Sul finire dell’Ottocento, Maud Cruttwell, autrice d’una tra le prime monografie estese su Luca Signorelli (Cortona, 1450 circa - 1523), scrisse che il grande artista cortonese sarebbe stato destinato a trovare nient’altro che amarezze a Roma. Effettivamente, al di là del giovanile exploit della Cappella Sistina, la fortuna non gli arrise nella città dei papi, persino quando pensava che la sorte fosse dalla sua parte. Cocente fu la delusione quando, nel 1513, al soglio pontificio salì Giovanni di Lorenzo de’ Medici col nome di Leone X: Signorelli pensava che avrebbe avuto gioco facile a ottenere commissioni dal nuovo pontefice, visto che, anni addietro, aveva già lavorato per la sua casata (si pensi alla distrutta Educazione di Pan, eseguita verso la fine degli anni Ottanta per il padre di Leone X, Lorenzo il Magnifico, o all’enigmatica e fondamentale Madonna Medici, da ricondurre con tutta probabilità alla committenza di Lorenzo di Pierfrancesco). Al contrario, Signorelli dovette tornarsene in Toscana senza ottenere riscontri, come attesta anche una nota lettera che Michelangelo (Caprese, 1475 - Roma, 1564) inviò nel 1518 al capitano di Cortona, Zanobi di Lucantonio Albizi, per chiedergli di riscuotere un debito che Signorelli gli doveva: “mi disse che era venuto a parlare al Papa”, scrive Michelangelo, “[...] e che gli parea, chome dire?, non essere richonosciuto”. Ma se Roma fu per Signorelli avara di soddisfazioni lavorative, lo stesso non si può dire per ciò che la città gli restituì in termini culturali.
Ripercorrere le tracce della presenza di Luca Signorelli a Roma (questo è l’obiettivo della mostra Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte, in corso ai Musei Capitolini di Roma fino al 12 gennaio 2020) significa approfondire l’impressione che sull’artista toscano esercitarono le vestigia antiche, tanto fondamentali per la sua arte (e che l’artista poté vedere e studiare direttamente durante i suoi soggiorni) in quanto funzionali a forgiare le basi della sua pittura, che Giorgio Vasari rammentava esser fondata sul “disegno e delli ignudi particolarmente” e sulla “grazia della invenzione e disposizione delle istorie”: disegno e grazia con le quali, secondo Vasari, Signorelli “aperse alla maggior parte delli artefici la via dell’ultima perfezzione dell’arte, alla quale poi poterono dar cima quelli che seguirono”. Se Signorelli fu quell’artista “impetuoso e tragico” (come lo definì Adolfo Venturi) che troviamo nella Cappella di San Brizio al Duomo di Orvieto (le cui pitture, stando a Vasari, furono da Michelangelo “sempre sommamente lodate”), se aveva ragione Pietro Scarpellini quando scriveva che questo grande pittore riusciva “a vincere i presupposti scenografici con soluzioni così geniali da rivolgere l’artificio in verità e l’oratoria in poesia”, e se riuscì a maturare, come scrivono i curatori della mostra romana Federica Papi e Claudio Parisi Presicce in apertura di catalogo, quel “particolare talento nella resa in pittura delle figure nude, in scorcio, in movimento e ben disposte nello spazio”, il riferimento all’antico diventa argomento imprescindibile.
