della prima ora, il marchigiano Giovanni Francesco Guerrieri, presente a Lucca nella sua dimensione di raffinato inventore, sacro e profano, di composizioni che declinano il naturalismo caravaggesco “con ricercate eleganze mondane e ornate che rinviano ai più moderni, fastosi e colorati esempi di pittori come Angelo Caroselli e Pietro Paolini” (così Pietro Di Natale). Non vengono trascurate tutte le diramazioni che saranno fondamentali per Paolini, e che il pittore lucchese poté studiare durante il suo lungo soggiorno romano. Una delle repliche dell’Amore vincitore di Orazio Riminaldi (“paragonabile qualitativamente all’archetipo caravaggesco”, scrive Pierluigi Carofano nel catalogo) è la più viva dimostrazione della spesso negletta linea caravaggista che si diffuse anche in Toscana, argomento su cui interviene con un saggio lo stesso Carofano che della materia è uno dei massimi esperti. Da segnalare, per restare in tema, anche un bell’inedito di Rutilio Manetti, una Cattura di san Pietro studiata per l’occasione da Marco Ciampolini e dallo stesso Sgarbi. Il realismo accuratissimo ed esasperato dei napoletani trova un esempio più che eloquente nel San Girolamo di José de Ribera, della Fondazione Cavallini Sgarbi. Ci sono le meditazioni sui lumi delle candele dei maestri nordici: ecco dunque il delicato controluce di Cupido risvegliato da Psiche di Trophime Bigot.

Le operazioni d’avvicinamento a Pietro Paolini raggiungono il climax col trio composto da Valentin de Boulogne, Paolo Guidotti e Bartolomeo Manfredi, prima di giungere, ovviamente, ad Angelo Caroselli. “Valentin de Boulogne”, ha scritto Nikita de Vernejoul, “è l’artista a cui Paolini si avvicina di più, stilisticamente e concettualmente. Si saranno incrociati per strada, in botteghe di pittori o in case di mercanti d’arte. Paolini adotta l’inquadratura serrata che concentra l’attenzione sull’essenziale, i volumi pieni delle figure ritagliate, la pennellata grassa e l’illuminazione laterale che stacca i volti dallo sfondo”. Puntuali arrivano il San Girolamo e il San Giovanni Battista di Camerino, capolavori di realismo epidermico che coi Girolami di Ribera e del lucchese Paolo Biancucci vanno a comporre uno dei vertici della mostra. Paolo Guidotti, detto il Cavalier Borghese, è colui che porta a Lucca “la prima ventata filocaravaggesca”, per usare un’efficace espressione di Paola Betti: l’artista torna in città nel 1611 e a lui spetta il primato d’aver condotto a Lucca le novità. Di lui ecco un Caino e Abele con scorcio ardito. Bartolomeo Manfredi è invece presente per trasmettere l’idea d’un Paolini ch’è tra i più originali interpreti della sua maniera fondata su verismo, freschezza e politezza sostenuta da accurato disegno: “Manfredi Manier” l’aveva chiamata Joachim von Sandrart, e manfrediana methodus sarebbe stata tradotta in seguito, con un’espressione ch’è stata però di recente contestata da Gianni Papi in quanto fuorviante, poiché sottoposta al rischio di far diventare il cremonese una sorta di caposcuola che forse non è mai stato. Come la si voglia pensare, quest’intonazione è comunque rappresentata in mostra da due dipinti della bottega di Manfredi: i Giocatori di carte testimoniano in modo vivo il successo che arrise al genere inventato da Manfredi. Infine arriva Caroselli, anch’egli fautore d’un caravaggismo bizzarro (si veda la Negromante della Pinacoteca Civica di Ancona), anch’egli seguace dei modi manfrediani ma attirato anche dalle finezze toscane di Orazio Gentileschi, e la cui fisionomia di maestro di Paolini è ben ricostruita da Marta Rossetti in catalogo.

