Una mostra che si ponga l’obiettivo di riannodare i fili tra Dante Alighieri e Firenze, ricostruendo il processo di riappropriazione cui il poeta fu sottoposto negli anni successivi alla sua scomparsa, e seguendo la diffusione dei suoi scritti, non può ch’essere una rassegna eminentemente politica: percorrere le sale del Museo Nazionale del Bargello di Firenze dov’è stata allestita la mostra Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante significa, pertanto, leggere le trame d’un racconto ch’è anzitutto politico. Occorre rifarsi a ragioni politiche per comprendere perché, nel quarto decennio del Trecento, nella Cappella del Podestà del Bargello (che costituisce parte integrante del percorso della mostra), si decise d’inserire l’effigie di Dante tra le schiere dei beati del Paradiso, così come occorre conoscere la situazione politica della Firenze del tempo per risalire alle scaturigini del successo della Divina Commedia e di altri testi danteschi che in molti, già nella Firenze trecentesca, conoscevano e commentavano. Politica, dunque, assieme ad arte e letteratura: a tenere assieme quest’impianto c’è la storia della Firenze del primo Trecento ch’emerge dagli affreschi sulle pareti del palazzo dove fu pronunciata la sentenza che condannò Dante all’esilio, dai fondi oro sistemati lungo le sale, dai codici miniati, dai manoscritti.
È una rassegna che copre un tempo molto limitato: dalla condanna di Dante fino agli anni Quaranta e Cinquanta del Trecento, epoca in cui si producono due fatti che costituiscono i termini ad quem della mostra. Il primo è la pubblicazione della Nuova Cronica di Giovanni Villani, nella quale Dante è definito, come da titolo, “onorevole e antico cittadino di Firenze” (ed è dunque ormai completamente riabilitato): è interessante notare come nella Cronica il capitolo su Dante, oltre a costituire la prima biografia del poeta che ci sia giunta, faccia anche da cesura in un racconto d’eventi bellici, fatto che rimarca l’importanza che la statura di Dante doveva aver assunto agli occhi di Villani e dei fiorentini della metà del secolo. Una biografia, certo, colma d’inesattezze, soprattutto per i fatti che seguirono l’esilio (Villani, non essendo testimone oculare di quanto accadde al poeta dopo il 1302, dovette affidarsi a fonti terze), ma che dà conto della considerazione che gli ambienti colti della Firenze di metà secolo nutrivano ormai per il poeta. Il secondo è la compilazione del Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio, la cui prima redazione è contenuta nel codice Toledano 104.6 (presente in mostra), e nel quale l’autore del Decameron non si peritò d’esprimere il proprio disappunto per il trattamento che Firenze aveva riservato al Sommo Poeta, il “chiarissimo uomo Dante Alighieri”, il quale, “antico cittadino né d’oscuri parenti nato, quanto per vertù e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati”. E invece, Firenze riservò a Dante “ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de’ paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama”.
Questi gli estremi tra i quali si colloca l’itinerario di mostra: nel mezzo, una serie di vicende, come la costruzione della cappella del Podestà e la sua decorazione ad affresco per mano di Giotto e della sua bottega, la ricezione della Commedia negli anni Trenta e Quaranta del Trecento, lo sviluppo d’un immaginario dantesco che pervade le opere degli artisti del tempo, la circolazione delle opere dei classici, l’evoluzioni d’un volgare fiorentino ch’era lingua non solo letteraria ma anche pratica e adoperata nelle scienze, nell’economia, nei mercati, financo in cucina. Una mostra che, informano i tre curatori (Luca Azzetta, Sonia Chiodo e Teresa De Robertis), è il risultato di due decennî di ricerche che hanno riguardato essenzialmente due aspetti: “da una parte la tradizione materiale delle opere di Dante, dall’altra i modi con cui la Commedia è stata interpretata e composta dai suoi primi lettori”. Varrà la pena sottolineare come si tratti d’un’esposizione che nasce da una collaborazione tra Musei del Bargello e Università di Firenze: la multidisciplinarità della mostra è, del resto, uno dei suoi punti forti, dacché immergersi nel racconto della mostra non è solo conoscere una storia politica, ma è anche, per certi versi, conoscere più a fondo la Firenze del Trecento.
