Le Signore dell'Arte a Milano: meriti e limiti della mostra sulle artiste di Cinque e Seicento


Recensione della mostra “Le Signore dell'Arte. Storie di donne tra '500 e '600”, a Milano, Palazzo Reale, dal 2 marzo al 25 luglio 2021.

Per una coincidenza fortuita, la ricca mostra Le Signore dell’arte, la rassegna con cui Palazzo Reale a Milano compone una profumatissima antologia di pittura al femminile tra Cinque e Seicento, cade a cinquant’anni esatti di distanza dalla pubblicazione d’un saggio senza il quale forse anche quest’esposizione non sarebbe mai nata: risale al 1971 la pubblicazione di Why Have There Been No Great Women Artists?, lo studio con cui Linda Nochlin dava di fatto avvio alla moderna ricerca storica sulle donne nell’arte, e che avrebbe portato, cinque anni dopo, alla mostra Women Artists: 1550-1950, la prima indagine di vasto respiro sull’argomento, capace di percorrere quattro secoli di storia attraverso l’opera d’ottantatré donne. La mostra del Los Angeles County Museum of Art aveva ottenuto almeno due risultati fondamentali: primo, sgombrava il campo da equivoci e pregiudizî sulle donne nella storia dell’arte, affermando a gran voce che, seppur offuscata e quasi nascosta, quella presenza è sempre stata viva. Secondo, apriva a una feconda stagione di studî che ha contribuito a illuminare con sostanza il reale portato della donna nella storia dell’arte, attraverso libri e numerose mostre in grado di scendere dal generale della rassegna californiana al particolare dei tanti focus monografici o su singoli periodi. Solo per restringere lo sguardo all’Italia, non si possono non citare i lavori di Consuelo Lollobrigida o di Vera Fortunati, e le tante mostre che hanno analizzato le personalità di singole artiste (tra le ultime, Giovanna Garzoni a Palazzo Pitti nel 2020, Plautilla Nelli agli Uffizi nel 2017, Artemisia Gentileschi al Museo di Roma nel 2016 e prima ancora la monografica romana del 2001) o di gruppi d’artiste (Di mano donnesca, curata da Consuelo Lollobrigida a Palazzo Venezia nel 2012, e poi L’arte delle donne dal Rinascimento al Surrealismo sempre a Palazzo Reale nel 2007, a cura di Beatrice Buscaroli, Hans Albert Peters e Vittorio Sgarbi).

Il campo d’indagine, dunque, è vasto, e i curatori della mostra milanese (Annamaria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié) hanno scelto di focalizzarsi su di un periodo preciso, quello in cui si verificarono in tutta Europa (benché lo sguardo della rassegna si concentri esclusivamente sull’Italia) rilevanti trasformazioni che avrebbero portato a una progressiva emancipazione della donna artista fino a portarla, nel corso del Seicento, a essere in grado d’intraprendere una carriera del tutto indipendente (i casi più rilevanti sono quelli di Giovanna Garzoni e Artemisia Gentileschi, coi quali la mostra milanese si chiude). Numerosi erano gli ostacoli che impedirono alle donne di diventare artiste indipendenti. Intanto, il sistema educativo in vigore fino al Cinquecento inoltrato, che per l’istruzione femminile prevedeva precetti religiosi, nozioni di lettura, scrittura e calcolo, e attività ritenute tipicamente femminili, come il cucito e la tessitura: non c’era spazio per altro. Poi, c’erano ragioni di carattere pratico: per esempio, l’impossibilità di studiare il corpo maschile dal vero, attività che alle donne all’epoca era proibita (l’unico modo che avevano per esercitarsi sull’anatomia era copiare dalla statuaria o dalle stampe). Non meno gravosi erano i doveri legati al matrimonio e alla maternità.

