A Pisa è conservata l’unica opera pubblica in Italia di Keith Haring (Reading, 1958 - New York, 1990) ideata per rimanere permanente, nonché ultima della sua carriera: Tuttomondo, il murale che lo statunitense considerato tra gli artisti a cui si deve la nascita della street art realizzò nel 1989 su una delle pareti del convento annesso alla chiesa di Sant’Antonio Abate. Alla pura casualità è dovuta la presenza nella città toscana della grande opera caratterizzata dalle iconiche figure colorate e aggrovigliate dell’artista: due anni prima Keith Haring conobbe uno studente pisano, Piergiorgio Castellani, a New York e i due diventarono amici; quando lo statunitense andò a trovare l’amico a Pisa nacque a entrambi l’idea di realizzare un’opera che rimanesse per sempre visibile proprio nella città toscana. Il progetto, unico in Italia, attirò molti cittadini di ogni età e ne risultò il grande murale di 180 metri quadrati che tuttora tutti possono ammirare. Quale città più adatta di Pisa quindi per ospitare una grande retrospettiva dedicata alla breve ma importante carriera di Keith Haring? Fino al 17 aprile 2022 infatti Palazzo Blu presenta nelle sue sale espositive la mostra dal sintetico titolo Keith Haring, che riecheggia però nelle orecchie e nelle menti del grande pubblico, attirando certamente molti visitatori per l’importanza del grande nome, tra i principali artisti e writer della seconda metà del Novecento. Curata da Kaoru Yanase, Chief Curator della Nakamura Keith Haring Collection, e realizzata dalla Fondazione Pisa in collaborazione con MondoMostre, la rassegna gode della straordinaria partecipazione della Nakamura Keith Haring Collection, la collezione personale che l’imprenditore Kazuo Nakamura, appassionato di Haring, cominciò a riunire dal 1987 e che si trova nel museo dedicato all’artista in Giappone. In occasione della mostra pisana sono state quindi riunite, per la prima volta in Europa, oltre centosettanta opere della significativa collezione.
Se intento della mostra è unicamente ripercorrere nelle sue tappe principali la breve vita di Keith Haring, scomparso nel 1990 alla giovane età di trentuno anni al Greenwich Village per complicazioni legate all’AIDS, la retrospettiva dà al visitatore una panoramica completa dell’attività artistica del famoso writer, dai suoi esordi alla sua ultima serie di disegni (The Blueprint Drawings) che realizzò un mese prima di morire. Attraverso le nove sezioni di cui si compone la mostra, il pubblico ha infatti un’infarinatura, en passant e senza particolari approfondimenti, dei temi e delle diverse tecniche espressive da lui utilizzate nel corso della sua produzione, dalla pittura al disegno, dall’arte pubblica e commerciale ai murales e alla scultura.
Le opere in mostra sono per la maggior parte litografie e serigrafie su carta, ad eccezione di pochi casi, se non si contano le sculture in alluminio dipinto: Untitled (People), grande acrilico su mussola del 1985 sul quale si aggrovigliano tra colori squillanti gli omini dai contorni marcati di Keith Haring; Untitled (Medusa), la più grande stampa dell’artista realizzata nel 1986 che raffigura la creatura mitologica dalla testa piena di serpenti che Haring reinterpreta con sette colli lunghi aggrovigliati e alle cui estremità sono attaccati i corpi; Untitled del 1986, acrilico su tela che rimanda al primitivismo di Picasso e all’arte africana, con cui l’artista condivide l’idea di dare forma al potere della paura, proprio come le sculture delle tribù africane che assumono un ruolo di talismani protettivi contro i poteri invisibili che circondano gli uomini, e Secret pastures del 1984, anch’esso acrilico su tela.
Tuttavia, la retrospettiva ha soprattutto dalla sua il fatto di aver portato a Pisa opere meno conosciute e diffuse, che vanno oltre gli iconici simboli creati dallo stesso Haring e che oggi possono essere visti come i predecessori degli emoji, come le faccine sorridenti, il bambino radiante, l’angelo, il cane che abbaia, le figure danzanti, la faccia con tre occhi, attraverso cui affronta temi importanti quali la vita, l’amore, la morte. La più “iconica” tra le sale della mostra è quella che riunisce la serie Icons, pubblicata nel 1990, che comprende i suoi personaggi più tipici: il bambino radiante rappresenta l’innocenza, la purezza, alter ego di Haring stesso; il cane che abbaia indica spesso sospetto e se raffigurato in posizione eretta può rappresentare il governo autoritario, l’abuso di potere, il regime oppressivo; l’angelo rimanda alla presenza di creature spirituali o guardiani degli esseri umani ma anche alla complessità della vita, al potere e al caos, e se ha una X sul petto può essere simbolo sacro o può alludere all’accoppiamento; infine il volto con tre occhi è spesso associato all’avidità e all’eccesso. Nella stessa sala, il già citato Untitled (People), la serie Retrospect del 1989 formata da ventiquattro immagini tratte dalle serie Pop Shop di Keith Haring, di cui ciascuna può essere vista come un momento preciso della sua vita, sempre in movimento, e la serie Andy Mouse (1986), sintesi tra Mickey Mouse, personaggio di Walt Disney da sempre amato da Haring, e Andy Warhol, suo amico e tra i principali esponenti della pop art, in cui Andy Mouse con le banconote da un dollaro diventano rappresentazione ironica della società capitalista e in definitiva dell’America.
