È tra le parole dello stesso Ólafur Elíasson che occorre trovare gli elementi più interessanti della sua grande personale Nel tuo tempo, l’atteso appuntamento che Palazzo Strozzi dedica all’artista danese-islandese, proponendo una mostra che offre al pubblico un mélange di opere storiche e lavori appositamente realizzati per quest’occasione. In questa commistione stanno alcuni importanti elementi di criticità, a partire dal fatto che la mostra rinuncia ad autodefinirsi in maniera precisa, preferendo presentarsi semmai come, citando dalle note stampa, “la più grande mostra di Ólafur Elíasson mai realizzata in Italia”: la natura delle sale di Palazzo Strozzi, un edificio rinascimentale, ha per forza di cose costretto Elíasson, il curatore Arturo Galansino e i loro collaboratori a inventare una rassegna che, se dev’essere considerata una retrospettiva organizzata secondo criteri di filologia, soffre di alcune debolezze di troppo. In particolare, il visitatore che niente conosce dell’arte di Elíasson si confronterà con un percorso poco organico e che poco aiuta a comprendere in ottica diacronica lo sviluppo della sua arte. Ha, semmai, il carattere della mostra antologica: sono state scelte, in maniera non esaustiva, non completa e forse neppure troppo rappresentativa, alcune delle opere che meglio hanno marcato il percorso artistico di Elíasson, e sono state disposte secondo le possibilità offerte da un edificio antico, affascinante e complesso, come Palazzo Strozzi.
Edificio antico che ha rappresentato, dunque, la sfida principale per Elíasson, e nella sua risposta sta il principale motivo d’interesse per la mostra, vedendola sotto la prospettiva di chi non andrà a Firenze completamente digiuno della sua arte (per chi invece non conosce Elíasson, la mostra rappresenta un’occasione molto significativa). La sua idea, c’informa l’artista nel testo scritto per il catalogo, era quella di concepire Palazzo Strozzi “non tanto come un ospite passivo, come uno sfondo, o persino un contenitore per l’esposizione, ma piuttosto come un co-produttore della mostra stessa”. Elíasson chiama a supporto del suo progetto alcune citazioni tratte da testi di accademici contemporanei: l’idea di fondo è ben espressa da un brano della geografa Doreen Massey, che chiede al lettore d’immaginare un viaggio tra Manchester e Liverpool. Mentre siamo in viaggio, nessuna delle due città rimarrà identica a se stessa, nessuna rimarrà passiva a salutarci ad accoglierci, ma entrambe andranno avanti, al pari delle decine di migliaia di storie, vite, traiettorie che s’intrecciano nelle loro strade, dentro i loro edifici. La metafora torna utile a Elíasson per spiegare che anche Palazzo Strozzi arriva sino a noi dopo aver compiuto “un viaggio nel tempo dalla sua origine nel Rinascimento come palazzo di proprietà della potente famiglia degli Strozzi, al suo odierno ruolo di spazio che accoglie centri di ricerca e mostre”. Gli stessi visitatori, per andare alla mostra, hanno compiuto un viaggio, le loro storie si sono incrociate con quelle di tanti altri visitatori che si sono messi in cammino con lo stesso obiettivo per incontrarsi a Palazzo Strozzi.
La prima opera che il visitatore incontra nel percorso, Under the weather, intende farsi metafora di questo incontro tra palazzo e visitatori: una grande ellissi sospesa che, attraverso l’effetto moiré (quello, in breve, che si ottiene sovrapponendo due trame uguali con angolatura diversa), mira a creare “uno spiazzamento percettivo attraverso un gioco di interferenze visive” per destabilizzare “l’impressione della rigida architettura ortogonale di Palazzo Strozzi, mettendo in discussione la sua percezione di struttura storica stabile e immutabile” (così Galansino nel suo testo). Certo, sarebbe riduttivo limitare il significato di quest’opera, e ancor più delle tre che si trovano al piano nobile e che interagiscono con gli elementi architettonici dell’edificio, al ruolo di promemoria nei riguardi del pubblico, per rammentare che Palazzo Strozzi non è una struttura rimasta immutata nel tempo: o almeno, avrebbe poco senso nel paese più stratificato del mondo, dove i cittadini sono abituati a vivere, studiare, lavorare, mangiare, divertirsi, riprodursi in tessuti urbani colmi di testimonianze storiche d’ogni epoca dalle antiche colonie greche in avanti, e per di più in un edificio dove ogni artista intervenuto ha voluto lasciare il suo segno con installazioni altrettanto monumentali. Basterà pensare ai recenti scivoli che Carsten Höller ha installato nel cortile di Palazzo Strozzi, ma il viaggio all’indietro nel tempo può toccare tappe anche più lontane.
