di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 24/02/2019
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Arte contemporanea
Recensione della mostra ”Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia“, a Bologna, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, dal 29 gennaio al 13 aprile 2019.
Il paesaggio, ne era convinto Henri-Frédéric Amiel, rivela uno stato della nostra anima. Il filosofo francese affidava questo pensiero al suo Journal intime redatto tra il 1883 e il 1884: chiusa da alcuni decennî (ma in certo modo ancora viva) l’esperienza di Friedrich coi suoi panorami alla finestra, pienamente accettata l’invenzione della macchina fotografica (o almeno così dai pittori più aperti, moderni e lungimiranti), e ormai imboccata la strada che avrebbe portato molti all’abbandono d’un’arte basata sulla pura mímesis, anche la pittura di paesaggio era pronta per un’ulteriore rivoluzione. Friedrich, osservando la sua Dresda da dietro la finestra dello studio, aveva introdotto nella pittura di paesaggio il soggetto che l’osservava (e si trattava d’una visione struggente, un desiderio irrealizzabile, una romantica smania d’infinito che non poteva trovare soddisfazione), gl’impressionisti avrebbero per primi studiato il variare delle condizioni della luce sul panorama, e ancora certa pittura simbolista prima (Khnopff su tutti) e divionista poi (si pensi a Segantini, a Grubicy, a De Maria, per certi versi anche a Morbelli) avrebbe caricato il paesaggio d’un’inedita tensione spirituale per adoperarlo come mezzo atto a trasmettere un determinato stato d’animo al riguardante. E di lì a poco la pittura di paesaggio avrebbe conosciuto ulteriori rivolgimenti: prova ne sono le vedute futuriste che ci parlano di città in profonda trasformazione, proiettate verso la modernità.
S’è qui brevemente fornito un rapidissimo, e necessariamente incompleto, panorama delle vicende che avrebbero condotto al paesaggio del Novecento soprattutto per premettere che ha ragione Claudio Musso quando, per introdurre la sua mostra Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia (alla Fondazione del Monte di Bologna fino al 13 aprile 2019), specifica che è arduo, se non quasi impossibile, trovare una definizione di “paesaggio”: volendo menzionare qualch’esempio illustre, per Fernow il paesaggio è come musica, dal momento che non ha contenuti precisi e interviene sul sentimento di chi l’osserva così come la musica agisce su chi l’ascolta, e ancora secondo Ragghianti il paesaggio non è oggetto di percezione, bensì “uno scenario o uno spettacolo come qualunque film o qualunque opera teatrale o qualunque balletto” (e di conseguenza contemplare un paesaggio, per un pittore, equivarrebbe a “far danzare delle forme, dei colori”, come il maestro di ballo farebbe coi danzatori), e Argan, discorrendo delle opere di Juvarra, aveva coniato l’espressione “natura architettonica” per riferirsi al paesaggio. Dalla difficoltà di reperire una via univoca al paesaggio sorge così la necessità d’affidarsi anzi, riecheggiando Rosenberg, a una s-definizione per rimarcare che, scrive Musso, “è il paesaggio stesso a definirsi, ad aggiornare continuamente la sua identità, sia sul piano letterale (circo-scrivere, de-limitare, de-terminare un con-fine), sia sul piano culturale, dipendente com’è dall’epoca e dalla latitudine in cui avviene l’osservazione”. Non esiste dunque un solo paesaggio (e pertanto non esiste una sola pittura di paesaggio): ci sono probabilmente tanti paesaggi quanti sono i soggetti della visione.