Al di là di queste sue icone, dicevamo, la mostra presenta al pubblico serie meno note, come The Story of Red and Blue, realizzata appositamente per i bambini nel 1989: Haring dipinge forme rosse e blu attorno alle quali costruisce poi con linee nere figure e oggetti di ogni tipo, come ad esempio animali, ritratti di persone, automobili, giocattoli per neonati e via dicendo. Ciascuna immagine dà occasione all’osservatore di inventare la propria storia, o ancora meglio utilizzandole tutte; non a caso infatti molte scuole e musei negli Stati Uniti hanno introdotto questa particolare serie nei loro programmi didattici. Per tutta la sua esistenza Keith Haring ha lavorato con bambini di ogni età e provenienza, ha pubblicato per loro vari libri e ha dato vita a vari progetti che li ha coinvolti. È il bambino radiante e che gattona senza mai fermarsi uno dei suoi simboli universali: sprigiona raggi di potere, possiede un’energia infinita, sfida ogni pericolo; è un puro messaggio di gioia.
È presente poi Apocalypse, che Keith Haring compì in collaborazione con William S. Boroughs, importante esponente della Beat Generation, movimento sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta del Novecento contro il capitalismo e il potere e che si basava sulla libertà di espressione in tutti i campi letterari e artistici. Si tratta di dieci brani in prosa composti da Boroughs sul tema del caos che distrugge il mondo; Haring interpreta attraverso illustrazioni i testi dello scrittore: ciascuna immagine è un collage in cui si combinano pubblicità, riferimenti a celebri opere d’arte (tra cui la Gioconda) e riferimenti alla teologia cattolica. La serie viene creata dopo che l’artista scopre di essere positivo all’HIV, dopo che gli viene diagnosticato l’AIDS, e ci convive. Da questo momento diventano molto più frequenti temi come la paura o messaggi politici legati all’AIDS e alla droga, e Apocalypse offre al pubblico proprio una prima dimostrazione dell’inferno personale che sta provando. E infine, interessanti sono i diciassette disegni con cui si chiude la retrospettiva (e anche la sua attività artistica, dato che l’artista li realizzò appena un mese prima di morire). Sono immagini che riassumono, talvolta con strisce a fumetti, i simboli e figure sue più tipiche combinati in scene surreali: cani, bambini che gattonano, serpenti, piramidi, dischi volanti, extraterrestri, attraverso cui vengono affrontati i lati oscuri della società e dove l’organo sessuale maschile diventa spesso protagonista. Tre serie che sono ai più sconosciute e che la rassegna pisana dà l’opportunità di conoscere.
I temi della sua arte si succedono sala dopo sala, in un allestimento che diventa a volte evocativo e immersivo, come la prima sala espositiva che catapulta il visitatore nel tunnel di una metropolitana newyorchese, tra luci al neon e graffiti realizzati con gesso bianco sullo strato di carta nera che copre i pannelli pubblicitari inutilizzati: è questo infatti il contesto in cui compaiono per la prima volta i disegni di Keith Haring negli anni Ottanta. Opere che diventano parte della serie Untitled (Subway Drawing). Sua intenzione è creare un’arte che sia accessibile a tutti, in spazi pubblici frequentati e facilmente raggiungibili. “La mia speranza è che un giorno, i ragazzini che passano il loro tempo per strada si abituino a essere circondati dall’arte e che possano sentirsi a loro agio se vanno in un museo”, diceva. Non voleva definire l’arte che creava, perché significava “distruggerne lo scopo”; “L’arte non ha significato perché ne ha molti, ha infiniti significati”. Esprime concetti universali come la nascita, la morte, l’amore, il sesso, la guerra attraverso il suo mondo fatto di bambini radianti, animali e figure senza volto perché universali.
Negli anni Ottanta la luce nera è quella abituale all’interno dei club: comincia quindi a usare colori fluorescenti che brillano e che sembrano uscire dalle superfici; è interessato a vedere quali effetti psichedelici si possono creare dalle sue immagini. Sono figure che danzano, dischi volanti che colpiscono piramidi, corpi che rimandano alla fertilità con figure incinte.
Fotografie e poster raccontano l’avventura pisana della creazione di Tuttomondo, inaugurato a giugno 1989. Alcuni lavori poi si ispirano all’arte azteca, africana e afroamericana, con piramidi, totem, maschere, body painting, per rappresentare poteri misteriosi e simboli mitologici. Un’intera sezione è poi dedicata alla musica: le immagini dei suoi poster che trattano temi importanti come la prevenzione dell’AIDS, i diritti dei gay, l’apartheid, il razzismo, la guerra, la violenza e molti altri vengono spesso usate per pubblicizzare eventi musicali e concerti. Collabora anche con musicisti e cantanti per realizzare le cover degli album musicali: ne è un esempio la cover per Without you di David Bowie che rappresenta due figure unite in un abbraccio.
Il pubblico ha modo dunque di ripercorrere nelle sue tappe fondamentali e nei suoi temi più significativi la vita e l’arte dell’artista statunitense che partendo dalle stazioni della metropolitana di New York ha raggiunto fama mondiale, dando vita all’arte urbana e alla street art. Un’arte universale, comprensibile e accessibile a tutti. Poco utile è invece il catalogo che accompagna la mostra, che ripropone il percorso di visita ma con tagli (come la serie Apocalypse che è stata drasticamente sintetizzata) e senza l’aggiunta di testi o saggi di approfondimento, ad eccezione di un contributo del curatore. Mostra dunque promossa, ma con qualche riserva.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.