Si potrebbe dunque aprire una parentesi e tornare agli anni Sessanta, e in particolare a una serie di mostre che si tennero a Palazzo Strozzi, tutte allestite dal fiorentino Leonardo Savioli, visionario architetto, allievo di Giovanni Michelucci, che vedeva nella progettazione degli allestimenti stessi un momento di straordinaria e intensa creatività. Per la grande mostra su Le Corbusier che si tenne a Palazzo Strozzi nel 1963, s’era posto un problema caratterizzato da diversi ordini di complessità: far dialogare il palazzo antico con le opere moderne dell’architetto svizzero, proporre al pubblico una testimonianza esaustiva della pittura e della scultura di Le Corbusier (questa era stata la sua espressa richiesta per acconsentire al progetto), legare in maniera coerente gli oggetti alle strutture del palazzo. Il problema dinnanzi al quale s’era trovato Savioli non era distante da quello che oggi affronta Elíasson: “trovandomi nelle condizioni di dover esporre oggetti nuovi in palazzi antichi ho avvertito”, avrebbe poi detto Savioli, “che l’oggetto nuovo, se è vero, è somma, è continuità, è ‘storia’ e perciò come tale poteva perfettamente accostarsi a un capitello, ad un portale, ad uno spazio antico. Poteva sembrare una forzatura, almeno inizialmente, che tuttavia invece si è risolta poi in una autentica continuità, anche se tra il quadro di Le Corbusier, per esempio ed il capitello di Palazzo Strozzi erano intercorsi più di quattro secoli: quattro secoli che, con un accostamento attento venivano annullati, polverizzati, una specie di ‘corto circuito’ tra oggetti lontani quattro secoli e mai visti insieme prima di allora”.
Gli allestimenti mantennero dunque una linea precisa: banalizzando, un “rigore cartesiano” (così Lisa Carotti) di base per sottolineare la modernità dell’opera di Le Corbusier, pannelli, basi e pedane che sembravano oggetti a sé stanti per trasmettere l’idea della connessione delle varie anime della ricerca del grande architetto, strutture ben distanziate dalle pareti del palazzo per suggerire la lontananza temporale, ma anche, citando ancora Carotti, sculture “isolate e trasformate in fulcri compositivi”, “supporti espositivi lavorati come oggetti scultorei”, “dipinti trattati come oggetti tridimensionali e staccati dalla parete” e “vani delle porte trasformati in cornici” per rendere evidente il “corto circuito” cui alludeva Savioli. E ancora Savioli partecipò a un esperimento ancor più radicale, la mostra La casa abitata che, nel 1965, dietro l’organizzazione d’un comitato presieduto da Michelucci, invitò a Firenze quindici architetti (tra i quali Ettore Sottsass, Angelo Mangiarotti, Marco Zanuso, i fratelli Castiglioni, Leonardo Ricci, Vittorio Gregotti, lo stesso Savioli) per ragionare sul tema dell’abitare: le sale di Palazzo Strozzi si trasformarono in unità abitative, sale da pranzo, salotti, stanze da letto, bagni per mostrare al pubblico le idee più innovative sulla casa.
In sostanza, il pubblico di Palazzo Strozzi è da sessant’anni abituato a esperimenti che modificano la loro percezione dell’edificio: succede, si potrebbe dire, praticamente per ogni mostra. Più interessante, semmai, è la riflessione che Elíasson apre sul valore di Palazzo Strozzi, introdotta dalla stessa Under the weather ma ancor più dalle tre opere che si trovano al piano superiore, tutte simili, tutte nelle prime tre sale. La prima che s’incontra è Triple seeing survey: la luce proiettata da tre faretti sistemati nel cortile filtra attraverso i finestroni di Palazzo Strozzi e crea come dei doppi sulla parete, con tanto di riproduzione delle irregolarità del materiale. Del trittico è forse l’opera più sorprendente: la sala viene trasformata in una sorta di galleria, di loggia coperta, l’aspetto dell’ambiente viene pesantemente alterato. Nella sala successiva si trova invece Tomorrow: il principio è simile, ma la luce viene da fuori ed è colorata attraverso appositi filtri per offrire al pubblico la suggestione di un’alba o di un tramonto. Con anche una leggera sensazione di straniamento: “Quando accedono alla sala”, si legge nel catalogo, “i visitatori possono scorgere le sagome e le caviglie delle persone che si trovano dall’altra parte dello schermo ma non capiscono come accedere a questo secondo spazio finché non si spingono più avanti lungo il percorso espositivo. L’opera [...] riflette l’interesse profondo di Elíasson per la scomposizione della luce bianca nelle sue diverse lunghezze d’onda”. Infine, si arriva dinnanzi a Just before now: ancora giochi di riflessioni con le finestre del palazzo, ma questa volta con filtri blu e arancioni che si sovrappongono e griglie irregolari.