Pieter Paul Rubens, Adorazione dei pastori (1608; olio su tela, 300 x 192 cm; Fermo, Pinacoteca Civica)
Pieter Paul Rubens, Adorazione dei pastori (1608; olio su tela, 300 x 192 cm; Fermo, Pinacoteca Civica)
Caravaggio, Ragazzo che monda un frutto o Mondafrutto (fine del XVI secolo; olio su tela, 64,2 x 51,4 cm; Collezione privata)
Caravaggio, Ragazzo che monda un frutto o Mondafrutto (fine del XVI secolo; olio su tela, 64,2 x 51,4 cm; Collezione privata)
Caravaggio, Cavadenti (1608 circa; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)
Caravaggio, Cavadenti (1608 circa; olio su tela, 148,6 x 212,3 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)
Pietro Sigismondi, Sansone e Dalila (1606; olio su tela, 152 x 132 cm; Lucca, Banca del Monte di Lucca)
Pietro Sigismondi, Sansone e Dalila (1606; olio su tela, 152 x 132 cm; Lucca, Banca del Monte di Lucca)
Giovan Antonio Galli detto Spadarino, Angelo custode (Ante 1618; Patrimonio del Fondo Edifici di Culto, amministrato del Ministero dell’Interno-Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione- Direzione Centrale degli Affari dei Culti e per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto)
Giovan Antonio Galli detto Spadarino, Angelo custode (ante 1618; olio su tela, 262 x 148 cm; Patrimonio del Fondo Edifici di Culto, amministrato del Ministero dell’Interno-Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione-Direzione Centrale degli Affari dei Culti e per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto)
Giovanni Baglione, Madonna incoronata (1615-1620 circa; olio su tela, 133 x 93,5 cm; Collezione privata)
Giovanni Baglione, Madonna incoronata (1615-1620 circa; olio su tela, 133 x 93,5 cm; Collezione privata)
Giovanni Serodine, Cristo deriso (1626 circa; Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst)
Giovanni Serodine, Cristo deriso (1626 circa; Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst)
Giovanni Francesco Guerrieri, Ercole e Onfale (1617-1618; Pesaro, collezione privata)
Giovanni Francesco Guerrieri, Ercole e Onfale (1617-1618; olio su tela, 151 x 206,5 cm; Pesaro, collezione privata)
Orazio Riminaldi, Amore vincitore (1620 circa; Collezione privata)
Orazio Riminaldi, Amore vincitore (1620 circa; olio su tela, 140 x 110 cm; Collezione privata)
Rutilio Manetti, Cattura di san Pietro (1637-1639; olio su tela, 233 x 204 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Rutilio Manetti, Cattura di san Pietro (1637-1639; olio su tela, 233 x 204 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
José de Ribera, San Girolamo (1648 circa; olio su tela, 125 x 99 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
José de Ribera, San Girolamo (1648 circa; olio su tela, 125 x 99 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Trophime Bigot, Cupido risvegliato da Psiche (1620-1630 circa; olio su tela, 90 x 126 cm; Teramo, Pinacoteca Civica)
Trophime Bigot, Cupido risvegliato da Psiche (1620-1630 circa; olio su tela, 90 x 126 cm; Teramo, Pinacoteca Civica)
Valentin de Boulogne, San Girolamo (1628; olio su tela, 130 x 90 cm; Camerino, Deposito Museale Venanzina Pennesi)
Valentin de Boulogne, San Girolamo (1628; olio su tela, 130 x 90 cm; Camerino, Deposito Museale Venanzina Pennesi)
Paolo Guidotti detto il Cavalier Borghese, Caino e Abele (1620; olio su tavola, 73,5 x 106,7 cm; Collezione privata)
Paolo Guidotti detto il Cavalier Borghese, Caino e Abele (1620; olio su tavola, 73,5 x 106,7 cm; Collezione privata)
Bartolomeo Manfredi (bottega di), Giocatori di carte (1620-1630; olio su tela, 146 x 187 cm; Collezione Guicciardini)
Bartolomeo Manfredi (bottega di), Giocatori di carte (1620-1630; olio su tela, 146 x 187 cm; Collezione Guicciardini)
Angelo Caroselli, La negromante (1626-1636 circa; olio su tela, 44 x 35 cm; Ancona, Pinacoteca Civica Francesco Podesti)
Angelo Caroselli, La negromante (1626-1636 circa; olio su tela, 44 x 35 cm; Ancona, Pinacoteca Civica Francesco Podesti)