Sono temi che in mostra vengono appena lambiti: l’idea dichiaratamente espressa dai curatori è quella di non indugiare su questioni che pertengono più alla sociologia o all’antropologia (ma anche alla storia della critica d’arte, dato che l’immagine della donna nella letteratura artistica non viene toccata) che alla storiografia, né di assumere un taglio rigidamente scientifico e concentrato su argomenti di carattere storico-artistico, evitando di legare del tutto gli oggetti esposti ad analisi di carattere storico o sociale. I poli sono dunque la summenzionata mostra di Los Angeles del 1976 da un lato e, dall’altro, la mostra L’altra metà dell’avanguardia curata da Lea Vergine nel 1980 ancora a Palazzo Reale: l’obiettivo di Le Signore dell’arte è pertanto quello di proporre una via di mezzo, una raccolta di storie di scultrici e pittrici in cui il dato biografico venga proposto al pubblico solo se eventualmente necessario a illustrare le opere, e fornita d’una cornice (o una “griglia d’indagine”, come la definisce Gioia Mori nel catalogo) desunta dalle Vite di Giorgio Vasari. Una cornice che effettivamente aiuta un pubblico lontano dagli argomenti trattati a comprendere le tre modalità attraverso le quali, tra Cinque e Seicento, una donna poteva avere accesso al mestiere d’artista: o perché era a sua volta figlia d’un artista, o perché praticava la professione da monaca in convento, o perché godeva dello status privilegiato di nobildonna che la sollevava da certe incombenze che toccavano invece alle donne d’estrazione sociale inferiore e le permetteva di poter seguire un’educazione formale in pittura. Il pregio d’un approccio simile è quello di evitare letture arrischiate o mitizzazioni, il limite è quello di non poter fornire al pubblico elementi di storia sociale che pure sarebbero importanti per meglio inquadrare un fenomeno decisamente complesso qual è quello dell’arte al femminile tra XVI e XVII secolo, col risultato che si rischia d’uscire dalla mostra con la percezione d’aver assistito a una lunga carrellata (peraltro non esente da alcune dimenticanze: in una mostra di così largo respiro sorprende, ad esempio, l’assenza d’una Diana De Rosa) priva di un solido collante.

Sala della mostra
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Sala della mostra
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Sala della mostra
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L’inizio è comunque scintillante, con un prologo affidato alla Madonna dell’Itria di Sofonisba Anguissola (Cremona, 1532/1535 circa – Palermo, 1625): è una delle acquisizioni più recenti del catalogo della pittrice cremonese (venne riconosciuta come tale nei primi anni Duemila), è un punto di riferimento imprescindibile per la ricostruzione dell’attività siciliana dell’artista, ed è stata restaurata in occasione della mostra di Palazzo Reale. L’opera, il cui nome fa riferimento al tipo iconografico della Madonna Odigitria, narra d’una leggenda secondo cui, ai tempi dell’iconoclastia, alcuni monaci avrebbero nascosto un’immagine dell’Odigitria in una cassa affidandola alle onde del mare, facendo così in modo che l’opera giungesse in Italia. La tavola, che per la prima volta esce dalla chiesa dell’ex monastero della Santissima Annunziata di Paternò, è stata nuovamente analizzata proprio in vista dell’esposizione: gli studî hanno confermato l’attribuzione e individuato anche alcuni elementi autobiografici nella pala (per esempio, il volto della Vergine in cui è stato identificato un autoritratto di Sofonisba, e alcuni dettagli sullo sfondo che fanno riferimento alle vicende del primo marito dell’artista, il nobile siciliano Fabrizio Moncada, che peraltro, probabilmente, partecipò anche all’esecuzione del dipinto, come rivela l’atto di donazione alla chiesa di San Francesco di Paternò e come lasciano trapelare alcune porzioni piuttosto incerte), oltre ad aver sottolineato la complessità dell’impaginazione spaziale della pala, rivelatrice del talento d’un’artista colta, capace di fare “cose rarissime e bellissime di pittura”, com’ebbe modo di scrivere Vasari. Nella sala successiva, aperta dallo Stemma della famiglia grassi, raro capolavoro di Properzia de’ Rossi (Bologna, 1490 circa - 1530), prima scultrice di cui s’abbia notizia e unica donna cui Vasari dedicò una delle sue Vite, l’attività di Sofonisba Anguissola è riassunta attraverso alcuni ritratti (di straordinaria qualità quello del canonico lateranense in prestito dalla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia) che trovano il culmine nella Partita a scacchi in arrivo da Poznań, opera che palesa anche i rapporti tra la pittrice e Vasari, che nelle Vite racconta d’aver visto in casa di suo padre “un quadro fatto con molta diligenza, ritratte tre sue sorelle in atto di giocare a scacchi, e con esso loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola”.

