L’Italia è un desiderio. Fotografie, Paesaggi e Visioni (1842-2022), allestita fino al 3 settembre alle Scuderie del Quirinale a Roma, è un incontro tra la Fondazione Alinari per la Fotografia e con il Museo di Fotografia Contemporanea – Mufoco. L’ho vista due volte, questa mostra. La prima mi ha colpito, forse non l’avevo capita, però mi era rimasta attaccata come quando conosci un nuovo amore ma ancora non sai cosa diventerà. E dunque sono tornata a vederla, con uno sguardo più consapevole, e ne sono stata travolta. Questo non vuol dire che sia una mostra difficile, o che non si possa capire al primo sguardo. Come le grandi storie, si può leggere su più piani, e si gusta con gli occhi, con il cuore, e con la testa; uno o tutti, questa scelta è lasciata al visitatore.
La mostra offre una selezione di oltre 600 opere, scattate nell’arco di 180 anni, dal 1842 al 2022, da artisti, amatori, fotografi di professione. Strutturata secondo un percorso cronologico, presenta al primo piano delle Scuderie del Quirinale le fotografie appartenenti agli Archivi Alinari, una delle maggiori raccolte italiane di documentazione fotografica che conserva opere che datano già dagli albori della fotografia. Al secondo piano, invece, sono in mostra le opere delle collezioni del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, un patrimonio fotografico di due milioni di immagini dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Il visitatore distratto, o semplicemente affascinato, non noterà soluzione di continuità, merito anche di quelle che i curatori hanno chiamato “scintille”, momenti di incontro tra le due collezioni per temi, per luoghi o per semplici assonanze visive che rimescolano l’ordine cronologico e suggeriscono degli spunti di riflessione.
Ma prima di tutto è lo sguardo ad essere colpito. Le immagini riempiono gli occhi, si susseguono con un ritmo che sembra una partitura musicale: grandi, ma anche piccole, singole o a gruppi, in bianco e nero, o seppiate dal tempo, ma anche a colori. Sono spesso rappresentazioni riconoscibili, perché sono già viste o più semplicemente perché sono parte di quella storia fotografica che un passo alla volta ha contribuito a costruire l’immaginario collettivo del nostro Paese. A fianco a queste ci sono dei punti di vista inediti, colti dal prezioso lavoro che hanno fatto sugli archivi i curatori della mostra Matteo Balduzzi e Rita Scaroni, con il coordinamento generale di Claudia Baroncini e Gabriella Guerci. Quasi non serve leggere le didascalie, che ho immaginato fossero volutamente piccole proprio a questo scopo: basta farsi travolgere dalla successione di immagini per vivere un’esperienza appagante. Dopo la prima impressione ne emerge una seconda, più forte, che colpisce al cuore: la consapevolezza che tutta questa sovrapposizione di impulsi visivi nasconde un’unica meravigliosa storia, quella della costruzione del nostro èaese, della sua identità, della sua cultura. La chiave, lo dichiara il titolo, è il paesaggio. Ma cos’è il paesaggio?
Nella prima parte la natura, gli spazi aperti, gli scorci sul mare sono protagonisti del paesaggio. Lo sguardo dei fotografi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, le cui opere sono conservate negli Archivi Alinari, è sulle grandi panoramiche di Roma e Firenze, ma anche i luoghi del mito del viaggio in Italia. Fu proprio grazie a queste immagini, che volevano raccontare al monto le mete italiane più desiderate, che poco alla volta si è formata quell’idea di Bel Paese che abbiamo esportato nel mondo. Attraverso quelle stesse immagini si è creata la conoscenza e la condivisione di un territorio che da poco era unito sotto un unico Stato, e che ha sempre valorizzato l’essere profondamente ancorato nella provincia, nelle diverse province che lo compongono, dando al territorio e al paesaggio il posto più alto nella definizione dell’identità culturale. “La vera ricchezza”, dice Davide Rondoni, presidente di Mufoco, “è il belvedere. Non è quello che hai in tasca, ma quel che tieni nello sguardo. Lo sanno i poeti, strani esseri che girano con gli occhi aperti, e traducono la lingua sottile e varia del paesaggio. E lo sanno i fotografi. Traducono, sì, quella lingua muta, sintesi di natura, storia e cultura, in linguaggio umano, di parole o immagini. Ogni luogo parla, diventa un coautore della poesia. O della fotografia. Avremmo Montale senza lo scabro delle coste liguri? Pavese senza le colline delle Langhe? Bertolucci senza le alture di Parma, Pasolini senza i paesaggi friulani e poi romani, Mario Luzi senza le terre fiorentine e senesi?”.
Nel tempo il paesaggio naturalistico si apre alla presenza umana, alle tradizioni, al folklore, alla documentazione degli eventi che per vie diverse hanno orientato l’evoluzione del nostro paesaggio: il terremoto di Messina del 1908 (Il Duomo distrutto dal terremoto calabro-siculo - Messina 1908 di Wilhelm von Gloeden), così come la crescita delle periferie (Via Teulié - Milano 1939/1940 di Alberto Lattuada).