Sala della mostra |
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Ovvero, quella stessa Firenze che prima cacciò Dante con ignominia, e poi riscattò la memoria del poeta. Ed è da qui che si può far partire il percorso: non dalle sale al piano terra, ma direttamente dalla Cappella del Podestà, dove gli affreschi di Giotto e dei suoi collaboratori vengono svelati per la prima volta al pubblico dopo l’intervento conservativo degli ultimi mesi, l’installazione del nuovo impianto d’illuminazione e il nuovo allestimento della cappella stessa e dell’attigua sagrestia. Gli oggetti esposti nelle vetrine rievocano i fatti del 1302, ma anche il ruolo simbolico di quello ch’era all’epoca il Palazzo del Podestà (ovvero l’attuale sede della mostra), un “caso di studio esemplare”, scrive Sonia Chiodo nel corposo e impegnativo catalogo della mostra, “teatro e simbolo di un potere che si avvalse della capacità comunicativa delle arti figurative per esibire i valori su cui si fondava l’amministrazione della giustizia nella città, per ‘pubblicizzare’ condanne esemplari e umiliare il nemico ma anche per celebrare la propria magnanimità”. Il primo oggetto che s’incontra, proveniente dall’Archivio di Stato di Firenze, è un volume di documenti giudiziarî che include anche le sentenze di condanna del 27 gennaio del 1302 contro la parte bianca dei guelfi fiorentini (si tratta delle copie più antiche che ci siano giunte: gli originali andarono perduti nell’incendio che fu appiccato all’archivio fiorentino nel 1343, nei giorni concitati della cacciata del duca d’Atene). Condanne che la storia ha bollato come una vendetta dei Neri contro i Bianchi piuttosto che come frutto di sentenze ragionate: Dante, in particolare, fu accusato di baratteria, reato che includeva tratti dei moderni illeciti di corruzione e peculato, e gravissimo anche per la morale dell’epoca.
Le sentenze avevano giudicato irregolare la sua nomina a priore nel 1300, in quanto giunta a seguito di corruzione, e a sua volta Dante avrebbe manipolato l’elezione dei priori successivi. Assieme a Dante furono condannati altri quattordici esponenti della parte bianca, tutti accomunati dall’aver ricoperto la carica di priore negli anni precedenti. Al poeta, condannato in contumacia, erano stati comminati il confino dalla Toscana per due anni, l’esclusione perpetua dai pubblici uffici, il pagamento di un bando di cinquemila fiorini (somma considerevole) e la restituzione del frutto economico delle attività illecite (anche se le sentenze non specificano l’ammontare), pena la confisca e la distruzione dei suoi beni immobili. Nessuno dei quindici condannati si presentò in tribunale per la dazione, e i Neri esacerbarono la repressione giudiziaria trasformando, per tutti i condannati, il bando in condanna a morte con sentenza del 10 marzo del 1302: se Dante fosse tornato a Firenze, sarebbe stato arso sul rogo. È la fine che, il 16 settembre del 1327, fece il poeta Cecco d’Ascoli, condannato per eresia dall’inquisitore francescano Accursio Bonfantini, anche se non conosciamo le ragioni esatte della sentenza: recenti studî, ricordati in catalogo da Sara Ferrilli, ipotizzano che la vicenda sia da inquadrare nell’ambito delle politiche inquisitoriali di papa Giovanni XXII, che vedevano nell’eliminazione di personaggi in vista l’occasione per mettere le mani sul loro patrimonio. A ricordare questa vicenda è in mostra il più antico codice figurato dell’Acerba di Cecco: una sorta di risposta polemica alla Commedia di Dante, del quale Cecco fu rivale. Lo spettro della condanna a morte è rievocato anche da due opere particolarmente significative: una Croce astile di Bernardo Daddi, del 1340 circa, che per via della particolare iconografia (vi troviamo anche un cadavere vestito, ridotto a scheletro) potrebbe esser stata in possesso d’una confraternita che assisteva i condannati alla pena capitale, e una tavoletta di fine Trecento d’un autore ignoto noto come il “Maestro di San Iacopo a Mucciana”, che veniva probabilmente mostrata ai condannati prima che venissero giustiziati (varrà comunque la pena ricordare che non conosciamo la ritualità dell’esecuzione delle condanne a morte nella Firenze del primo Trecento).