La tela polacca ha un ruolo rilevante in mostra dacché, assieme alla Madonna dell’Itria, contribuisce ad allontanare il pregiudizio secondo cui Sofonisba Anguissola fu soprattutto una ritrattista, per quanto, tuttavia, all’epoca una pittrice non poteva che specializzarsi in certi generi tra i quali la miniatura, la semplice pittura religiosa destinata alla devozione privata, la natura morta o, appunto, il ritratto: s’è detto di come alle donne fosse preclusa la possibilità di ricevere un’educazione artistica completa, e a ciò occorrerebbe aggiungere il fatto che per una donna fosse molto più difficile viaggiare per studiare e osservare altri modelli (Sofonisba, dal canto suo, ci riuscì, dato che si spostò spesso per seguire le attività dei suoi mariti). Per queste ragioni le donne si cimentavano solo nei generi considerati minori: sono aspetti che in mostra vengono appena sfiorati. In una mostra così articolata sono anche difficili lunghi affondi sulle singole figure: non c’è modo dunque di approfondire l’ampia cultura umanistica che animò l’opera di Sofonisba Anguissola, né i suoi numerosi riferimenti stilistici. Viene però adeguatamente sottolineato il suo ruolo di mentore della sorella Lucia (Cremona, 1537/1542 circa – Cremona, 1565), anch’ella pittrice come la quinta sorella Europa (Cremona, 1548/1549 – Cremona, 1578), rappresentate in mostra da un’opera ciascuna. La sezione sulle nobildonne pittrici si conclude con la presenza di due pezzi eccezionali, il Matrimonio mistico di santa Caterina di Lucrezia Quistelli (Firenze, 1541 – Firenze?, 1594), talentuosa allieva di Alessandro Allori (l’opera riflette i modi della pittura fiorentina del secondo Cinquecento) che poté dipingere per tutta la vita avendo sposato un uomo, Clemente Pietra, ch’era convinto sostenitore d’un ruolo più attivo delle donne nella vita intellettuale della società del tempo, e il Ritratto di Faustina del Bufalo di Claudia del Bufalo (attiva a Roma tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII), unica opera nota di un’artista ancora tutta da approfondire.

Sofonisba Anguissola, Madonna dell’Itria (1578-1579; olio su tavola, 239,5 x 170 cm; Paternò, parrocchia Santa Maria dell’Alto, chiesa dell’ex monastero della Santissima Annunziata)
Sofonisba Anguissola, Madonna dell’Itria (1578-1579; olio su tavola, 239,5 x 170 cm; Paternò, parrocchia Santa Maria dell’Alto, chiesa dell’ex monastero della Santissima Annunziata)


Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi (1555; olio su tela, 70 x 94 cm; Poznań, Fundacja im. Raczyńskich przy Muzeum Narodowym w Poznaniu, MNP FR 434)
Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi (1555; olio su tela, 70 x 94 cm; Poznań, Fundacja im. Raczyńskich przy Muzeum Narodowym w Poznaniu, MNP FR 434)


Lucrezia Quistelli, Matrimonio mistico di santa Caterina (1576; olio su tela, 180 x 120 cm; Silvano Pietra, chiesa parrocchiale di Santa Maria e San Pietro)
Lucrezia Quistelli, Matrimonio mistico di santa Caterina (1576; olio su tela, 180 x 120 cm; Silvano Pietra, chiesa parrocchiale di Santa Maria e San Pietro)

La sezione sulle artiste in convento non può far a meno della prima di questa schiera, la fiorentina Plautilla Nelli (Firenze, 1524 – Firenze, 1588), presente con una Santa Caterina da Siena che fa parte d’una produzione quasi seriale, ben indagata dalla mostra che tre anni fa gli Uffizi dedicarono all’artista. Indiscussa protagonista di questa parte della mostra è tuttavia Orsola Maddalena Caccia, nata Teodora (Moncalvo, 1596 – 1676), figlia di quel Guglielmo Caccia che fu tra i più importanti pittori piemontesi del periodo: la monaca fu istruita dal padre cui fece da collaboratrice lungo tutta la carriera, spesso sostituendolo in certe commissioni. “Erede della tradizione cacciana”, scrive Antonella Chiodo in catalogo, “la sua pittura spaziò dalle pale d’altare (che la qualificano come una delle più prolifiche artiste dell’età moderna) ai quadri da camera, a una preziosa, quanto minuta, produzione di silenti nature morte”. Si spazia dunque da una giovanile Santa Cecilia che suona un organo, brillante tela che suggerisce al riguardante anche la vasta cultura musicale della famiglia Caccia, a una mirabile Natività di san Giovanni Battista ch’è al tempo stesso intima e magniloquente, fino ad arrivare agli esiti più maturi (ma forse meno sciolti) della serie delle Sibille. Di Orsola Caccia sono esposte anche due scoperte recenti, ovvero l’Allegoria mistica e la Santa Margherita d’Antiochia del santuario delle Grazie di Curtatone, rinvenute in un deposito dell’edificio sacro nel 2011 da Paolo Bertelli e Paola Artoni: la scoperta ha rafforzato le ipotesi sui legami tra Orsola Maddalena Caccia e le terre mantovane, e la mostra di Milano è occasione per conoscere meglio le due opere. Con il singolare caso di Lucrina Fetti (Roma, 1595 circa – Mantova, 1651), sorella del celebre pittore Domenico, che fu monaca dedita a un’attività per la corte mantovana (ne è testimone il Ritratto di Eleonora Gonzaga I), si chiude questa parte della mostra.