Il viaggio nelle sale dedicate a Paolini può principiare dalla Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina, in prestito dal Museo Nazionale di Villa Guinigi, assieme ai due grandi martirî che sono esposti a poca distanza. Opera giovanile, del 1626, la Madonna del Rosario conserva nello schema compositivo un gusto cinquecentesco mutuato dalle Madonne di Andrea del Sarto, ma inediti per la Toscana del tempo sono i forti contrasti chiaroscurali che scaturiscono dalla modulazione della luce: soluzioni che, sottolinea Giusti Maccari nella scheda del dipinto, dànno conto dell’esperienze naturalistiche maturate da Paolini durante il suo soggiorno romano, dal quale aveva fatto proprio quell’anno temporaneo rientro. Il Negromante esposto sulla parete a fianco dialoga col dipinto d’omologo soggetto (ancorché al femminile) di Caroselli che il visitatore ha visto nella sala precedente: il rapporto col maestro diviene esplicito nell’evidenza fisiognomica del personaggio (ma lo stesso può dirsi, del resto, per la Madonna del Rosario), oltre che nel comune accento bizzarro ch’emerge con forza dal dipinto della Fondazione Cavallini Sgarbi. Raffinatissime sono Le tre età della vita che s’ammirano proprio a fianco del Negromante: opera di collezione privata, restituisce un’ulteriore dimensione di Pietro Paolini che si scopre anche artista capace di comporre sofisticate allegorie, esaltate dalla straordinaria qualità dei brani di natura morta cui è affidato il compito di trasmettere il portato simbolico del dipinto, una complessa riflessione sulla caducità della vita che comincia e finisce col vecchio che si vede sulla sinistra, una delle figure più commoventi della pittura di Paolini.

Meriterebbero quasi una mostra a sé le due pareti di fronte, dove s’ha modo d’osservare il Paolini più concitato, quello del Martirio di san Bartolomeo, del Martirio di san Ponziano e dell’Eccidio degli ufficiali del generale Wallenstein. I due martirî son forse le opere più famose di Paolini, e sono anche probabilmente le due opere più schiettamente caravaggesche dell’intero suo percorso: il giovane lucchese ben ricorda, specialmente nel Martirio di san Bartolomeo, il precedente del Martirio di san Matteo di Caravaggio, e si dimostra qui mosso dall’intento di riverberare in patria l’altissima lezione appresa a Roma, con due dipinti animati da guizzi di luce che assumono funzioni narrative, da un verismo studiatissimo (basti osservare la tragica figura di san Ponziano, o quella dello sgherro che urla sguaiato all’indirizzo di san Bartolomeo), da composizioni turbinose che col loro caos furibondo accrescono la partecipazione del riguardante. Tutto, qui, è teso al coinvolgimento emozionale di chi guarda, e le sapienti modulazioni della luce aumentano il dramma che qui si consuma. E senza che ci sia ricorso a dettagli particolarmente cruenti: la forza del pennello di Pietro Paolini e l’intelligenza dei suoi effetti son sufficienti per trascinarci dentro alle sue invenzioni. Singolare è l’Eccidio sulla parete contigua, un hapax che richiama un fatto dell’epoca: dipinto politico, dunque, commissionato a Paolini nel 1634 dalla famiglia Diodati per dimostrare la propria fedeltà all’impero (e, di rimando, la fedeltà della Repubblica di Lucca: la stabilità del piccolo Stato si fondava anche sull’accortezza delle relazioni internazionali). Fu infatti l’imperatore Ferdinando II a ispirare la congiura che il 25 gennaio del 1634, in Boemia, portò all’uccisione del generale Albrecht von Wallenstein, divenuto scomodo: Giulio e Fabio Diodati, esponenti di spicco della famiglia, erano stati al servizio di Wallenstein, e avevano appoggiato la congiura. Qui Paolini introduce alcune novità dopo il soggiorno a Venezia: c’è un’esecuzione più spontanea, la pennellata si fa più pastosa, i colori sono più accesi, la luce diviene più calda. Non mancano però le memorie romane: lo splendido brano della colonna illuminata da una luce fievole è lì a rammentarlo.

