Si potrebbe avvertire una sorta di sgradevole imbarazzo a sapere che sono occorsi quasi quattrocento anni perché la Chiesa cancellasse un culto che, nei secoli, ha alimentato il pregiudizio antisemita, con l’aggravante d’aver sfruttato il corpo d’un incolpevole bambino morto, non si sa come, nella Pasqua del 1475. Quasi quattrocento anni dalla data della beatificazione del povero Simonino da Trento, ma quattrocentonovanta se si considera che, fin dal ritrovamento del suo corpo, il piccolo fu considerato martire d’una presunta e mai provata barbarie ebraica, ed eletto santo a furor di popolo, benché non sia mai stato canonizzato dalla Chiesa cattolica, malgrado le insistenze di molti: Simone Lomferdorm, figlio d’un conciapelli di Trento, rinvenuto privo di vita in una roggia della città, fu da subito al centro d’una forte e morbosa venerazione popolare, divenne beato nel 1588 e tale rimase fino al 1965, quando le ricerche storiche avviate in quel torno d’anni accertarono che quel culto era fondato sul niente, e la Santa Sede decise pertanto di sopprimerlo.
Per la prima volta, questa fosca vicenda è protagonista d’una mostra, intitolata L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia, allestita nelle sale del Museo Diocesano Tridentino e curata dalla direttrice dell’istituto, Domenica Primerano, con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru e Valentina Perini: un percorso che ricostruisce la storia di Simonino, il grottesco e tremendo processo che si concluse con le condanne a morte di moltissimi innocenti, l’avviamento della poderosa macchina della propaganda messa in moto per diffondere il culto ed esacerbare gli animi contro gli ebrei, la fortuna di Simonino nella religiosità popolare attraverso i secoli, e l’abrogazione del culto che ha chiuso la plurisecolare vicenda. Oggi, possiamo bollare quest’ultima come un clamoroso falso che ha portato masse di fedeli ad adorare quello che Domenica Primerano chiama “un santo abusivo”, malgré lui. Un percorso che unisce una rigorosa ricostruzione storica a un’accurata selezione d’opere d’arte, avvalendosi peraltro, in modo coinvolgente, di mezzi tecnologici che consentono al pubblico di calarsi nella realtà della Trento del Quattrocento.
La sequenza degli eventi ha inizio la sera del 23 marzo del 1475, giovedì santo, quando Simonino non rientra a casa e i genitori denunciano la sua scomparsa alle autorità: trascorrono due giorni d’attesa, finché il 26, giorno della Pasqua, il principale esponente della comunità ebraica di Trento, Samuele da Norimberga, di professione prestatore, si presenta dal podestà Giovanni de Salis per segnalare l’avvenuta scoperta del corpo esanime dell’infante. Già nei giorni precedenti s’era però diffusa la voce che a rapire il bambino fossero stati gli ebrei: un’antica leggenda, le cui prime attestazioni certe risalgono al XII secolo, attribuiva agli ebrei l’usanza di sacrificare, il giorno della Pasqua, bambini cristiani sottratti con la forza ai genitori con lo scopo di rievocare la crocifissione di Cristo e di adoperare il sangue della vittima per scopi rituali e curativi. È il cosiddetto omicidio rituale ebraico, un costume che, tuttavia, non è mai stato storicamente acclarato, e ch’è sempre stato bollato dalla storiografia più accorta come un’autentica invenzione antisemita, un mito folkloristico priva di qualsiasi consistenza, una maldicenza calunniosa non sostenuta da alcun riscontro nella realtà.
Le autorità trentine del Quattrocento si dimostrano però propense a dar ascolto alla vox populi, tanto che Samuele da Norimberga viene tratto in arresto, e assieme a lui finiscono sotto processo diversi esponenti della piccola comunità ebraica di Trento. Il procedimento giudiziario ricorre ampiamente alla pratica della tortura, anche al di là del dovuto e oltre le quantità che le prassi del tempo prescrivono (tanto che la moglie di Samuele, Brunetta, con tutta probabilità morirà in carcere a causa dei tormenti). Gli ebrei processati arrivano così a confessare colpe che non hanno, giungendo ad ammettere azioni che normalmente sarebbero state illogiche: ad esempio, l’occultamento del cadavere nella stessa casa di Samuele che avrebbe poi denunciato il rinvenimento del corpo (e si consideri che gli ebrei, all’epoca, vivevano a contatto coi cristiani e non avrebbero avuto la possibilità di compiere un delitto di nascosto), oppure l’ammissione secondo cui il sangue di Simonino, ovvero di un bambino cristiano, sarebbe servito per la salvezza dell’anima degli ebrei (un controsenso dacché, rilevava lo storico Giovanni Miccoli in un suo articolo del 2007, “si sarebbe venuti a riconoscere a quella passione un valore salvifico, e dunque, implicitamente, ad affermare anche la verità di un punto fondamentale del credo cristiano”). L’ipotesi accusatoria costruita sul pregiudizio della cosiddetta accusa del sangue conduce dunque a confessioni non veritiere, e l’iter si conclude con le prime condanne a morte, comminate tra il 21 e il 23 di giugno: bruceranno sul rogo Simone da Norimberga, Angelo da Verona, Tobia da Magdeburgo, Vitale di Samuele, Mohar di Würzburg, mentre per Bonaventura di Samuele e Bonaventura di Mohar, convertitisi in extremis al cristianesimo, la pena viene commutata nella decapitazione. A novembre cominciano invece i processi contro le donne della comunità, che si protraggono fino al 1476 e si concludono con le confessioni delle quattro imputate, Anna, Bella, Sara e Bona. Le prime tre sono costrette alla conversione e alla promessa di permanere nella fede cristiana (pena la morte per apostasia), mentre dell’ultima non si hanno notizie.