Si entra così nella sezione più corposa, quella dedicata alle figlie d’arte, alle pittrici che si formarono nelle botteghe paterne, spesso però affrancandosi dai modi del genitore. Fu così per Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614), figlia di Prospero, pittrice in grado d’ottenere fama e successo e di compiere, secondo Gioia Mori, una rivoluzione che fu al contempo professionale e privata, in quanto “orgogliosa del proprio status di donna coltivata ed erudita” al punto da esibirlo in alcuni ritratti (quello alla spinetta, per esempio, in arrivo dall’Accademia Nazionale di San Luca) e da scegliersi come compagno un uomo che le permise di lavorare: “non vive dunque all’ombra di un uomo”, scrive la curatrice, “semmai mette in ombra un uomo: un’anomalia per l’epoca, che comunque non scardina il potere giuridico del marito, firmatario e garante nei contratti per la moglie”. La rivoluzione di Lavinia è però da cercare anche nella costante evoluzione del suo linguaggio, nella vastità dei temi da lei affrontati e nella complessità, tanto simbolica quanto formale, dei dipinti che consegnò ai committenti. La sua versatilità è dimostrata, nell’esposizione di Palazzo Reale, da due dipinti che stanno tra loro agli antipodi: la grande Pala Gnetti, un tempo nella chiesa dei Servi di Bologna e poi giunta a Marsiglia dopo una serie di passaggi in collezioni private, esemplificativa del ruolo di protagonista nell’ambito della pittura controriformata ch’ebbe Lavinia, e una deliziosa Galatea che cavalca le onde della tempesta su un mostro marino, che appartiene invece a una produzione “segreta”, fatta di soggetti mitologici spesso dipinti con acuti accenti erotici, e divenuta oggetto d’indagini specifiche soltanto di recente. Nel mezzo, i ritratti, i soggetti biblici e quelli religiosi, tra cui anche un San Francesco dal Seminario Arcivescovile in cui Lavinia rivela nondimeno una spiccata sensibilità per il tema paesaggistico.

A Lavinia fa da contraltare la delicatissima pittura di Barbara Longhi (Ravenna, 1552 – Ravenna, 1638), artista che, al contrario della sua coetanea bolognese, per quanto molto promettente non riuscì a distaccarsi dai modi paterni, sebbene fosse in grado d’interpretarli in maniera più intima e dolce, come attestano i suoi lavori in mostra tra i quali l’importante Santa Caterina d’Alessandria della Pinacoteca Nazionale di Bologna, nella quale molti han voluto vedere un autoritratto della pittrice. Si prosegue nella Bologna reniana, dapprima con Ginevra Cantofoli (Bologna, 1618 – 1672), altra recente scoperta che incanta il pubblico con una Giovane in abiti orientali che le è stata ascritta per la prima volta nel 2006 da Massimo Pulini (e da allora l’opera è entrata a far parte del pur ristretto catalogo d’un’artista su cui s’ipotizza che gli studi proseguiranno a ritmo serrato) e poi con un’altra vera mostra nella mostra, un lungo corridoio dedicato a Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 – 1665), artista straordinaria che sarebbe stata capace di chissà quali altre meraviglie se una morte prematura non l’avesse colta all’età di soli ventisette anni.