È tuttavia possibile far emergere un filo comune che leghi le esperienze degli artisti che Claudio Musso ha radunato per la sua collettiva che, in certo modo, intende fotografare lo status dell’arte di paesaggio italiana oggi: in modo certo incompleto, ma comunque efficace. Si tratta d’un filo che scaturisce da una mostra tenutasi sempre a Bologna, quasi quarant’anni fa: tra il 1981 e il 1982 la locale Galleria d’Arte Moderna accolse una rassegna, curata da Tomás Maldonado (Buenos Aires, 1922 - Milano, 2018), che s’intitolava Paesaggio: immagine e realtà. Fin dalla titolazione appariva chiaro come il fine fosse quello di presentare al pubblico l’esperienza del paesaggio su due livelli (da una parte l’oggetto della visione, dall’altra il soggetto), che nell’esperienza dell’artista sono compresenti, si staccano per poi riunirsi, si mescolano, si dividono e s’inseguono, si muovono su dimensioni differenti (il vissuto, l’immaginato, il sognato, il ricordato, il costruito, l’ipotizzato, e via dicendo): la mostra attuale parte da presupposti simili, con un balzo di qualche decennio in avanti. E dell’esposizione degli anni Ottanta serba l’ottica d’apertura, l’attitudine “esplorativa” (come da definizione di Tomás Maldonado), l’intenzione di non fornire delle risposta ma di preparare un terreno di ricerca.
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Sala della mostra Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia
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Sala della mostra Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia
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Delle fotografie di Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 - Reggio Emilia, 1992), una delle quali, Passignano, posta ad apertura di Panorama quale chiaro manifesto d’intenti, si parlava anche in Paesaggio: immagine e realtà: nel tracciare un breve profilo della sua poetica, Vittorio Savi scriveva che le immagini di Ghirri erano composte alla perfezione già dentro il mirino del fotografo (perché per Ghirri il paesaggio, prim’ancora d’esser tale, è immagine del paesaggio), e l’artista stesso, nel descrivere la serie Paesaggio italiano di cui Passignano è parte, spiegava che non si trattava tanto d’una descrizione, quanto d’una percezione del luogo oggetto della fotografia. E del luogo, rimarcava Savi, Ghirri non possedeva la nozione scientifica, bensì “la realtà qualitativa e la consapevolezza che è concetto nettamente distinto dalle categorie di paesaggio (l’insieme dei fatti fisici che si manifestano e coesistono in forma transitoria nello spazio di un territorio, soggettivamente percepiti dall’osservatore) e di sito (l’ambito territoriale circoscritto del quale sono note tutte le caratteristiche)”. Questa premessa del “paesaggio come immagine”, in mostra, s’arricchisce poi coi disegni di Antonio Sant’Elia (Como, 1888 - Monfalcone, 1916), che giungono in prestito dalla Fondazione Cirulli di San Lazzaro di Savena: se le fotografie di Ghirri costituiscono l’avvio concettuale dell’esposizione, i disegni di Sant’Elia ne rappresentano una sorta di introibo storico, e se il paesaggio del XXI secolo è in larga parte veduta urbana (ovviamente in tutte le sue declinazioni possibili), l’architetto futurista per antonomasia, coi suoi disegni che immaginano avveniristiche città del domani, ne è il più naturale anticipatore.