La piccola rassegna romana (circa una dozzina in tutto le opere di Signorelli presenti) non propone particolari novità nell’ambito dell’argomento “Signorelli a Roma”: nuovo è però l’intento di dedicare al tema un piccolo focus, non completo (per ammissione stessa dei curatori), ma strutturato in maniera organica, e funzionale, da una parte, a proporre al pubblico un’interessante occasione divulgativa attorno a un artista oggi riconosciuto (dopo secoli d’oblio: anche su quest’aspetto si concentra una parte della mostra) come uno dei più grandi del Rinascimento e come artista senza il quale forse non si potrebbero spiegare certi risultati raggiuti da Michelangelo e da Raffaello, e dall’altra a riaccendere i riflettori su di un tema su cui probabilmente c’è ancora da lavorare, dal momento che sono scarsissimi i documenti che attestano la presenza di Signorelli a Roma, l’estensione dei suoi soggiorni e i termini della sua attività in città. Vale inoltre la pena sottolineare che l’esposizione capitolina è la terza mostra di sempre su Signorelli, e segue la prima monografica del 1953, tenutasi a Cortona e Firenze (e malauguratamente colpita dalle durissime polemiche che scatenò tra gli studiosi: ci vollero dieci anni affinché il summenzionato Scarpellini, con la sua monografia del 1964, rimettesse ordine e tracciasse un profilo di Signorelli immune da pregiudizî), e l’altro importante evento espositivo tenutosi nel 2012 a Perugia, Orvieto e Città di Castello.
Una sala della mostra Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte |
Una sala della mostra Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte |
Una sala della mostra Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte |
La rassegna s’apre con una duplice inquadratura: prima, vengono presentate al pubblico le vicissitudini dell’effigie di Luca Signorelli, che offrono un primo affondo sulla fortuna critica dell’artista. La vicenda, benché proposta anche in occasione della mostra del 2012 e qui arricchita con la presenza dei due ritratti ottocenteschi di Signorelli, uno eseguito da Pietro Pierantoni nel 1816 e l’altro nel 1848 da Pietro Tenerani, è alquanto singolare: per secoli fu tramandato un ritratto errato di Signorelli, ovvero quello che Vasari accluse alla biografie dell’artista nelle sue Vite, prendendo un clamoroso granchio. Lo storiografo aretino, infatti, diffuse un’immagine di Vitellozzo Vitelli, eseguita da Signorelli, scambiandola per quello del pittore stesso, peraltro in maniera decisamente bizzarra, dal momento che Vasari sosteneva d’aver conosciuto Signorelli in persona, benché da bambino: solo a XIX secolo inoltrato ci s’accorse dell’abbaglio. Poi, si passa a presentare il contesto della Roma di fine Quattrocento, da un lato attraverso l’immagine della città nelle piante dell’epoca (com’è stato due anni fa per la mostra sui Pinturicchio e i Borgia, anch’essa tenutasi presso i Musei Capitolini: la rassegna su Signorelli è strutturata su di un impianto simile e si pone in continuità), argomento cui è dedicato anche un saggio di Laura Petacco in catalogo (si trattò d’un’epoca di profondi cambiamenti per una città che stava smettendo i suoi panni di periferico centro medievale sorto disordinatamente tra le rovine della Roma classica e stava trasformandosi nella sontuosa capitale del cattolicesimo), e dall’altro insistendo in particolare sull’opere di papa Sisto IV (al secolo Francesco della Rovere; Pecorile, 1414 - Roma, 1484), che fu pontefice dal 1471 fino alla sua scomparsa e si fece promotore di quell’intensa renovatio Urbis della quale, in quest’introduzione della rassegna, vengono ripercorse le tappe salienti. Seppur fortemente presente nelle vicende politiche del suo tempo (visti a posteriori, gli anni di Sisto IV furono caratterizzati da una secolarizzazione spinta del potere papale), e per quanto fortemente criticato (il nepotismo che caratterizzò il suo pontificato raggiunse livelli estremi, e nel 1476 il papa avocò a sé la nomina delle più alte cariche municipali, limitando fortemente i poteri del Comune), Sisto IV effettivamente diede un volto nuovo alla città: il giubileo del 1475 fornì occasione per il riammodernamento di molti edifici e l’edificazione di nuovi (spiccano la costruzione del ponte Sisto e il restauro di altri ponti sul Tevere, tra i quali il ponte Milvio e il ponte Sant’Angelo, e ancora la sistemazione della rete stradale, l’edificazione e il rinnovamento di ospedali e istituti di carità, a partire dal restauro dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia cui è peraltro dedicata una sala della mostra, senza calcolare l’imponente riforma edilizia che sancì ulteriori modifiche all’aspetto di Roma). Tra gli atti più significativi di Sisto IV si colloca anche la donazione dei bronzi antichi del Laterano al popolo romano. Sancita il 15 dicembre del 1471, la donazione si configurò come una mossa escogitata dal pontefice nell’ambito della costruzione del consenso attorno alla sua figura che sempre contraddistinse il suo operato, ma di fatto rappresentò al contempo l’atto fondativo dei Musei Capitolini, dacché le opere furono trasferite nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, così che fosse data a chiunque facoltà d’osservarle.