“Pittrice eroina”, la definì Carlo Cesare Malvasia: e in effetti, Elisabetta aveva doti fuori dal comune che sorpresero i suoi contemporanei: si formò nella bottega del padre Giovanni Andrea Sirani, di cui Elisabetta assunse giovanissima la direzione, nel 1662, a seguito d’una malattia che colpì Giovanni Andrea impedendogli di continuare a dipingere, e contribuì alla diffusione in Emilia della maniera reniana, della quale fu interprete originale e sensibile, come dimostrano i dipinti in mostra, da quelli religiosi (la Sacra famiglia, sant’Anna, san Giovannino e un angelo del Museo Borgogna di Vercelli) a quelli storici (la Porzia che si ferisce alla Coscia, che, scrive Adelina Modesti, “raffigura una persona con una grande forza di volontà che si infligge una ferita crudele per dare prova di coraggio e determinazione e convincere il marito che anche una donna può essere stoica, spingendolo così a condividere con lei le sue scelte politiche”, e così facendo Elisabetta presenta Porzia come “un’eroina politicizzata dai tratti maschili”) fino ai soggetti mitologici come la celebre Galatea di Modena e alla Circe di collezione privata. Due dipinti estremamente significativi, perché entrambi testimoni della grande libertà d’invenzione d’una pittrice che spesso usciva dal solco delle iconografie tradizionali per avanzare interpretazioni personali (la Galatea è una delicata ragazzina che si lascia trasportare dalle onde, la Circe non è la maga che irretisce Ulisse e i suoi compagni, ma è una regina fornita d’un vasto sapere), e perché sono tra le prove più interessanti del vigore del disegno di Elisabetta. Il dialogo con Ginevra Cantofoli, che fu allieva di Elisabetta, richiama il tema della “professionalizzazione della pratica artistica femminile” (così aveva scritto Modesti nel 2001) che fu la principale conquista della pittrice emiliana: Elisabetta Sirani animò infatti una sorta di accademia privata informale, tutta al femminile, nella quale le giovani artiste venivano avviate alla pratica del mestiere. Per la prima volta nella storia si usciva dunque dal modello dell’uomo insegnante, dato che le donne, fino ad allora, avevano imparato a dipingere da una figura maschile: nella mostra, tuttavia, questa conquista non è sufficientemente sottolineata.

Orsola Maddalena Caccia, Santa Margherita d’Antiochia (1640-1650 circa; olio su tela, 95 x 73 cm; Curtatone, santuario della Beata Vergine delle Grazie)
Orsola Maddalena Caccia, Santa Margherita d’Antiochia (1640-1650 circa; olio su tela, 95 x 73 cm; Curtatone, santuario della Beata Vergine delle Grazie)


Orsola Maddalena Caccia, Sibilla persica (1640-1650 circa; olio su tela, 110 x 78,5 cm; Asti, collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Asti)
Orsola Maddalena Caccia, Sibilla persica (1640-1650 circa; olio su tela, 110 x 78,5 cm; Asti, collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Asti)


Lavinia Fontana, Galatea e amorini cavalcano onde della tempesta su un mostro marino (1590 circa; olio su rame, 48 x 36,5 cm; Collezione privata)
Lavinia Fontana, Galatea e amorini cavalcano onde della tempesta su un mostro marino (1590 circa; olio su rame, 48 x 36,5 cm; Collezione privata)


Lavinia Fontana, San Francesco riceve le stimmate (1579; olio su tela, 63 x 75 cm; Bologna, Seminario Arcivescovile, F7Z0068 - F7Z0069)
Lavinia Fontana, San Francesco riceve le stimmate (1579; olio su tela, 63 x 75 cm; Bologna, Seminario Arcivescovile, F7Z0068 - F7Z0069)


Barbara Longhi, Santa Caterina d’Alessandria (1580 circa; olio su tela, 70 x 53,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 1097)
Barbara Longhi, Santa Caterina d’Alessandria (1580 circa; olio su tela, 70 x 53,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 1097)


Ginevra Cantofoli, Giovane donna in vesti orientali (seconda metà del XVII secolo; olio su tela, 65 x 50 cm; Padova, Museo d’arte Medioevale e moderna, legato del Conte Leonardo Emo Capodilista, 186)
Ginevra Cantofoli, Giovane donna in vesti orientali (seconda metà del XVII secolo; olio su tela, 65 x 50 cm; Padova, Museo d’arte Medioevale e moderna, legato del Conte Leonardo Emo Capodilista, 186)


Elisabetta Sirani, Galatea (1664; olio su tela, 43 x 58,5 cm; Modena, Museo Civico d’Arte)
Elisabetta Sirani, Galatea (1664; olio su tela, 43 x 58,5 cm; Modena, Museo Civico d’Arte)