E se la città è il punto di partenza, non si potrà far altro che volgere lo sguardo alla parete opposta per immergersi nelle rovine industriali di Andrea Chiesi (Modena, 1966), che in parte ci costringono a fare i conti con una realtà fatta di precarietà e di distruzione, ma al contempo s’animano d’un’inaspettata tensione spirituale che principia da un senso di malinconia, da intendersi come “cartello indicatore di una geografia cancellata”, secondo la definizione dello stesso Ghirri. Questo senso di smarrimento comporta la ricerca d’un rinnovato rapporto con la natura (e la natura peraltro è protagonista delle ricerche più recenti di Chiesi, seppur occorra sottolineare che non ha mai abbandonato la sua arte), o il ritorno a situazioni intime: in mostra abbiamo modo d’avvicinarci alle atmosfere emiliane de La casa, altra serie di Andrea Chiesi di cui è esposto a Bologna un dipinto, ma anche con la Strada Stellare di Davide Tranchina (Bologna, 1972), che racconta un paesaggio familiare, quello della via Emilia, per ridiscuterlo facendolo trasmigrare in una dimensione universale. Le atmosfere sospese delle opere di Chiesi e Tranchina proseguono poi col Tornado di Francesco Pedrini (Bergamo, 1973), disegno col quale l’artista cerca di comunicare l’idea dell’incapacità d’afferrare nella loro compiutezza certi fenomeni della natura che tutti però hanno ben presenti (e che peraltro Pedrini, col suo Strumento che raccolgono i suoni e i rumori del cielo, invita ad ascoltare), e con gli olî di Valentina D’Amaro (Massa, 1966), presente in mostra con un paio di opere della serie Viridis: la natura, all’apparenza così vicina al proprio sentito, viene in realtà elaborata, sintetizzata, spogliata, così che il paesaggio perda il carattere che gli è proprio e si faccia metafora per toccare corde profonde, lasciando subentrare un senso d’attesa (sembra quasi che le stranianti vedute di Valentina D’Amaro debbano trasformarsi da un momento all’altro: il verde, del resto, è anche simbolo di vita, di rigenerazione). La prima sala si chiude con Daniel González (Buenos Aires, 1963) e col suo Low-Cost Panorama (un’architettura effimera, quella d’un campo da calcio gonfiabile chiuso dentro un imballaggio, che offre la possibilità di modificare temporaneamente lo spazio), e con le ironiche opere di Filippo Minelli (Brescia, 1983) che, al pari dell’artista argentino, indaga il tema della percezione dello spazio, cercando di spiazzare l’osservatore anche se con espediente un po’ trito, quello che consiste nel sovrapporre immagini (in questo caso scaricate da internet) al vero brano di paesaggio cui corrispondono.
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Luigi Ghirri, Passignano, dalla serie Paesaggio italiano (1988; cibachrome da diapositiva, 19,9 x 24,9 cm). Courtesy collezione privata, Bologna
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Antonio Sant’Elia, Senza titolo (1912 circa; matita su carta, 29,6 x 31 cm). Courtesy Fondazione Massimo e Sonia Cirulli, Bologna
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Antonio Sant’Elia, Senza titolo (1912 circa; matita su carta, 29,7 x 24,5 cm; Bologna, Fondazione Massimo e Sonia Cirulli)
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Andrea Chiesi, Eschatos 2 (2017; olio su lino, 50 x 50 cm). Courtesy d406, Modena
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Andrea Chiesi, La casa 28 (2004; olio su lino, 100 x 140 cm). Courtesy Angelo Zanetti, Modena
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Davide Tranchina, Strada Stellare #3 (2016; stampa true giclée, dibond, cornice, 45 x 45 cm). Courtesy l’artista
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Davide Tranchina, Strada Stellare #4 (2016; stampa true giclée, dibond, cornice, 45 x 45 cm). Courtesy l’artista
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Francesco Pedrini, Tornado#6 (2016; grafite, carboncino, pigmenti su carta Kozo, 100 x 140 cm). Courtesy l’artista e Galleria Milano, Milano
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Francesco Pedrini, Strumento#5 (2017; legno, rame e pelle, altezza 175 cm, diametro 15 cm). Courtesy l’artista e Galleria Milano, Milano
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Valentina D’Amaro, Senza titolo, dalla serie Viridis (2016; olio su tela, 40 x 50 cm). Courtesy collezione privata