Alzando gli occhi verso l’alto, si noterà con facilità il ritratto di Dante nella schiera degli eletti del Paradiso ideato da Giotto e terminato dagli assistenti a seguito della sua scomparsa, occorsa nel gennaio del 1337. Ancora Sonia Chiodo ricostruisce i motivi che portarono all’inclusione di Dante nell’affresco giottesco: un ruolo di primo piano fu ricoperto dal vescovo Francesco Silvestri da Cingoli, in carica dal 1323 al 1341, i cui legami con gli affreschi della cappella vengono evidenziati per la prima volta in occasione della mostra. Silvestri venne assegnato alla cattedra vescovile fiorentina da Giovanni XXII con l’obiettivo, scrive Chiodo, di “arginare l’arbitrio di una ristretta cerchia di famiglie magnatizie che tradizionalmente controllavano l’elezione del vescovo di Firenze”. Il ruolo politico di Silvestri era, dunque, quello di rafforzare la presenza pontificia a Firenze. Le politiche economiche di Silvestri (tra cui l’ottenimento d’una disposizione che prevedeva che un terzo dei legati lasciati ai poveri venissero devoluti alla mensa episcopale) procurarono al vescovato importanti disponibilità economiche, che orientarono anche la politica culturale della curia. Secondo Chiodo, Silvestri fu anche il promotore della decorazione della cappella del Podestà: il vescovo s’era dimostrato favorevole alla figura di Dante grazie all’appoggio che fornì al figlio Iacopo quando questi, nel 1325, tornò a Firenze per recuperare i beni ch’erano stati sequestrati alla famiglia, e per promuovere la diffusione dell’opera del padre. Sono circostanze che, secondo Chiodo, chiariscono alcune delle modalità attraverso le quali la Commedia cominciò a circolare a Firenze e il perché gli affreschi della cappella riflettano in certa misura il visionario aldilà dantesco. La rassegna fiorentina ha peraltro fornito occasione per un affondo sull’ideazione giottesca degli affreschi: l’autorevole saggio di Andrea De Marchi interviene sul tema con confronti precisi e puntuali con altre vette della produzione di Giotto, affermando la portata innovativa degli affreschi della cappella (come l’idea di connettere l’Inferno in controfacciata col Paradiso sulla parete di fondo per mezzo delle storie del Battista e della Maddalena dipinte sulle pareti laterali per richiamare il percorso penitenziale rappresentato dal Purgatorio), per i quali “la Commedia dantesca”, scrive lo studioso, “non poté non offrire materia viva di ispirazione”.
Il tema della diffusione della Commedia nella Firenze degli anni Trenta e Quaranta, come s’è visto, è strettamente legato alla presenza di Dante nell’opera di Giotto ed è pertanto questo l’argomento affrontato dalla prima sala della mostra al piano terra. Abbiamo perso le prime fasi della trasmissione del capolavoro del poeta, ma sappiamo che, già alla fine degli anni Venti, a Firenze cominciano a circolare numerosi esemplari della Commedia: per nessun altro autore medievale si conta una circolazione così capillare e rimarchevole. La Commedia diventò un libro ricercato, letto da un pubblico vasto ed eterogeneo, tanto che s’arrivò alla nascita d’un apposito formato (come testimonia il manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana miniato dal Maestro delle effigi domenicane), con i versi disposti su due colonne, in una scrittura stilizzata e con decorazioni standardizzate che servivano non per semplificare i contenuti della Commedia, ma per consentire la sua penetrazione presso un pubblico vasto. Le ragioni del successo, secondo la studiosa Francesca Pasut, sono da ricercare nella presenza, a Firenze, di ambienti intellettualmente vicini a Dante che promossero la sua opera, nell’avvio “di una precoce attività esegetica locale (almeno dai primi anni Trenta del secolo), che seppe fare tesoro dei commenti alla Commedia già apparsi nel Nord Italia”, e nell’attività di copisti professionisti che, nella stessa Firenze, si cimentarono in una produzione seriale del poema, capace di contribuire in maniera sostanziale alla sua diffusione. In parallelo, si sviluppò una vera iconografia dantesca che fornì agli artisti un ricco repertorio per illustrare i versi del poema e permetterne una più ampia propagazione.