È qui che s’innesta il resto della mostra. Nella donazione era compreso anche lo Spinario, il bronzo raffigurante un pastorello che si cava la spina da un piede, notissimo nel Quattrocento e anche prima, e divenuto oggetto delle attenzioni d’una vasta pletora d’artisti in virtù dell’originalità della sua posa (com’è noto, è seduto, una gamba sopra all’altra in orizzontale, e chino in avanti per esaminare la spina conficcatasi nel piede sinistro), nonché per effetto della grazia e della naturalezza con le quali l’atteggiamento del bambino viene risolto. Signorelli, come anticipato, era stato chiamato a Roma, nel 1482, per gli affreschi della Cappella Sistina, benché inizialmente la sua presenza non fosse prevista accanto a quella di Botticelli, Perugino, Cosimo Rosselli e Ghirlandaio. Signorelli arrivò in seguito, chiamato assieme all’altro toscano Bartolomeo della Gatta (Pietro di Antonio Dei; Firenze, 1448 - Arezzo, 1502), a fornire il suo aiuto poiché i lavori erano in ritardo: così, il cortonese aiutò il Perugino, assieme a Bartolomeo della Gatta, nell’affresco della Consegna delle chiavi, inoltre sempre assieme al suo conterraneo eseguì la scena del Testamento di Mosè, e infine da solo portò a termine il Combattimento sul corpo di Mosè, poi distrutto per via d’un crollo e rimpiazzato a Cinquecento inoltrato da un omologo affresco di Hendrick van der Broeck. A questo punto occorre pertanto immaginarsi Signorelli che, salendo al Palazzo dei Conservatori (e magari visitando qualcuna delle collezioni d’antichità che i romani più in vista avevano preso ad allestire in quei tempi), rimane affascinato alla vista delle statue antiche, e coglie importanti spunti che ritroviamo in seguito, puntualmente, nei suoi dipinti. Il primo di questi, tra quelli esposti in mostra, è la Madonna col Bambino in arrivo dalla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera: dietro alle due figure principali troviamo un giovane nudo la cui posa ricalca quella dello Spinario. La statua antica è peraltro esposta in mostra, in due versioni: quella di bronzo dei Musei Capitolini e lo Spinario Medici in marmo, oggi agli Uffizi (probabilmente quest’ultima era già ben nota a Signorelli ancor prima del suo trasferimento a Roma, dato che è attestata la presenza della statua nel repertorio d’antichità laurenziane del giardino di San Marco, ed è nota la sua conoscenza anche da parte di artisti del primo Rinascimento fiorentino: Giovanni Luca Delogu, nella scheda della Madonna bavarese compilata per il catalogo della mostra del 2012, notava che lo Spinario Medici “ai tempi di Signorelli costituiva ormai una consolidata immagine di repertorio, essendo già stata trattata da Brunelleschi, Masaccio e dallo stesso maestro di Luca, Piero della Francesca, nel ciclo di Arezzo”). La Madonna di Monaco è stata oggetto di dibattito critico a inizio Novecento, sia per quanto riguarda la datazione, sia per ciò che invece concerne l’autografia (anche se su quest’ultima ormai la critica è sostanzialmente unanime nell’assegnare l’opera al maestro di Cortona), sia soprattutto per il significato del nudo alle spalle dei protagonisti, che potrebbe essere interpretato come un neofita che sta per spogliarsi per ricevere il sacramento del battesimo, secondo un’ipotesi già in auge nei primi del Novecento e difficilmente contestabile. Questa presenza peraltro torna nel Battesimo di Cristo di Arcevia, anch’esso presente in mostra.