Proseguendo, s’incontrano altri luminosi esempî dell’arte di Paolini e ci s’inoltra lungo le opere della sua maturità. Ci si sofferma davanti al Cantore adoperato per l’immagine coordinata della mostra e al Ritratto d’uomo che scrive al lume di una lucerna, forse un autoritratto dell’artista, che risponde ai dipinti a lume di candela dei pittori nordici che Paolini aveva osservato a Roma. Nella stessa sala ecco poi il Concerto a cinque figure, che negli anni Ottanta era esposto in un locale notturno di Roma, l’Open Gate Club, e dove improvvisi e larghi squarci di luce rompono il buio per investire i volti delle figure, in questo caso tutti maschi intenti a suonare e a cantare. Da Palazzo Mansi giunge un capolavoro di tenebrismo quale è l’Allegoria della vita e della morte, e si torna poi sui dipiti allegorici con un’opera degli anni Cinquanta, il Banchetto musicale carico di significati simbolici, e singolare per i dettagli che fuoriescono dalla cornice. Il Cupido dormiente della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca riporta alla mente il ben noto precedente caravaggesco, mentre le Compratrici di uova offrono intanto testimonianza d’un filone che vide Paolini molto attivo, quello delle scene di genere: i due più interessanti esempî in tal senso, il Pollarolo e il Mondinaro, non sono in mostra, ma stanno a poca distanza, ovvero a Palazzo Mansi. Inoltre, le Compratrici sono anche il viatico per condurre il visitatore verso la fine dell’esposizione, dacché si tratta d’un’opera che Paolini eseguì assieme al suo allievo Simone del Tintore (al quale si devono i brani naturamortistici) e permette dunque d’allargare lo sguardo sulle vicende della pittura lucchese dopo Paolini, con le quali la mostra s’avvia alla chiusura.

Pietro Paolini, Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina (1626; olio su tela, 199 x 194 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina (1626; olio su tela, 199 x 194 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Negromante (1630 circa; olio su tela, 70 x 93 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Pietro Paolini, Negromante (1630 circa; olio su tela, 70 x 93 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Pietro Paolini, Le età della vita (1628-1629 circa; Collezione privata)
Pietro Paolini, Le età della vita (1628-1629 circa; olio su tela, 120 x 161,5 cm; Collezione privata)
Pietro Paolini, Martirio di san Bartolomeo (1633; olio su tela, 253 x 173 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Martirio di san Bartolomeo (1633; olio su tela, 253 x 173 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Martirio di san Ponziano (1633 circa; olio su tela, 253 x 173 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Martirio di san Ponziano (1633 circa; olio su tela, 253 x 173 cm; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro Paolini, Eccidio degli ufficiali del generale Albrecht von Wallenstein (post 1634; olio su tela, 234 x 400 cm; Lucca, Palazzo Orsetti)
Pietro Paolini, Eccidio degli ufficiali del generale Albrecht von Wallenstein (post 1634; olio su tela, 234 x 400 cm; Lucca, Palazzo Orsetti)
Pietro Paolini, Cantore (1625 circa; olio su tela, 88 x 69 cm; Roma, Fondazione Boris Christoff)
Pietro Paolini, Cantore (1625 circa; olio su tela, 88 x 69 cm; Roma, Fondazione Boris Christoff)
Pietro Paolini, Ritratto d’uomo che scrive al lume di una lucerna (autoritratto?) (1635-1640; Collezione privata)
Pietro Paolini, Ritratto d’uomo che scrive al lume di una lucerna (autoritratto?) (1635-1640; olio su tela, 146 x 108 cm; Collezione privata)
Pietro Paolini, Concerto a cinque figure (1635-1640; olio su tela, 122 x 196 cm; Collezione Francesco Micheli)
Pietro Paolini, Concerto a cinque figure (1635-1640; olio su tela, 122 x 196 cm; Collezione Francesco Micheli)
Pietro Paolini, Allegoria della vita e della morte (1633-1635 circa; olio su tela, 69 x 120 cm; Lucca, Museo Nazionale di Palazzo Mansi)
Pietro Paolini, Allegoria della vita e della morte (1633-1635 circa; olio su tela, 69 x 120 cm; Lucca, Museo Nazionale di Palazzo Mansi)
Pietro Paolini, Banchetto musicale (1650 circa; olio su tela, 134 x 178 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Pietro Paolini, Banchetto musicale (1650 circa; olio su tela, 134 x 178 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Pietro Paolini, Cupido dormiente (1650-1660 circa; olio su tela, 69,5 x 119 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Pietro Paolini, Cupido dormiente (1650-1660 circa; olio su tela, 69,5 x 119 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Pietro Paolini e Simone del Tintore, Compratrici di uova (1670-1675; olio su tela, 133 x 193 cm; Lucca, Collezione privata)
Pietro Paolini e Simone del Tintore, Compratrici di uova (1670-1675; olio su tela, 133 x 193 cm; Lucca, Collezione privata)