Ólafur Elíasson interviene sugli spazi di Palazzo Strozzi, alterandone l’aspetto, modificandone la forma, estendendoli o restringendoli, tutto attraverso proiezioni con le finestre, per creare un nuovo spazio condiviso, partendo da un pensiero della scrittrice e studiosa di storia afroamericana Saidiya Hartman: “Ogni generazione affronta il compito di scegliere il proprio passato. Le eredità vengono scelte tanto quanto vengono trasmesse. Il passato dipende meno da ‘ciò che accadde allora’ che da desideri e malcontenti del presente”. L’idea è che un oggetto che ci arriva dal passato non rappresenta un generico “passato”, quanto semmai le visioni e le idee che animarono, in quel dato momento storico, le persone che parteciparono alla realizzazione di quell’oggetto. “Palazzo Strozzi stesso”, conclude Elíasson, “ci racconta una storia che parla dell’architettura impiegata come strumento di potere”. Decostruendo quest’architettura, disorientando lo spettatore, costringendolo ad agire, seppur inconsapevolmente, in prima persona (in Tomorrow e in Just Before Now si vedono le ombre proiettate dai visitatori che stanno sul lato opposto della sala: i teli su cui vengono proiettate le luci sono sistemati al centro esatto dell’ambiente), Elíasson ambisce evidentemente a rendere palese il senso del tempo che scorre (da qui il titolo della mostra) e, di conseguenza, a evidenziare come il valore di Palazzo Strozzi sia cambiato nel corso dei secoli. Da fulcro del potere a nucleo fondante di nuove esperienze, centro di ricerche, luogo di condivisione. “Si può essere immersi anima e corpo in una situazione e al contempo riflettere su questa immersione, ovvero valutare in modo critico ciò che si sta facendo mentre lo si sta facendo”: così Elíasson, che ragionando su questo assunto motiva anche la centralità che assumono corpo e movimento all’interno dell’esperienza che ha inteso costruire per il pubblico. La fluidità della percezione è del resto centrale nella sua ricerca, il suo testo in catalogo rimarca più volte questo concetto, e le opere che seguono potrebbero essere intese come un modo per ribadirlo, anche se gli apparati faticano un po’ a rendere il visitatore edotto circa le basi filosofiche dell’arte di Elíasson, concentrandosi più sugli effetti esteriori delle sue installazioni, situazione che aumenta la percezione di percorrere una specie di labirinto degli specchi.
Le rimanenti sale della mostra procedono dunque in un percorso attraverso alcune installazioni storiche e recenti di Elíasson: si comincia con How do we live together, il grande arco montato su specchio appeso al soffitto che da un lato offre l’illusione di un enorme anello che occupa la sala, e dall’altro estende lo spazio fisico col mezzo della riflessione, offrendo un’ulteriore sensazione di spiazzamento al pubblico. Si passa poi all’infilata d’installazioni luminose, che riportano alla mente i rivoluzionari ambienti di Lucio Fontana: Solar compression, Red window semicircle e Triple window conducono all’interno di ambienti dove faretti proiettano luci colorate nello spazio creando effetti diversi e sorprendenti. Il passaggio più spettacolare della mostra è quello che conduce verso Beauty, una delle prime opere di Elíasson, oltre che tra i suoi lavori più originali: al centro di una sala cupa, una pompa crea una nebbia artificiale su cui si riflette un arcobaleno che cambia secondo la percezione del pubblico che si muove all’interno dell’ambiente, con l’obiettivo, spiega lo stesso Elíasson, “di oscillare avanti e indietro tra due posizioni: vedere l’arcobaleno, non vedere l’arcobaleno, vedere e non vedere”. Si giunge infine alle ultime due sale del piano nobile, prima con le caleidoscopiche installazioni Firefly double-polyhedron sphere experiment e Colour spectrum kaleidoscope, per poi passare a Room for one colour, la “stanza gialla” memore della Yellow room di Bruce Nauman. Scendendo in Strozzina, s’incontrerà un’altra opera nuova, Your view matter, installazione di realtà virtuale che trasporta il pubblico in spazi costruiti esplorando le possibilità dei solidi platonici (tetraedro, ottaedro, icosaedro, dodecaedro e cubo) e della sfera, per terminare con altre opere che fanno uso di specchi: City Plan, sul tema del flusso delle informazioni (una serie di specchi riflette le prime pagine di alcuni giornali locali cambiate quotidianamente mettendo lo spettatore al centro dello spazio creato dalle rifrazioni), Eye see you, altra opera che sfrutta l’effetto moiré, e Fivefold dodecahedron lamp, un dodecaedro contenente un tetraedro che, col tramite di specchi e di una lampadina alogena, proietta giochi di riflessi e ombre.