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Daniel González, Low-cost Panorama (2018-19; architettura effimera, campo da calcio gonfiabile e imballaggio). Courtesy l’artista
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Filippo Minelli, Senza titolo (2018; tecnica mista). Courtesy UNA, Piacenza
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Volendo trovare un legame che unisca le opere della seconda sala, si potrebbe pensare al paesaggio come incontro e scontro (per esempio tra natura e città: una città peraltro evocata anche col paesaggio live della porta a vetri che dà su via del Monte), come stratificazione, come misura della sostenibilità. Si parte dalle conseguenze estreme rappresentate dalle visioni distopiche del gruppo Superstudio, lo studio d’architettura fondato nel 1966 a Firenze da Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gianpiero Frassinelli, Roberto e Alessandro Magris, Alessandro Poli: la mostra presenta un paio d’opere, tra cui la prima delle Dodici città ideali, estrema conseguenza della modernità e del controllo esercitato sulle masse. Un paesaggio naturale appare ingabbiato in una griglia che si perde oltre l’orizzonte: è la città ideale dove ogni cella corrisponde a un’unità che garantisce ai suoi abitanti tutto l’occorrente per ottenere una vita perfetta ed eterna (ma che non tollera il dissenso: chi si ribella contro la vita nella città ideale, viene schiacciato dal soffitto della cella che s’abbassa fino a toccare il pavimento). Con le loro tavole, ognuna accompagnata da una descrizione redatta in forma quasi narrativa, i Superstudio presentano all’osservatore, scrive Claudio Musso, “un’alterazione che dalla progettazione del territorio giunge alle dinamiche sociali”. Di alterazioni parlano pressoché tutti gli artisti in sala, a cominciare da Margherita Moscardini (Donoratico, 1981) che situa invece la sua sofisticata distopia nella storia, riesumandone i resti (come in Maquette A, un insieme composto da asfalto, un reperto marmoreo, polvere e vetro) quasi a voler dire che per il paesaggio, una volta subita una modifica, non v’è possibilità alcuna di ritorno alle origini. Tanto che il paesaggio stesso è segnato in maniera indelebile, come accade in The Mountains’ Factory, video che l’artista toscana presenta per la prima volta proprio alla mostra bolognese.
Lo scontro (o incontro) tra natura e città è quanto mai vivo nell’opera di Andrea De Stefani (Arzignano, 1982), che raccoglie tronchi dalla spiaggia come objet trouvé e poi dona loro nuovi significati coprendoli con vernice da carrozziere e posizionandoli su di un letto d’asfalto: ne sortisce un bizzarro effetto di straniamento che in certa misura fa ricorrere alla mente la grande scultura barocca. Mira a riflettere sui temi delle trasformazioni del paesaggio e del rapporto tra uomo e natura anche l’opera di Andreco (Roma, 1978), artista e dottore di ricerca in ingegneria ambientale le cui sperimentazioni sono in gran parte volte a indagare le conseguenze dell’interazione tra paesaggio e spazio urbano. Parade for the landscape, nota performance tenutasi nel giugno del 2014 a Santa Maria di Leuca (ovvero nel lembo di terra più orientale d’Italia, la Finis Terrae della penisola) ha visto un gruppo di figuranti, cittadini delle comunità locali, spostarsi mascherati in un percorso di tre chilometri sulla costa portando bandiere con simboli chiaramente riferiti al paesaggio. Confini naturali per riflettere su confini e limiti umani (inclusi quelli politici), bandiere con rappresentazioni schematiche d’elementi naturali che, scrive il semiologo Massimo Leone nel suo saggio a catalogo, evocano “l’impatto che l’evolversi e l’imporsi della tecnica, in questo caso quella della rappresentazione digitale, esercita sulla percezione della familiarità del paesaggio”. Chiudono la sala le opere di Riccardo Benassi (Cremona, 1982) che dialoga direttamente con Superstudio, e non solo perché la sua Autostrada verticale è stata concepita in collaborazione con loro, ma anche perché le poesie di Così per dire tentano un’analisi sociologica del paesaggio tradotta in versi (o qualcosa di simile) che corrono su fogli accanto a immagini di paesaggio antropizzato.