Comune agli artisti che seguirono Paolini è la tecnica ben descritta da Paola Betti nel suo saggio: una tecnica “che possiamo definire a patchwork, consistente nel prelevare porzioni di una composizione per trasferirle pari pari all’interno di altre, porzioni che quindi troviamo riprodotte in modo palmare in più di un lavoro dello stesso pittore”. Esempio di questo modus operandi è lo Zampognaro di Simone del Tintore, coi due protagonisti, il suonatore e la vecchia, che tornano variamente in altri dipinti noti dell’artista (benché non presenti in mostra), uno dei seguaci più fedeli di Paolini. Più complessa la personalità di Pietro Ricchi, infaticabile viaggiatore sempre aperto a spunti nuovi: guarda al luminismo dei nordici (come attesta la Giuditta con la testa di Oloferne dal Castello del Buonconsiglio di Trento), accoglie talvolta un realismo popolaresco e devoto d’ispirazione lombarda (il Riposo durante la fuga in Egitto, sempre da Trento), introduce raffinati cangiantismi e si fa più immediato dopo l’incontro con l’arte veneta (La regina Tomiri con la testa di re Ciro).

È poi la volta del meticoloso Girolamo Scaglia, altro creato di Paolini, a lui molto vicino: la riduzione ai minimi termini della violenza nella Giuditta esposta in mostra, opera nella quale l’artista intende semmai insistere sulla ferocia del contrasto tra la bellezza eburnea dell’eroina e la vecchiaia dell’ancella, dà conto della sua capacità d’interpretare in maniera originale i temi della pittura del tempo, esattamente come accade nella Caducità della vita e del potere terreno, un memento mori “di notevole potenza espressiva e simbolica, improntato da una stesura veloce che palesa una piena padronanza dei mezzi pittorici” (così Paola Betti). La stessa forza s’ammira nel regale e potente Davide di collezione privata. La mostra si chiude infine col vero dominus della pittura lucchese d’inizio Settecento, Giovanni Domenico Lombardi detto l’Ometto, al quale, scrive ancora Betti, va “riconosciuta una posizione di rilievo pari a quella occupata da Paolini nel secolo precedente sia per il livello qualitativo raggiunto sia per la ricchezza della produzione che ha toccato tutti i generi tematici”. Anche Lombardi, come Ricchi, è artista dalla cultura varia e composita: si passa dunque dal classicismo del Martirio dei santi Giovanni e Paolo all’affolatissima Morte di Virginia dove l’onda lunga dell’eco caravaggesca è attenuata dalle pastosità della pittura veneziana, s’attraversano scene di genere di gusto ancora secentesco come la Scena di seduzione e inganno fino ad arrivare a una sorprendente, neocorreggesca Adorazione dei pastori.

Simone del Tintore, Zampognaro e vecchia con cane (1680-1685 circa; olio su tela, 160 x 180 cm; Lucca, Collezione privata)
Simone del Tintore, Zampognaro e vecchia con cane (1680-1685 circa; olio su tela, 160 x 180 cm; Lucca, Collezione privata)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, Giuditta con la testa di Oloferne (1640-1645 circa; Trento, Castello del Buonconsiglio)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, Giuditta con la testa di Oloferne (1640-1645 circa; olio su tela, 103 x 114 cm; Trento, Castello del Buonconsiglio)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, Riposo durante la fuga in Egitto (1645 circa; olio su tela, 91 x 70 cm; Trento, Castello del Buonconsiglio)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, Riposo durante la fuga in Egitto (1645 circa; olio su tela, 91 x 70 cm; Trento, Castello del Buonconsiglio)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, La regina Tomiri con la testa di re Ciro (1650-1655 circa; olio su tela, 100 x 140,5 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Pietro Ricchi detto Il Lucchese, La regina Tomiri con la testa di re Ciro (1650-1655 circa; olio su tela, 100 x 140,5 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Girolamo Scaglia, Giuditta e l'ancella Abra con la testa di Oloferne (1660 circa; olio su tela, 124 x 162,5 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Girolamo Scaglia, Giuditta e l’ancella Abra con la testa di Oloferne (1660 circa; olio su tela, 124 x 162,5 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Girolamo Scaglia, Caducità della vita e del potere terreno (1665 circa; olio su tela, 67 x 86 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Girolamo Scaglia, Caducità della vita e del potere terreno (1665 circa; olio su tela, 67 x 86 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Giovanni Domenico Lombardi detto L'Ometto, Martirio dei santi Giovanni e Paolo (1715-1720 circa; olio su tela, 136 x 102,7 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Giovanni Domenico Lombardi detto L’Ometto, Martirio dei santi Giovanni e Paolo (1715-1720 circa; olio su tela, 136 x 102,7 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Giovanni Domenico Lombardi detto L'Ometto, La morte di Virginia (1720-1725 circa; olio su tela, 154 x 191 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Giovanni Domenico Lombardi detto L’Ometto, La morte di Virginia (1720-1725 circa; olio su tela, 154 x 191 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Giovanni Domenico Lombardi detto L'Ometto, Scena di seduzione e inganno (1730-1735 circa; olio su tela, 106,5 x 153 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Giovanni Domenico Lombardi detto L’Ometto, Scena di seduzione e inganno (1730-1735 circa; olio su tela, 106,5 x 153 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Giovanni Domenico Lombardi detto L'Ometto, Adorazione dei pastori (1735-1740 circa; olio su tela, 150 x 100 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
Giovanni Domenico Lombardi detto L’Ometto, Adorazione dei pastori (1735-1740 circa; olio su tela, 150 x 100 cm; Lucca, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)