Giotto e scuola giottesca, Ritratto di Dante (1334-1337; affresco; Firenze, Museo del Bargello, Cappella del Podestà) |
Giotto e scuola giottesca, Paradiso (1334-1337; affresco; Firenze, Museo del Bargello, Cappella del Podestà) |
Ser Cichino di Giovanni de’ Giusti da Modena (copista), Registri (1349-1357; Firenze, Archivio di Stato, 19A, f. 2v: sentenze contro i Bianchi del 1302) |
Bernardo Daddi, Croce astile (1340 circa; tavola, 58,9 x 33 cm; Milano, Museo Poldi Pezzoli) |
Maestro di San Iacopo a Mucciana, Decollazione del Battista (ultimo decennio del XIV secolo; tavola opistografa, 45 x 24 cm; Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco) |
Copista di Vat (copista), Maestro delle effigi domenicane (miniatore), Commedia (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 40.13, f. 25r: frontespizio del Purgatorio) |
Tra gli artisti “danteschi”, la rassegna presenta i due che, secondo i curatori, ebbero una sorta di “monopolio” sull’illustrazione degli esemplari della Commedia nel secondo quarto del Trecento, ovvero il summenzionato Maestro delle effigi domenicane e Pacino di Buonaguida, entrambi miniatori e pittori. Di Pacino sono presenti sia opere su tavola, a cominciare dal famoso Lignum vitae, il più grande dipinto in mostra, che giunge in prestito dalla Galleria dell’Accademia, sia opere miniate: artista associato all’idea di una “produzione seriale” e di una “modalità espressiva semplice, ben lontana dalla complessità formale e dall’alto tenore sul piano dei contenuti e della forma della pittura di Giotto e dei suoi seguaci” (così Sonia Chiodo: per avvedersene può esser sufficiente osservare lo scomparto di predella con il Miracolo della Messa di san Procolo), con il Lignum vitae Pacino riesce comunque a prodursi in un’allegoria sacra complessa, composizione dotata di forti caratteri d’originalità, che prende le mosse dall’omonimo opuscolo di Bonaventura da Bagnoregio per inserire la storia della vita di Cristo in quella più ampia della salvezza, secondo un programma evidentemente suggerito da una mente particolarmente raffinata. Per la curatrice, la principale novità dell’opera sta nella sua impostazione gerarchica: il fulcro tematico è al centro (Cristo croficisso e le storie della sua vita), il “contesto” nella parte inferiore (le storie della Genesi) e la visione finale (ovvero il Paradiso) in quella superiore. Una complessità che richiama per certi versi il senso anagogico della Commedia e che preparò Pacino di Buonaguida alle illustrazioni dello stesso poema dantesco: in mostra, peraltro, il Lignum vitae è esposto assieme al Codice Trivulziano 2139 sul quale Pacino eseguì un raffinato Lignum Vitae su fondo dorato.
Il Maestro delle effigi domenicane, artista più solitario di Pacino che fu invece a capo d’una bottega impegnata in un’attività frenetica, è artista dotato, scrive Sonia Chiodo, di una “verve più pungente”, attento al reale, fornito anche d’una certa ironia. Dal Metropolitan Museum di New York arriva una sua raffinata tavola divisa in cinque scomparti (sono scene legate a temi domenicani) e destinata alla devozione individuale: un’opera con accenti di naturalismo e animata da una spontanea spigliatezza idonea a inquadrare meglio il Libro del Biadaiolo, ovvero il listino dei prezzi del grano e dei cereali venduti a Firenze tra il 1320 e il 1335 che, per iniziativa del mercante Domenico Lenzi, divenne un testo letterario dall’alto contenuto politico, poiché pregno di considerazioni sugli effetti del buono e del cattivo governo, confortate dalle illustrazioni dello stesso Maestro delle effigi domenicane: in mostra, il manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana è aperto su di un’immagine della carestia che s’abbatté in Toscana attorno al 1340, ovvero l’episodio (caratterizzato da toni propagandistici) di Siena che nel colmo della crisi espelle dalle mura cittadine gli affamati, i quali vengono tuttavia accolti dalla magnanima Firenze, ricostruita dal Maestro con tanto di realistico profilo del Battistero di san Giovanni. È del Maestro delle effigi domenicane anche l’illustrazione della Commedia del Trivulziano 1080, in rassegna aperta all’inizio del Paradiso: un’illustrazione che segue uno schema tipico, con l’iniziale che presenta al lettore una scena (l’incoronazione di Maria), e con ulteriori figure nel fregio (le gerarchie angeliche), mentre nella parte bassa della pagina s’osserva Dante che viene incoronato poeta.