L’interesse di Signorelli per le antichità romane va comunque ben al di là delle semplici citazioni o delle riprese formali. È certo necessario ribadire che, riguardo al suo primo soggiorno romano, non abbiamo documenti che possano fornirci testimonianze certe, né sono sopravvissuti disegni che riescano a tramandarci in maniera più precisa quali fossero gli oggetti delle sue premure. Parimenti occorre rilevare, come sottolinea la studiosa Eloisa Doidero nel suo saggio a catalogo, che “l’incontro con il patrimonio antico di Roma è mediato, nell’opera signorelliana, dalla lezione dei maestri fiorentini, che introducono il pittore allo studio dell’anatomia e alla resa naturalistica del corpo. Il risultato è un linguaggio formale permeato di suggestioni classiche, mentre nella dimensione scultorea, tridimensionale delle figure del nostro, risiede la prova più incisiva della sua familiarità con la statuaria antica”. È dunque soprattutto nei nudi e nelle figure che si ravvisa il più sostanziale contributo colto dall’antico (nel catalogo si citano la Flagellazione di Brera, gli stessi affreschi della Sistina, la Madonna Medici, l’Educazione di Pan e diverse altre opere che non figurano in rassegna, e si potrebbe estendere il ragionamento alla stessa Crocifissione di Annalena che invece è presente), ma non solo. Ci sono almeno altri due motivi che vanno citati: il primo è quella che Francesca de Caprariis, nel suo contributo in catalogo, definisce “retorica delle rovine”, della quale troviamo un formidabile saggio nel Martirio di san Sebastiano di Città di Castello, restaurato proprio in occasione della mostra. Qui, Signorelli crea un paesaggio di rovine antiche certo del tutto irrealistico, ma che rappresenta segno profondo e tangibile della sua passione per le antichità: così, sulle colline che fanno da sfondo alla scena principale, s’ammirano il Colosseo, una rielaborazione dell’arco di Costantino, quella che sembra essere la sommità della Torre delle Milizie. Queste ultime appaiono infestate da vegetazioni, com’era tipico di quella retorica “segno di ammirazione e di trionfo su un mondo passato” (così de Caprariis), mentre lo stesso non avviene per la facciata del tempio in primo piano e per il ponte sullo sfondo: qui, l’assenza delle piante infestanti potrebbe farsi simbolo di un’antichità risollevata dall’oblio e ricontestualizzata nella contemporaneità cristiana. Il secondo motivo è invece l’interesse archeologico esemplificato dal titulus crucis che Signorelli appone alla croce del Cristo nella Crocifissione di Annalena: nel 1492 era stata infatti ritrovata a Roma quella che si riteneva fosse stata la targa effettivamente appesa alla croce di Gesù in segno di scherno, e Signorelli potrebbe essere stato il primo artista ad aver riportato la celebre iscrizione trilingue (in ebraico, in latino e in greco) in un’opera d’arte (il primato è conteso con il Crocifisso di Santo Spirito di Michelangelo).