Non c’è dubbio che Pietro Paolini sia stato tra gl’interpreti più originali e versatili del verbo caravaggesco, e che sia artista che può ben elevarsi al rango dei più importanti maestri toscani del Seicento: bene lo sanno gli studiosi (e la mostra curata da Vittorio Sgarbi ha peraltro radunato una compagine d’altissimo livello, tra quanti hanno firmato i testi del catalogo, ovvero i soprammenzionati Betti, de Vernejoul, Carofano, Giusti Maccari e Rossetti cui s’aggiungono Alberto Ambrosini e Roberto Rapuano, e quanti hanno redatto le schede delle opere: son presenti tutti gli esperti della materia), e con I pittori della luce adesso anche il grande pubblico può quanto meno essersi fatto un’idea, dopo aver visitato una delle più significative mostre sul Seicento che si sian viste in Italia negli ultimi anni. I visitatori si preparino alla visita d’una mostra fondata su di un progetto scientifico di alto livello e presentata con allestimenti che son tutto fuorché convenzionali: luce che si può ben dire caravaggesca e che favorisce anche un approccio contemplativo, pannelli di sala completamente assenti (tipico delle mostre curate da Vittorio Sgarbi: per chi arriva con l’intenzione di saperne di più l’audioguida sarà un accessorio ineludibile), le grandi sculture di Cesare Inzerillo e Marilena Manzella (i fan di Sgarbi li hanno già visti nei varî “musei della follia”) che ingrandiscono oltre misura certi dettagli ricorrenti nei dipinti del tempo (una candela, una pera, un sudario, una viola) e che a loro volta ricorrono incombenti tra una sala e l’altra. C’è anche, eventualità rara per mostre d’arte antica, il sottofondo sonoro, con musiche originali composte da Lello Analfino.

E ci sono, naturalmente, le opere: un centinaio, con una selezione calibrata con la massima attenzione. Mancano, sì, alcune importanti opere di Paolini conservate nelle raccolte internazionali, a cominciare dall’Allegoria dei cinque sensi del Walters Art Museum di Baltimora e dalla più recente acquisizione del catalogo paoliniano, la Penelope attribuita all’artista da Marco Ciampolini quand’è andata all’asta nel 2016, e poi pubblicata da Massimo Francucci lo scorso anno, dopo ch’è stata esposta alla mostra su Ulisse a Forlì. Ma sono assenze che non scalfiscono la solida impalcatura della mostra. I pittori della luce è una mostra accurata, che colma un vuoto e scrive una pagina rilevante negli studî sulla pittura del Seicento in Toscana, andando a comporre un percorso che approfondisce la figura di Pietro Paolini e ne valuta le conseguenze sulle arti a Lucca. La selezione coglie per lo più da collezioni particolari, ma non tralascia diverse fondamentali opere dai musei del territorio e non solo, senza tuttavia impoverirlo. Chi vorrà, vada dunque a Villa Guinigi a sbigottirsi di fronte all’enorme Convito di san Gregorio Papa, approfondisca il Paolini pittore di genere a Palazzo Mansi, s’allunghi fino alla chiesa di Gattaiola per scoprire una pala dell’artista nel suo habitat, entri in San Michele in Foro per vedere quel capolavoro che è il Martirio di sant’Andrea, s’inoltri nel tempio del Seicento lucchese, l’Oratorio degli Angeli Custodi, gioiello restaurato di recente dove s’ammirano le pitture di molti degli artisti che operarono in città nella seconda metà del secolo. La mostra stessa è il miglior invito.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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