Rimarrà probabilmente deluso chi, dalla mostra fiorentina, s’aspettava nuovi lavori radicali, fortemente innovativi, in grado d’imprimere un’ulteriore svolta al lavoro di Elíasson, magari spinti dalle urgenti contingenze del nostro tempo, dato che Elíasson è artista fortemente interessato ad argomenti come il cambiamento climatico, l’inclusione, il rapporto con gli altri: le opere nuove realizzate per Palazzo Strozzi, se le si considera da un punto di vista eminentemente artistico e senza dunque caricarle del valore che assumono in relazione al luogo che le contiene (e proprio perché così legate all’edificio sono opere che non rivedremo mai più, se non in una seconda mostra di Elíasson a Palazzo Strozzi, chissà se e quando), non hanno questo carattere, anzi, richiamano le più precoci esperienze dell’artista scandinavo, fin dalla prima Window projection del 1990, eseguita da un Elíasson appena ventitreenne. Le nuove opere estendono però le possibilità di quei primi esperimenti: a Palazzo Strozzi, il percorso cominciato da Elíasson più di trent’anni fa mira, con l’utilizzo degli stessi mezzi, punta a farci maturare consapevolezza dei luoghi in cui viviamo. E però, trattandosi anche della “più grande mostra di Ólafur Elíasson mai realizzata in Italia”, sarebbe interessante anche aprire un ragionamento sulla consistenza del debito di Elíasson nei riguardi dell’arte italiana.
Non si tratta solo di discutere sulle corrispondenze che le sue installazioni trovano nei dipinti degli artisti del Rinascimento, argomento su cui si concentra egregiamente Galansino (che è storico dell’arte) nel suo saggio in catalogo, esortandoci a notare ulteriori motivi d’interesse in opere come Triple seeing survey, Tomorrow e Just before now: dalle geometrie prospettiche di Paolo Uccello alle sperimentazioni di Leonardo da Vinci passando per la “pittura di luce” del Beato Angelico e di Piero della Francesca (Galansino, per esempio, introduce un parallelo tra i fasci luminosi di Triple seeing survey e opere precedenti, come Love sees with eyes, not with mind del 1999, e il pulviscolo atmosferico della Madonna di Senigallia di Piero della Francesca). Si tratta anche di ragionare, oltre che sul possibile debito nei confronti di Fontana cui s’è brevemente accennato, anche sulle suggestioni l’arte cinetica, e in particolare il lavoro del Gruppo N, a partire da Alberto Biasi e Manfredo Massironi, può aver fornito a Elíasson, argomento poco o per niente affrontato e che la mostra non tocca: Biasi, Massironi e altri già decenni fa eseguivano lavori con effetto moiré, l’opera ambientale Tu sei di Biasi anticipa di una quarantina d’anni la Uncertain shadow di Elíasson (filiazione peraltro riconosciuta nel secondo dei due volumi che accompagnano la mostra L’occhio in gioco in corso al Palazzo del Monte di Pietà di Padova fino al 26 febbraio), le sfere di Your timekeeping window paiono derivare dalla Cineriflessione sferica variabile di Edoardo Landi, senza menzionare, naturalmente, le opere ambientali del Gruppo N o, ancor più nello specifico, le proiezioni di luce e ombra di Alberto Biasi dei primi anni Sessanta che si potrebbero annoverare tra i più naturali antecedenti dei lavori con la luce di Elíasson.
Tornando invece al valore concettuale dell’arte di Elíasson, per concludere, qual è il nostro tempo? La mostra, tirando le somme e volendo trovare un significato complessivo, parrebbe essere una continua risposta a questa domanda: per Elíasson, il nostro tempo è anzitutto un tempo condiviso, fatto di percezioni individuali e collettive, ricordi, pensieri. Potrebbe sembrare banale, ma il centro del ragionamento di Elíasson è rilevante: implica una riflessione sul concetto di “noi globale” sul quale Elíasson ha più volte lavorato in passato e che l’artista adesso però dichiara di voler rivedere alla luce del fatto che eccedere nelle universalizzazioni potrebbe essere poco ragionevole oltre che poco adatto a rispondere alle sfide del presente. Probabilmente è su queste idee che in futuro si orienterà il lavoro di Elíasson.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).