Arte romana, Spinario (seconda metà del I secolo a.C.; bronzo, altezza 73 cm; Roma, Musei Capitolini) |
Arte romana, Spinario (prima età imperiale; marmo, altezza 84 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Luca Signorelli, Madonna con Bambino con nudo maschile (1494-1496?; olio su tavola, diametro 87 cm; Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) |
Luca Signorelli, Martirio di san Sebastiano (1498; olio su tavola, 288 x 175 cm; Città di Castello, Pinacoteca Comunale) |
Luca Signorelli, Battesimo di Cristo (1508; olio su tavola, 244 x 160 cm; Arcevia, Collegiata di San Medardo) |
Luca Signorelli, Crocifissione con la Maddalena, nota anche come Crocifissione di Annalena (1496-1498?; olio su tela, 249 x 166 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Un passaggio sugli affreschi della Cappella di San Brizio realizzati tra il 1499 e il 1504, con la riproduzione (in scala ovviamente ridotta) di alcuni dettagli delle scene (una presenza giustificata sulla base del fatto che il repertorio di nudi esibito nelle composizioni signorelliane di Orvieto deriva dalla sua conoscenza dell’antico) consente ai curatori d’esporre la cosiddetta tegola di Orvieto, che introduce alle sezioni sulla fortuna critica, dal momento che il dibattito attorno all’autografia di questa singolare lastra esacerbò gli animi in occasione della monografica del 1953, decretando un arresto dei consensi che l’artista aveva ottenuto tra gli studiosi. La mostra romana si limita a fornire qualche cenno, molto sommario, sulla vicenda, ch’era già stata ripercorsa (con più approfondita dovizia) nell’ambito della mostra del 2012: riassumendo, la tegola (una mattonella sulla quale sono dipinti, sul lato frontale, i ritratti di Luca Signorelli e di Niccolò di Angelo Franchi, camerlengo dell’Opera del Duomo di Orvieto all’epoca in cui all’artista furono affidati gli affreschi del Giudizio universale) divenne di fatto un vero capro espiatorio che aprì ad acerrimi attacchi nei confronti tanto del curatore della mostra, Mario Salmi, quanto di Signorelli stesso, pittore che, secondo i detrattori, la rassegna esaltava a torto in quanto “uomo tutto senso e fisicità, superbo dei suoi muscoli dilatati, schematico nella sua massività pseudo-epica” (così scriveva nel 1953 un appena ventiduenne Alberto Martini, l’allievo di Roberto Longhi prematuramente scomparso a trentaquattr’anni). Francesco Federico Mancini ha scritto nel 2012 che in questo coro di critiche, in certo modo ispirato da Longhi e capace d’includere personalità come Ragghianti, Salvini e Castelnuovo, “si riversavano anni e anni di personali rancori, di differenti impostazioni metodologiche, di contrapposizioni fra gruppi, di rivalità fra scuole di pensiero, di viersi modi di intendere e interpretare l’arte”: Longhi si accanì in particolare sulla tegola, da lui sbrigativamente bollata come un falso ottocentesco. Ne seguì un’appassionata difesa da parte di Mario Salmi, ma la questione sull’autografia della tegola rimane sostanzialmente irrisolta: un po’ perché le polemiche del 1953 troncarono quasi completamente il dibattito (ne seguirono solo le prese di posizione di Scarpellini, che nel 1964 si mantenne equidistante, di Zeri che nel 1995 si espresse in favore di Signorelli, e di McLellan ed Henry che manifestarono la propria contrarietà tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila), un po’ perché la vicenda è complessa e qui difficilmente riassumibile (varrà comunque la pena ricordare che l’ultima posizione, quella del succitato Mancini, è favorevole a un’autografia signorelliana).