Pacino di Bonaguida, Miracolo della messa di san Procolo (1325-1330 circa; tavola, 21,1 x 31 cm; Rivoli, Castello di Rivoli, Collezione Cerruti) |
Pacino di Bonaguida, Lignum vitae (tempera su tavola, 248 x 151 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia) |
Pacino di Bonaguida e collaboratori, Bibbia (Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. 2139, f. 435r: Lignum vitae) |
Maestro delle effigi domenicane, Giudizio finale, Madonna col Bambino in trono tra sant’Agostino e san Domenico, Crocifissione, Trionfo di san Tommaso d’Aquino, Natività (tempera su tavola, 59,1 x 42,2 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art) |
Copista di Vat (copista), Maestro delle effigi domenicane (miniatore), Libro del Biadaiolo (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Tempi 3, f. 58r: Firenze accoglie i poveri) |
Francesco di ser Nardo da Barberino (copista), Maestro delle effigi domenicane (miniatore), Commedia (Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. 1080, f. 36r) |
La sezione seguente entra nel merito del successo delle opere di Dante nella Firenze degli anni Trenta e Quaranta del Trecento concentrandosi sull’attività esegetica della Commedia e di altri scritti: si tratta d’un’ulteriore attestazione della riappropriazione di Dante da parte della sua città natale. Un’attività, scrive Andrea Mazzucchi, in grado di “restituirci con vivida evidenza l’ammirato stupore, la sorpresa, in certi casi addirittura il perplesso turbamento e lo sconcerto che le contigue generazioni di mercanti più o meno culturalmente attrezzati, di notai, ma anche di magistri e intellettuali raffinati dovettero provare di fronte a un’opera come la Commedia, capace [...] di irrompere sulla scena culturale, innovando sensibilmente gli statuti letterari in uso e sconvolgendo l’orizzonte d’attesa dei suoi primi lettori”. Tra gli esempi più interessanti dei primi commenti figurano quello del notaio fiorentino Andrea Lancia, autore d’un commento in volgare (1341-1343 circa), formalmente poco interessante ma utile in quanto tra le opere esegetiche più antiche e fondamentale per ricostruire anche gli ambienti danteschi della Firenze del tempo, e quello dell’“Amico dell’Ottimo” della Pierpont Morgan Library di New York, aperto in mostra su di una illustrazione di Lucifero secondo la descrizione del canto XXXIV dell’Inferno. La “riscoperta” di Dante a Firenze favorì anche la diffusione dei classici, con un pubblico sempre più ampio che s’appassionava alla lettura dei testi di Virgilio, di Ovidio, di Lucano e altri importanti autori latini: in mostra il pubblico troverà codici trecenteschi con l’Ars poetica di Orazio, le Metamorfosi di Ovidio e altri capolavori della letteratura classica.