Elisabetta Sirani, Porzia che si ferisce alla coscia (1664; olio su tela, 101 x 138 cm; Bologna, Collezione d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, inv. M32228)
Elisabetta Sirani, Porzia che si ferisce alla coscia (1664; olio su tela, 101 x 138 cm; Bologna, Collezione d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, inv. M32228)

Un personaggio su cui gli studi dovranno continuare a far ricerche è la mitica Tintoretta, ovvero Marietta Robusti (Venezia, 1554 circa – 1590 circa), figlia del Tintoretto, della quale sappiamo pochissimo: in mostra è presente un autoritratto incerto della Galleria Borghese, su cui occorrerà fare ancora luce, e l’Autoritratto degli Uffizi assegnato alla mano di Marietta fin dal 1675, e unica opera esistente ch’è riconducibile senza dubbi alla sua mano. Nella stessa sala si toccano le figure di Chiara Varotari (Padova, 1584 – Venezia, post 1663), sorella del più celebre Padovanino, della quale sono esposti due ritratti, di Maddalena Natali (Cremona, 1654 – Cremona o Roma, documentata fino al 1675), presente con un Ritratto di prelato, e soprattutto di Fede Galizia (Milano?, 1574/1578 – Milano, dopo il 21 giugno 1630), cui quest’anno il Castello del Buonconsiglio di Trento dedica la prima mostra monografica, tanto che alcune opere presenti a Palazzo Reale hanno dovuto lasciare anzitempo l’esposizione, sostituite da riproduzioni, per spostarsi in Trentino. La mostra milanese non ha però mancato di documentare buona parte dell’attività di Fede, fino a poco tempo fa ingiustamente nota soprattutto come naturamortista: la Giuditta della Galleria Borghese è uno dei simboli della mostra, e il San Carlo del Duomo di Milano dimostra le sue abilità come pittrice d’interessanti pale d’altare.

La panoramica sulle “figlie d’arte” prosegue con un altro hapax, l’unica opera documentata di Rosalia Novelli (Palermo, 1628 – Palermo, documentata fino al 1689), figlia di Pietro che fu il principale pittore siciliano del Seicento: è una Madonna Immacolata e san Francesco Borgia proveniente dalla chiesa del Gesù di Casa Professa di Palermo, posta in proficuo dialogo con un più grande Sposalizio della Vergine di Pietro. L’opera, del 1663, fu commissionata alla giovane dai gesuiti palermitani probabilmente in virtù dei rapporti che questi ultimi avevano col padre, data la scelta, inconsueta per la Sicilia di allora, d’affidare una pala a una donna: la tela di Palermo, scrive Santina Grasso, è “quasi un collage di spunti tratti da opere paterne: dalla costruzione spaziale in diagonale di tipo lanfranchiano, molto usata da Novelli, ai caldi accordi cromatici e luministici di origine vandyckiana, al chiarore indistinto dello sfondo”. Anche la figura della Vergine è pressoché copiata da un’Immacolata del padre. Rosalia non fu però una semplice imitatrice di Pietro: le opere che le sono state attribuite sulla base di similitudini stilistiche denotano la capacità di orientarsi verso ricerche più personali, come attesta, sempre in mostra, un disegno con una Santa Prassede di recente attribuzione all’artista siciliana. Se dunque i disegni paterni appaiono più rapidi e sintetici, questo foglio denota un’elevata cura per il dettaglio e la ricerca della definizione: la firma di Rosalia che compare sul disegno è dunque da leggersi non come attestazione della proprietà di un disegno del padre (così era stata letta in passato), bensì come prova della sua esecuzione. La scarsa presenza di disegni è, peraltro, uno dei punti deboli della mostra: Elisabetta Sirani, per esempio, fu una formidabile e valentissima disegnatrice, ma questa sua dimensione in mostra non è neppure menzionata.

Se la figura di Rosalia Novelli è stata ancora poco approfondita (una sua indagine sistematica è stata avviata negli ultimi anni proprio dalla succitata Grasso), più consolidati appaiono invece i contorni di Margherita Volò (Milano, 1648 – 1710), nota anche come Margherita Caffi dal cognome del marito Ludovico. Fu artista autonoma in grado di avviare una fulgida carriera da fiorante: alcune sue nature morte da collezioni private, poste a confronto con due Vasi del padre Vincenzo Volò, sono lampanti esempi del virtuosismo di cui fu capace Margherita, che si specializzò sulle composizioni floreali: le sorelle Francesca e Giovanna, anche loro artiste, anche loro fioranti e anche loro presenti in mostra, non mancarono invece d’inserire figure nei loro dipinti.