Toccato dunque per un attimo il tema della considerazione di cui Signorelli godette presso la critica, la mostra torna a occuparsi dell’artista, e lo fa con una sala dedicata al tema della “grazia della invenzione” (per usare un’espressione vasariana) del cortonese: si fatica invero a seguire il fil rouge della mostra, perché questa sezione in buona parte se ne discosta, tesa com’è a dar conto, per contrasto, del profilo dell’artista (Federica Papi giustifica la presenza di queste Madonne in quanto opere nelle quali la tensione dei nudi orvietani si stempera aprendo a un filone nel quale l’artista “rivela il suo ingegno e la volontà di staccarsi dalla tradizione per intraprendere nuove soluzioni, formali, stilistiche e concettuali”). Sfilano dunque tre Madonne (peccato per i vetri riflettenti che impediscono di vederle in maniera ottimale), tutte appartenenti a fasi diverse della carriera di Signorelli: la Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e un santo, realizzata alla fine degli anni Ottanta e conservata in collezione Pallavicini-Rospigliosi, la Madonna col Bambino, san Giovannino e un uomo anziano del Jacquemart-André, eseguita nei primi anni Novanta, e infine la Madonna col Bambino del 1505-1507 circa oggi al Metropolitan di New York. La Madonna del Jacquemart-André, con l’enigmatica presenza dell’anziano non identificato con sicurezza (si tratta forse d’un pastore), non è neppure tra le opere migliori dell’artista (la figura della Vergine ricalca in maniera pedissequa la Madonna dell’Annunciazione di Volterra, tanto che c’è chi ha ipotizzato che quest’opera sia stata realizzata col concorso della bottega), mentre più interessanti sono le altre, in particolare quella di New York, soprattutto in ragione della sua storia: l’artista la donò alla figlia Gabriella nel 1507, ma forse era stata inizialmente intesa per la moglie Gallizia, scomparsa prematuramente nel 1506 (data in seguito alla quale il pittore legò il dipinto alla figlia attraverso le sue volontà testamentarie). L’inusuale sfondo della tavola, una decorazione che richiama quella dei tessuti, fatta di tondi con putti (alati e non)) e di medaglioni con profili d’imperatori, nella fattispecie Domiziano e Caracalla (dunque, ulteriori rimandi all’interesse di Luca Signorelli per la classicità, anche in questo caso animato tuttavia più da intenti formali e simbolici che da rigore archeologico, dal momento che queste monete sono invenzioni dell’artista), potrebbe alludere al tema dell’amore familiare. La stessa Vergine Maria trasuda un’umanità che di rado si riscontra in dipinti omologhi dell’artista toscano (si noterà anche l’assenza delle aureole): è presumibile che intenzione di Signorelli fosse quella di conferire un carattere d’universalità alla figura della Vergine, che in questo dipinto assume più le sembianze d’una mamma premurosa che quelle della madre di Dio. Un dipinto che racconta dunque una storia commovente, e un dipinto che si configura come rara testimonianza di opera rinascimentale strettamente legata alla vicenda personale dell’artista che la eseguì.
Attribuita a Luca Signorelli, Tegola di Orvieto (1504 circa; affresco su lastra in laterizio, 32 x 40 cm; Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo) |
Luca Signorelli, Madonna col Bambino, san Giovannino e un uomo anziano (1491-1493 circa; olio su tavola, 102 x 87 cm; Parigi, Musée Jacquemart-André) |
Luca Signorelli, Madonna col Bambino (1505-1507 circa; olio e tempera su tavola, 51,4 x 47,6 cm; New York, Metropolitan Museum) |
Mentre la rassegna s’avvia verso la conclusione, si toccano rapidamente le uniche testimonianze delle due successive presenze dell’artista a Roma: la prima si ha nel 1507, anno in cui, stando al racconto del pittore Giovanni Battista Caporali (Perugia, 1475 - 1560 circa), Signorelli avrebbe partecipato a una cena in casa di Bramante assieme al Perugino, al Pinturicchio e allo stesso Caporali, probabilmente per discutere di lavoro, magari un progetto da sottoporre al nuovo pontefice, Giulio II (Albisola Superiore, 1443 - Roma, 1513), il cui gusto tuttavia avrebbe preso, com’è noto, altri orientamenti (e questo malgrado il papa inizialmente fosse favorevole a far decorare i suoi appartamenti dai pittori della vecchia generazione, salvo poi ricredersi dopo aver notato il giovane Raffaello). La seconda invece è quella ricordata nella lettera di Michelangelo richiamata in apertura, ma è nota anche da un altro documento, nel quale Signorelli è attestato come procuratore della nuora, Mattea di Domenico di Simone, nell’ambito d’una vertenza che vedeva la donna opposta alle suore del convento di San Michele Arcangelo di Cortona, nel 1513 (il dato coincide col racconto di Michelangelo, che ricorda espressamente d’aver incontrato Signorelli nel primo anno del pontificato di Leone X, appunto il 1513). Non si conoscono, al momento, altre notizie sui soggiorni romani di Luca Signorelli.