Dal dopoguerra il paesaggio diventa sociale e politico. La sala che segna l’inizio della Collezione Mufoco rappresenta anche un cambio di prospettiva: l’umanità intercetta l’obiettivo e riempie l’immagine. Sono gli anni del reportage, e qui sono magistralmente accostate, come fossero una unità narrativa, le foto sulla mafia di Letizia Battaglia e quelle sulle lotte politiche di Uliano Lucas, ma anche il pacato racconto delle periferie di Gianni Berengo Gardin. Con un passo si arriva alle sperimentazioni concettuali degli anni Settanta di Mario Cresci di Franco Fontana fino alla serie Presa di coscienza sulla natura realizzata tra il 1976 e il 1989 da Mario Giacomelli che, come nessun altro, ha trasformato il paesaggio in un linguaggio unico e irripetibile.
A questo punto il percorso narrativo si concentra sul progetto del Viaggio in Italia di Luigi Ghirri che nel 1984 raccolse insieme una serie di ricerche visive che si erano sviluppate in diversi luoghi del paese. Fu una sorta di precursore della mostra di oggi alle Scuderie: una riflessione sul paesaggio realizzata nel momento di massima sperimentazione del linguaggio fotografico che riunì opere di venti fotografi, tra cui Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Mimmo Jodice, Claude Nori. A grandi passi lungo l’esposizione si arriva al nuovo millennio, con stampe spettacolari di grandi dimensioni che raccontano i nuovi paesaggi, quelli delle metropoli, che sono poi la trasformazione di quelle stesse città raccontate negli anni dell’emigrazione o più indietro nell’epoca in cui la natura era protagonista. La periferia è ormai in costruzione, come nella serie Attraverso la pianura di Giovanni Chiaramonte del 1987, o costruita e spettacolarizzata come in Milano di Luca Campigotto del 2014 o in site specific_Milano 09 di Olivo Barbieri del 2009.
Del resto a questo punto ogni immagine porta con sé tutto il passato che la mostra ci ha raccontato, e le opere iniziano a restituire la storia che hanno assorbito. I faraglioni di Capri sono protagonisti delle sperimentazioni di Francesco Jodice in Capri, The Diefenbach Chronicles del 2013, ma anche di una immagine dei Fratelli Alinari ante 1915 – la stessa utilizzata nella comunicazione pubblica della mostra – che nel suo essere esposta in negativo diventa una sorta sperimentazione contemporanea. E a guardare bene di faraglioni è punteggiata tutta la mostra, quasi come fossero delle molliche di Pollicino lasciate per il visitatore.
“Il desiderio dell’Italia o l’Italia come desiderio”, dicono i curatori, “intende rilevare la tensione continua tra un passato straordinario, che ha visto nel paesaggio italiano un’eccezionale coincidenza tra natura e cultura – in cui ancora sentiamo di riconoscere le nostre radici – e una storia più recente, segnata da strappi, accelerazioni selvagge, interventi aggressivi, dettati dallo sviluppo economico e dalla globalizzazione, che rendono complesso il paesaggio e ci sollecitano a definire una nuova identità culturale italiana”.
C’è poi una terza lettura della mostra, che associo ad una consapevolezza di testa: che sia un racconto – inorganico ma anche ricchissimo - sull’evoluzione del linguaggio fotografico. In tutta la sua storia la fotografia non ha smesso di essere sperimentale. Se nei primi anni la ricerca era concentrata sulla tecnica, poi si è spostata sul linguaggio, ma in ogni caso l’arte fotografica non ha mai smesso di evolvere. E in questa mostra possiamo trovare tutte le tracce di questa storia. Nei primi anni i fotografi non sono ancora artisti, ma scienziati, come Giorgio Roster che già dal 1872 propone delle “Diapositive su lastra di vetro colorata a mano”. Sono immagini che sorprendono per la contemporaneità dello sguardo, del taglio 1:1 a cui Instagram ci ha ormai abituato, e per l’accostamento di colori che sembra ardito in un’epoca che conosciamo in bianco e nero.
Chi è appassionato della tecnica fotografica in questa mostra troverà una grande varietà di esempi: dagherrotipi, primordiali negativi su carta e su vetro, diapositive, lastre, autocromie, stampe vintage e stampe fine art da negativo originale, fino alle stampe a colori in grande formato e alle modalità più contemporanee di presentazione delle immagini. Ci sono anche album incredibili come Italy di James Graham con 131 foto realizzate tra il 1858 e il 1862 e stampate all’albumina riunite poi in un unico album. Oggi lo chiameremmo fotolibro.
Se negli ultimi decenni l’evoluzione tecnologica ha esteso all’infinito le potenzialità del mezzo fotografico, e la ricerca si è spostata sul linguaggio, ci sono delle opere linguisticamente contemporanee anche tra le più antiche. Così delle belle immagini diventa incredibile se si legge l’anno sulla didascalia. Vi invito a cercare la serie di Vittorio Alinari dedicata alla Sardegna realizzata nel 1914, che rivela uno sguardo fotografico non diverso da quello di oggi, con tagli di immagine e punti di vista del tutto contemporanei.
Mi piace pensare che l’ultima immagine della mostra sia il paesaggio incorniciato tra le splendide vetrate delle Scuderie del Quirinale: un tramonto che lambisce i tetti di Roma, fino a San Pietro. Un paesaggio che tutti i visitatori fotografano e che finirà sui loro cellulari o sulle pagine social estendendo all’infinito i confini di questo racconto sul paesaggio.