È poi la volta delle “accademiche”, ovvero le pittrici che riuscirono a essere ammesse nelle associazioni d’artisti, tutte riunite in una sala: la prima a esser riuscita nell’impresa fu Diana Scultori (Mantova, 1547 circa – Roma, 1612), figlia d’uno scultore veronese, come lascia intendere il suo cognome. Si dedicò all’arte dell’incisione, guardando soprattutto a Giulio Romano (ad esempio, il Gesù Cristo e l’adultera, una delle sue prove migliori, deriva da un’invenzione del grande allievo di Raffaello), ebbe modo di conoscere Vasari e avviò un’attività di successo. Il successo arrise anche a Giovanna Garzoni (Ascoli Piceno, 1600 – Roma, 1670), la più nota delle artiste presenti nella sala, accademica di San Luca, distintasi in particolare per le sue magnifiche miniature, autrice di realistiche nature morte su pergamena che, scrive Tapié, “sfidano la realtà con la loro verità concettuale, superando la natura grazie alla raffinatezza del gioco illusionistico”, e rivestendo di nuovi significati la pittura botanica, sollevandola dal suo ruolo prettamente decorativo o scientifico. In mostra s’apprezza dunque il suo sguardo lenticolare, tanto sulle piante quanto sugli animali (si veda la Mela cotogna e lucertola), la sua minuziosa resa del dettaglio che giunge all’apice nella celeberrima Canina con biscotti e una tazza cinese, ma anche la sua abilità da ritrattista che s’osserva nei ritratti di Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I di Savoia dei Musei Reali di Torino, che in occasione della mostra sono stati oggetto di un’approfondita campagna di indagini diagnostiche di cui dà compiutamente conto Annamaria Bava con un saggio in catalogo. Una parte della sala è dedicata alla toccante storia di Virginia Vezzi (Velletri, 1600 – Parigi, 1638), che frequentò la bottega di Simon Vouet al punto da innamorarsene e di sposarlo: i due divennero coppia nella vita e nel lavoro, dacché strinsero un sodalizio che terminò solo con la prematura scomparsa di lei. La mostra espone un’Angelo con la tunica e i dadi che è frutto della loro collaborazione.

Marietta Robusti detta Tintoretta, Autoritratto con madrigale (1580 circa; olio su tela, 93,5 x 91,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1898)
Marietta Robusti detta Tintoretta, Autoritratto con madrigale (1580 circa; olio su tela, 93,5 x 91,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1898)


Rosalia Novelli, Madonna Immacolata e san Francesco Borgia (1663; olio su tela, 200 x 160 cm; Palermo, chiesa del Gesù di Casa Professa – Direzione centrale degli Affari dei culti e per l’amministrazione del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno)
Rosalia Novelli, Madonna Immacolata e san Francesco Borgia (1663; olio su tela, 200 x 160 cm; Palermo, chiesa del Gesù di Casa Professa – Direzione centrale degli Affari dei culti e per l’amministrazione del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno)


Margherita Volò, Vaso con fiori e ghirlanda di fiori (1685; olio su tela, 116 x 106,5 cm; Varallo, Palazzo dei Musei, Pinacoteca, inv. 3424-2014)
Margherita Volò, Vaso con fiori e ghirlanda di fiori (1685; olio su tela, 116 x 106,5 cm; Varallo, Palazzo dei Musei, Pinacoteca, inv. 3424-2014)


Giovanna Garzoni, Canina con biscotti e una tazza cinese (1648; tempera su pergamena, 275 x 395 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. Pal. 4770)
Giovanna Garzoni, Canina con biscotti e una tazza cinese (1648; tempera su pergamena, 275 x 395 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. Pal. 4770)


Giovanna Garzoni, Mela cotogna e lucertola (1650 circa; tempera su pergamena, 154 x 187 mm; Collezione privata)
Giovanna Garzoni, Mela cotogna e lucertola (1650 circa; tempera su pergamena, 154 x 187 mm; Collezione privata)


Artemisia Gentileschi, David con la testa di Golia (1630-1631; olio su tela, 203,5 x 152 cm; Collezione privata)
Artemisia Gentileschi, David con la testa di Golia (1630-1631; olio su tela, 203,5 x 152 cm; Collezione privata)


Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena (1630-1631; olio su tela, 102 x 118 cm; Beirut, Sursock Palace Collection)
Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena (1630-1631; olio su tela, 102 x 118 cm; Beirut, Sursock Palace Collection)

La chiusura è affidata alla più celebre artista in mostra, Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, dopo l’agosto del 1654), personalità tuttavia troppo complessa per poter essere esaurita efficacemente in sei dipinti (più uno del padre, la Santa Cecilia di Perugia). Sussistono però diversi elementi di sicuro interesse: il primo è la possibilità di vedere un dipinto di collezione privata, una Madonna del latte, di recente attribuzione ad Artemisia. Riscoperta nel 2015, finora era stata esposta soltanto alla mostra che costituisce per certi versi il precedente de Le Signore dell’Arte, ovvero la rassegna Les Dames du Baroque che si è tenuta nel 2018 al Museum voor Schone Kunsten di Gent, curata dallo stesso Tapié. Il secondo è la presenza del David riscoperto nel 2020 ed esposto per la prima volta al pubblico. Il terzo è forse la principale novità, la Maddalena Sursock, mostrata a Palazzo Reale dopo l’esplosione di Beirut del 2020 che l’ha duramente colpita (ed è molto interessante osservare l’opera danneggiata prima che venga sottoposta a restauro), e in occasione della mostra attribuita con convinzione ad Artemisia Gentileschi da Riccardo Lattuada, che ha firmato la scheda in catalogo.

La sezione su Artemisia costituisce dunque l’opportunità per fare il punto sulle ultime novità che riguardano la pittrice, ed è uno dei motivi per cui la mostra Le Signore dell’Arte merita una visita, se si decide di superare il pregiudizio derivante da un titolo che sembra adeguarsi alla necessità di far leva su di un pubblico ampio piuttosto che a quella di restituire la reale dimensione delle trentaquattro donne esposte, vere e talentuose artiste vissute in un’epoca di profonde trasformazioni del ruolo della donna, più che “signore dell’arte”, espressione quanto meno anacronistica. L’assenza di approfondimenti verticali su aspetti relativi alla storia sociale delle donne nell’arte tra Cinque e Seicento o all’idea che gl’intellettuali avevano sulla donna (per esempio, i precetti sull’educazione femminile di Baldassarre Castiglione, per quanto importanti, vengono solo sfiorati in catalogo) è compensata dall’ampiezza del raggio d’azione, dato che sono molte (benché non tutte) le artiste rappresentate, e alla scarsità di disegni risponde la possibilità di vedere opere spesso uniche e artiste i cui lavori documentati o noti sono oltremodo esigui. Risulta chiaro, benché il tema avesse forse meritato una trattazione più ampia, il fatto che per gli storiografi antichi lo stile fosse legato al sesso dell’autore: Baldinucci, del resto, parlava di mano donnesca, prima ancora Vasari non poté esimersi (dati gli schemi culturali del tempo) dall’associare i concetti di grazia e bellezza alla maniera delle artiste, e via dicendo. E soprattutto risulta empiricamente evidente che l’assenza d’un’educazione di stampo tradizionale consentì alle donne di sperimentare, per usare le parole di Tapié, “una libertà nella costruzione dell’immagine che ricorre con analogie sorprendenti da un’artista all’altra”.

Per tante delle artiste in mostra, si tratta inoltre di gettare le basi per indagini future: è così, per esempio, per Rosalia Novelli, per Claudia del Bufalo, o per Francesca e Giovanna Volò (per quest’ultima, lo studioso Gianluca Bocchi in catalogo annuncia un intervento di prossima pubblicazione che si focalizzerà sugli elementi distintivi che separano la produzione di Giovanna da quella di Francesca, e che proporrà la ricostruzione di un primo corpus di dipinti autografi). Infine, uno dei meriti della rassegna, specialmente se si pensa alla parte più larga del pubblico e meno avvezza agli studî sull’arte al femminile, sta nella sua capacità di contribuire ad abbattere l’idea (invero già largamente superata nel dibattito critico, ma non così diffusa presso il grande pubblico) che la presenza femminile nella storia dell’arte del Cinque e Seicento sia legata a casi isolati o appartati, e capaci di destare meraviglia: al contrario, si tratta d’una presenza certo non consistente come quella maschile, ma comunque costante, capace d’emergere e d’imporsi tra i contemporanei, ch’è diventata oggetto di studio solo in anni recenti e che pertanto avrà ancora tantissimo da raccontare.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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