S’arriva dunque alla sezione dedicata alla costruzione della memoria dantesca, che si concentra in particolare sulla riabilitazione della figura di Dante con l’esposizione del Codice 174 dell’Ambrosiana di Milano, contenente la Cronica di Villani, e il già citato Toledano 104.6 con il Trattatello in laude di Dante (il codice è un autografo del Boccaccio, aperto in mostra sulla prima pagina dello stesso Trattatello). Il breve capitolo di Villani è la prima biografia nota di Dante, “una sorta di elogio funebre” (così Teresa De Robertis) il cui racconto inizia proprio dall’esilio di Dante, che Villani, esattamente come Boccaccio, giudica immeritato. L’autore del Decameron, presente in rassegna con l’opera scritta di suo pugno, nel Trattatello suggerisce l’idea che la memoria di Dante vada risarcita, proponendosi di farlo con le parole, raccontando la vita, gli studi e le opere di Dante (il codice contiene infatti la Vita nova, la Commedia e quindici canzoni: testi ritenuti da Boccaccio particolarmente rappresentativi della poetica dantesca), ma lasciando trasparire l’idea che non sarebbe stato sbagliato celebrare Dante con statue o monumenti. Ed è interessante vedere in mostra un manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze in cui un ignoto illustratore raffigura un sepolcro di Dante, inserito alla fine del Paradiso a far da cornice a una lirica in onore di Dante scritta dal grammatico bolognese Giovanni del Virgilio (che reitera peraltro il topos della patria “ingrata” e “cruda” che gli portò il “triste frutto” dell’esilio, contrapposta alla “pia” Ravenna dove il poeta riposa). Si tratta di un codice eseguito a Firenze: Dante era morto lontano dalla sua città natale (e allo stesso modo la prima esegesi della sua opera, oltre all’attività encomiastica della sua figura, aveva avuto origine lontano da Firenze), e questo disegno si contraddistingue dunque per il suo valore simbolico, poiché è come se, in un certo modo, il corpo del poeta fosse tornato a casa. La mostra, come anticipato, si chiude con una sezione dedicata alla lingua fiorentina del tempo, testimoniata da documenti semplici e modesti, anche di carattere pratico, come la più antica gabella in volgare (in prestito dall’Accademia della Crusca) e anche da un curioso libro di cucina colmo di ricche ricette: opere che dànno conto delle differenze tra la lingua letteraria e quella invece praticata nel vivere quotidiano, e permettono dunque di addentrarsi nell’espressione più viva e feriale della lingua del tempo.
Andrea Lancia (copista), Commedia commentata (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.I.39, f. 185v) |
Andrea Lancia (copista), Commedia con il commento dell’Amico dell’Ottimo (New York, Pierpont Morgan Library, M.676, f. 47r: Lucifero al fondo dell’Inferno) |
Ars Poetica di Ovidio (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Pluteo 36.5) |
Giovanni Boccaccio (autografo), Vita di Dante e raccolta di opere dell’Alighieri (Toledo, Archivo y Biblioteca Capitulares, Zelada 104.6, f. 1r: Trattatello in laude di Dante) |
Manoscritto con testi danteschi (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conventi Soppressi C.3.1262 f. 101v: sepolcro ed epitaffio di Dante) |
Libro di ricette culinarie (Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1071, f. 55v) |
Con Onorevole e antico cittadino di Firenze, il Bargello tenta un’operazione singolare, complessa, per certi versi anche difficile, che occupa un posto del tutto particolare nel quadro degli eventi per il settecentesimo anniversario della scomparsa del poeta: è una mostra che, in sostanza, offre al visitatore un profondo spaccato storico, culturale, politico, e in certo modo anche sociale, della Firenze del primo Trecento, secondo un’ottica multidisciplinare (e così del resto non poteva non essere date le ambizioni della rassegna). Una mostra dove le opere d’arte sono oggettivamente poche, ma che non è respingente per il pubblico, dato che gli organizzatori sono intervenuti con apparati capaci di guidare bene anche i visitatori tra i tanti codici giunti in prestito da diverse importanti istituzioni, e che hanno pure arricchito l’esperienza con degli audio che diffondono i versi danteschi letti da Pierfrancesco Favino. Non era semplice catturare il pubblico con una mostra che potrebbe esser percepita come un approfondimento per specialisti: in realtà, al di là dell’indiscusso valore scientifico, l’organizzazione era evidentemente consapevole del valore divulgativo di un evento che tracciasse la storia della riabilitazione di Dante nella sua città.
Una mostra che riconosca e racconti il modo in cui Firenze ha trattato Dante è, intanto, un’esposizione tutt’altro che scontata: il pubblico avrà modo di conoscere una buona parte delle ragioni del successo di Dante, e se ancor oggi leggiamo la Divina Commedia, i motivi sono anche da cercare tra gli oggetti esposti. E forse è anche il modo migliore per ricordare il poeta nel settecentenario, anche per ragionare su quanto attuale sia il contenuto dei suoi testi e della sua esperienza umana: il modo in cui è stata costruita la mostra invita a riflessioni che vanno anche al di là delle pagine miniate e delle superfici dipinte. S’è detto del resto in apertura che si tratta d’una mostra molto politica. Il poeta non aveva potuto tornare di persona nella sua città: ci tornò sotto forma di libro. E adesso ci torna sotto forma di mostra.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).