Il finale è dedicato alla ricezione dell’arte di Signorelli nell’arte, nella critica e nel mercato tra Otto e Novecento. Si comincia con una breve, celere e, anche in questo caso necessariamente incompleta, ricognizione sugli artisti che rimasero affascinati dalla sua lezione, a cominciare dagl’incisori che riprodussero gli affreschi di Orvieto (nel percorso sono inserite opere di Vincenzo Pasqualoni-Filippo De Sancits e Oswald Ufer) per arrivare alle opere di Corrado Cagli (Ancona, 1910 - Roma, 1976) e di Franco Gentilini (Faenza, 1909 - Roma, 1981) che, in clima di rappel à l’ordre nell’Italia tra le due guerre avrebbero guardato, secondo i curatori, proprio ai nudi signorelliani. In catalogo l’elenco dei “debitori” continua: si spazia da riferimenti logici (dal purismo di Friedrich Overbeck alle visioni di Claudia Rogge, i cui rimandi a Signorelli nella sua serie Everafter del 2011 sono stati colti da molti) ad altri invece più improbabili (Fucking hell dei fratelli Chapman). Per quanto riguarda la fortuna critica, se ne ripercorre brevemente la storia partendo da Vasari, proseguendo per il lungo silenzio sei e settecentesco che, fatte salve alcune sporadiche apparizioni (vanno citati almeno Agostino Taja che, nel 1750, riteneva Signorelli il più talentuoso degli artisti della Sistina, e Domenico Maria Manni che nel 1756 scoprì alcuni documenti sul suo conto) dura sino al 1791, quando Guglielmo della Valle rivaluta Signorelli nella sua Storia del Duomo di Orvieto, per arrivare all’Ottocento inoltrato di Crowe e Cavalcaselle, di Robert Vischer autore della prima monografia sull’artista, di Maud Cruttwell, di Girolamo Mancini, per giungere infine alla mostra del 1953 e di lì ai fatti più recenti. Questo anche al fine d’introdurre il tema della riscoperta di Signorelli da parte del mercato antiquario, che a grandi linee coincise con la riscoperta critica. Il rinnovato entusiasmo di antiquarî e collezionisti, tuttavia, fu anche nocivo per le opere di Signorelli (così come per quelle di numerosi altri artisti), dal momento che comportò la dispersione di diverse opere e la distruzione di altre: esemplare è il caso della pala di Matelica, tagliata in più pezzi per facilitarne la vendita (in mostra sono esposti due frammenti, la Pia donna oggi conservata nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna e la Testa di Cristo della collezione Unicredit). A chiudere il cerchio, al termine del percorso espositivo, è la Madonna col Bambino fra quattro santi e angeli, legata a Roma non foss’altro per il fatto ch’è conservata al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, in antico di proprietà della famiglia Tommasi di Cortona, che nella seconda metà dell’Ottocento cedette gran parte della propria raccolta d’arte (i pezzi venduti oggi sono conservati in musei e collezioni sparse per tutto il globo). L’opera, che fu donata al Museo di Castel Sant’Angelo nel 1928 dalla famiglia Contini Bonacossi che ne deteneva all’epoca la proprietà, in origine fu eseguita per il convento di San Michelangelo a Cortona, è esemplificativa dello stile tardo di Signorelli (fatto di figure monumentali, nelle quali ancora s’avverte l’eco della statuaria antica, e colori sgargianti) ed è dotata d’una predella non pertinente (racconta le storie di san Giovanni Battista, non presente nel dipinto: la predella proviene dunque da un’altra opera ed è frutto d’un rimontaggio successivo).