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Superstudio, La prima città, da Le dodici città ideali (1971; litografia, 100 x 70 cm). Courtesy Archivio Superstudio
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Margherita Moscardini, Maquette (2013; asfalto, reperto di marmo, polvere di marmo, vetro, dimensioni ambientali). Courtesy Collezione Anna e Francesco Tampieri, Modena – Collection of Collections CoC
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Andrea De Stefani, Smash-Up (Rino’s flowerbed) (2017; legno verniciato, vetro, asfalto, acciaio, 220 x 130 x 65 cm). Courtesy l’artista
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Riccardo Benassi, Autostrada Verticale, Studio per Scala, Scala 1:2 (2009; stampa laserprint Hp su carta fotografica Hp 180 gm matt, cornice in quercia, 50 x 70 cm). Courtesy l’artista e Collezione Marco Ghigi, Bologna
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Riccardo Benassi, Così per dire (parco) (2016; stampa su carta fotografica Metal Kodak, stampa laserprint su passe-partout, cornice in quercia, 32,7 x 42,5 cm). Courtesy l’artista
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Per la terza e ultima sala il leitmotiv potrebbe essere il paesaggio agognato, il paesaggio da sogno, e l’apertura è affidata a un viaggio, quello di Pianura uno pianura due di Mario Schifano (Homs, 1934 - Roma, 1998): una teoria di colori acidi e in movimento compare dietro una sagoma che suggerisce l’idea d’un finestrino, quasi che Schifano voglia metterci dentro una macchina o un treno in movimento e intenda farci ammirare la veduta che scorre dinnanzi ai nostri occhi. Il paesaggio come viaggio (più atteso e cercato che effettivamente compiuto) è anche il tema di Imaginary holidays di Luca Coclite (Gagliano del Capo, 1981), dove le “vacanze immaginarie” sono quelle che i baby boomers erano costretti a trascorrere nelle colonie estive, oggi quasi del tutto estinte (l’opera di Coclite è un’installazione, le lettere che compongono la scritta Imaginary Holidays, posta di fronte all’ex Colonia Scarciglia di Castrignano del Capo, nel Salento: certo, niente di particolarmente originale, ma comunque evocativa), oltre che dell’interessante progetto 32 days at Rupert, opera di Marco Strappato (Porto San Giorgio, 1982) che nel 2017 ha trascorso un periodo di soggiorno a Vilnius, in Lituania, sognando paesaggi esotici. Ne sono scaturiti trentadue disegni a pennarello su cartoncino, dal tratto quasi fumettistico, che con certo struggimento mutano i freddi boschi baltici in palme e spiagge esotiche per richiamare, almeno nelle intenzioni dell’artista, il topos dell’evasione della realtà tipica delle sottoculture giovanili anglosassoni contemporanee (la palma, peraltro, è uno dei simboli della vaporwave). Il cerchio è chiuso dalle diciotto noci di cocco realizzate assieme a Giovanni Oberti (Bergamo, 1982) e in mostra collocate appena sotto 32 days at Rupert.
Le opere di Mauro Ceolin (Milano, 1963) fanno leva sull’immaginazione per trasportarci dentro atmosfere videoludiche con paesaggi di videogiochi che vengono riprodotti ad acquerello o con colori acrilici en plein air, come se lo schermo del computer fosse per noi ciò che per i romantici era la finestra, e come se i panorami di Ceolin dessero vita a una specie di Sehnsucht digitale. Accanto, i paesaggi di Laura Pugno (Roma, 1970), che spande poliuretano sopra fotografie da cartolina al fine d’impedirci la visione (e forse portandoci a desiderare ancor più quel paesaggio?), mentre al centro della sala spiccano le opere di David Casini (Montevarchi, 1973), che dipinge paesaggi sopra supporti inusuali (come le pellicole protettive degli smartphone) per farli diventare protagonisti d’un racconto che coinvolge anche gli oggetti di cui sono composti i suoi lavori, che si collocano a metà strada tra pittura, scultura e installazione. La rassegna si può far terminare con le sculture minimaliste di Martino Genchi (Milano, 1982), che in Mindset posiziona un elemento in gesso sopra un piano d’alluminio che simula un orizzonte, e un cuneo di legno sotto: “due strati della materia come emanazioni di celeste e terrestre” (così Claudio Musso), che creano una nuova immagine d’un paesaggio con due dei suoi più basilari elementi, il cielo e la terra.