Corrado Cagli, I neofiti (1934; tempera encaustica su tavola, 61 x 61 cm; Roma, Archivio Cagli) |
Luca Signorelli, Pia donna in pianto, frammento della pala di Matelica (1504-1505; olio su tavola, 24 x 27 cm; Bologna, Collezioni Comunali d’Arte) |
Luca Signorelli, Testa di Cristo, frammento della pala di Matelica (1504-1505; olio su tavola, 26 x 28 cm; Bologna, Collezioni Unicredit) |
Luca Signorelli, Madonna col Bambino fra quattro angeli e santi (1515-1517; olio su tavola trasportato su tela, 189 x 176 cm; Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo) |
Una piccola debolezza della mostra romana risiede nel fatto che sembra affrontare in maniera un poco affrettata il tema delle implicazioni filosofiche e allegoriche delle rovine in Luca Signorelli, entrando nel merito solo a proposito del San Sebastiano. Si parla di “antichità redenta” in ottica contemporanea, ma potrebbe esserci anche altro: Francesco Scoppola scriveva che le rovine di Signorelli potrebbero alludere “all’inesorabile passaggio a cui tutti siamo chiamati dal tempo, ma a ben vedere rimandano anche all’intero viaggio che dobbiamo affrontare nel corso della vita e non solo a suo esito, sino a divenire [...] quasi mezzo, strumento di ogni nascimento, di ogni progetto e di ogni traguardo” (che si voglia esser d’accordo o meno con tale lettura, una discussione attorno a quest’argomento potrebbe essere affascinante). La rassegna dei Musei Capitolini funziona però molto bene nel sottolineare l’apporto di Luca Signorelli alla storia dell’arte: forse potrebbe essere esagerato affermare che senza di lui non avremmo avuto né Raffaello né Michelangelo, ma è ormai acclarato che la rilevanza del suo contributo fu di enorme portata, e la mostra riesce bene a evidenziare i rapporti che l’arte dei due grandi artisti del Rinascimento maturo ebbero con quella del cortonese. In particolare, si ribadisce il ruolo d’indiscutibile precedente che gli affreschi della Cappella di San Brizio ricoprirono per il Giudizio universale che il Buonarroti avrebbe dipinto una trentina d’anni più tardi nella Cappella Sistina, proprio là dove Signorelli aveva lavorato cinquant’anni prima, ma non solo: certe soluzioni iconografiche impiegate da Signorelli (il Gesù Bambino in piedi nella Madonna di Manchester, i nudi classici dietro la Sacra Famiglia, gli atteggiamenti della Madonna Medici o della Madonna di Monaco) forniranno più d’uno spunto di riflessione a Raffaello e Michelangelo. Certo, non c’è molto che non sia già stato detto, e per questa ragione il principale apporto di Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte va letto nell’intento di ricondurre tutte queste suggestioni alla matrice romana, alla primigenia attenzione per l’antico, all’“ingegno et spirto pelegrino” che Giovanni Santi attribuiva a Signorelli e che gli consentì di filtrare attraverso il suo talento e il suo pennello le impressioni che la vista della Roma antica gli suscitava.
Un cenno, per concludere, all’agile catalogo della rassegna, edito da De Luca Editori in un inusuale formato quadrato 22x22 che di sicuro lo rende molto maneggevole (e in questo è simile ai cataloghi storici delle mostre) ma contemporaneamente penalizza un po’ la resa delle fotografie delle opere più grandi (si fa un po’ di fatica a cogliere i dettagli). I saggi che compongono il volume seguono in sostanza l’ordinamento della mostra approfondendone i temi: singolare la scelta di non pubblicare le schede delle opere (ma del tutto comprensibile, dal momento che l’ultima mostra su Signorelli risale a sette anni fa e da allora non sono state prodotte novità impattanti), intelligente l’idea d’intervallare i saggi con dei “box” di approfondimento di una o due pagine, su singoli temi, che rendono più movimentata la lettura. Ne risulta, infine, un utile strumento per approfondire lo studio di Luca Signorelli.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).