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Mario Schifano, Pianura uno Pianura due (1971; smalto su tela, 140 x 240 cm). Courtesy Galleria de’ Foscherari, Bologna
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Luca Coclite, Imaginary Holidays (2018; plexiglass, 257 x 14 cm). Courtesy l’artista
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Marco Strappato, 32 days at Rupert, Vilnius. Looking into the wood, dreaming palm trees (2017/2018; 32 disegni incorniciati, pennarello acrilico su cartoncino, 210 x 140 cm circa). Courtesy l’artista e The Gallery Apart, Roma
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Giovanni Oberti e Marco Strappato, Tre mezze dozzine (2018; noci di cocco, grafite, polvere, dimensioni ambientali). Collezione privata, Courtesy gli artisti
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Mauro Ceolin, DeerHuntLandscapes (2005/2006; acrilico su plexiglass, 45 x 37 x 3 cm, 12 lastre). Courtesy Collezione privata, Monza
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Laura Pugno, Dominante Recessivo 01 (2017; stampa fotografica e poliuretano, 61 x 46 x 16 cm). Courtesy l’artista
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David Casini, Spazio libero (2018; vetro, legno intarsiato, ottone, resina, vetro temperato, stampa digitale UV, 45 x 26 x 26 cm). Courtesy Galleria CAR drde, Bologna
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Martino Genchi, Mindset (2018; alluminio, acciaio, gesso, acrilico, legno di rovere, 13,5 x 27 x 12 cm). Courtesy l’artista
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Uno degli aspetti più significativi di Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia (che, come s’è visto, tolti i nomi degli artisti storicizzati presenta esclusivamente opere di artisti nati tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta: è una precisa scelta curatoriale, dacché s’è puntato su nomi che fanno parte della prima generazione nata nell’epoca delle società massificate e che pertanto s’è trovata fin da subito immersa nei loro mezzi e nei loro linguaggi, fino ad arrivare a quanti si sono cresciuti e formati agli albori dell’era di internet, il tutto anche col fine di far emergere le diverse concezioni di paesaggio) è la capacità d’ampliare lo spettro dell’indagine a includere riflessioni che hanno a che fare con la politica, con la società, e al tempo stesso con le pulsioni dell’individuo. S’è poi citata in apertura l’espressione “natura architettonica” che Argan utilizzò per sottolineare una certa caratteristica dell’arte di Juvarra, ed è interessante sottolineare come il binomio natura - architettura sia uno dei pilastri su cui è fondata la mostra bolognese e a sua volta apre importanti parentesi sui dibattiti più attuali in tema di sviluppo urbano, pianificazione del paesaggio, rapporto tra abitanti e territorio, fruizione e funzione dello spazio pubblico.
Si può senza dubbio affermare che Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia sia una mostra coraggiosa, e non solo perché, a oggi, già il solo atto d’allestire una collettiva d’arte contemporanea sia operazione di per sé ardua e ardimentosa, ma anche per diversi altri motivi: per la volontà di misurarsi con una mostra che ha segnato la storia della pittura di paesaggio contemporanea in Italia (riuscendo a rievocarne e proseguirne le ricerche), per la natura politica (nel senso più alto e nobile del termine) che in parte la anima, per l’aver cercato di collocare entro una non scontata prospettiva storica i lavori dei pittori, scultori, fotografi e performer contemporanei selezionati, per aver tentato (e raggiunto) un bilanciato equilibrio dei linguaggi adoperati dagli artisti in mostra. In ultimo, un accenno al catalogo che, seppur molto più agile rispetto a quello della mostra degli anni Ottanta, ha il merito di fornire al lettore anche immagini di opere non in mostra per fornire una prospettiva più ampia sugli artisti selezionati (anche se forse sarebbe stato auspicabile maggior chiarezza nel presentare quali opere si trovano in mostra e quali no, ma lo si deve forse al fatto che il volume non vuol essere soltanto un catalogo ma più in generale una pubblicazione sulla pittura di paesaggio in Italia oggi) e una ricca bibliografia ragionata.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).