Sala della mostra L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia |
Sala della mostra L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia |
Sin qui, il nudo racconto della cronaca giudiziaria e d’un procedimento interamente fondato sui più biechi stereotipi contro gli ebrei, alimentati dall’insormontabile differenza dottrinaria tra ebrei e cristiani e inaspriti da certe letture del Nuovo Testamento che, scrive Laura Dal Prà in catalogo, assicurano “stimoli per radicalizzare l’opposizione tra le due fedi, con l’esito di trasferire interpretazioni di tale tenore negli apparati illustrativi dei Vangeli”: una fiammata che è “avvertibile sia nei tratti fisionomici degli ebrei coinvolti nel racconto evangelico, sia nell’inserimento di specifici dettagli iconografici”. Ed è proprio da queste constatazioni che comincia anche il percorso della mostra. Un viaggio nel pregiudizio che parte dal topos dell’ebreo assassino di Cristo, in grado d’emergere con nitida evidenza osservando l’Ecce Homo del tedesco Mair von Landshut (documentato dal 1485 circa al 1510), in prestito dalle collezioni provinciali del Castello del Buonconsiglio di Trento: i toni caricaturali con cui l’autore ha raffigurato gli ebrei (i nasi adunchi, le espressioni grifagne, la gestualità rozza e sguaiata) hanno lo scopo di render manifesta la loro responsabilità nell’uccisione di Cristo, mentre altri dettagli (il cane che spesso accompagna le raffigurazioni degli ebrei, oppure l’abbigliamento: si noti il berretto a punta del personaggio al centro, con un cartiglio appeso, che richiama i tefellin, ovvero dei piccoli astucci che contengono le parole della Torah e che gli ebrei di più stretta osservanza portano sul capo durante la preghiera del mattino) servono per definire in maniera inequivocabile l’appartenenza religiosa di coloro che erano considerati gli uccisori di Gesù.
La figura di Gesù non è tuttavia l’unica attorno alla quale sono sorti preconcetti antisemiti, e la rassegna trentina intende dimostrarlo ponendo al centro della sala un fine reliquiario istoriato di produzione renana, del XII secolo, sulla cui superficie compare una raffigurazione della Punizione degli ebrei sacrileghi: leggenda vuole che alcuni ebrei che tentarono di rovesciare il cataletto della Vergine durante la sua ascesa al cielo a seguito della dormitio non riuscirono più a staccare le mani, perdendole (furono recuperate solo dagli ebrei avveduti che si convertirono immediatamente: il reliquiario illustra questo momento). Particolarmente forte è poi una stampa d’ambito tedesco raffigurante una delle più violente iconografie antiebraiche, la Judensau (“scrofa giudea”), molto diffusa in area germanica (l’archetipo è un perduto affresco di fine Quattrocento che si trovava sulla Brückerturm di Francoforte): il motivo prevede la raffigurazione d’una scrofa che allatta alcuni ebrei, e ne nutre altri con le proprie deiezioni. La curatrice Lorenza Liandru, richiamando gli studî dello storico Isaiah Shachar, fa risalire le origini di quest’iconografia a motivi allegorici che alludevano ai vizî della gola e della lussuria, poi riletti in chiave antiebraica sulla base delle connessioni e delle similitudini tra ebrei e maiali presenti nella letteratura medievale. Un’immagine di notevole pericolosità, che si trova peraltro spesso legata all’accusa di omicidio rituale in contesti figurativi dove tali motivi vengono appaiati.
Mair von Landshut, Ecce homo (1502; Trento, Castello del Buonconsiglio) |
Orafo renano, Reliquiario a cofanetto (terzo quarto del XII secolo; rame dorato e smaltato, ferro battuto, 32 x 44 x 15,5 cm; Trento, Museo Diocesano Tridentino, inv. 21) |
Ambito tedesco, Judensau (inizi del XVII secolo; Trento, Università degli Studi) |
Questo era, in sostanza, il clima in cui viveva un ebreo del Quattrocento, queste le fantasie che poterono oliare bene gl’ingranaggi della macchina della propaganda che subito si mosse contro gli ebrei durante e dopo le fasi più acute del processo per la vicenda di Simonino: proprio la prima opera legata al caso è esemplare non solo in quanto fissa un’iconografia che avrebbe conosciuto poche varianti nei secoli, ma anche perché ben illustra il ruolo della stampa nel sostenere la condanna contro gli ebrei e nel promuovere il culto di Simonino, secondo un programma ben orchestrato dal “regista” di tutta l’operazione, il principe vescovo Johannes Hinderbach (Rauschenberg, 1418 - Trento, 1486), che in tutta la vicenda ebbe un ruolo preponderante. Colto, carismatico, intelligente (fu tra i primi a intuire le potenzialità politiche della stampa), abile manovratore, Hinderbach avviò un’azione che la studiosa Daniela Rando definisce “sistematica e ‘scientifica’”, e la prima opera su Simonino che s’incontra nell’iter espositivo, la Historie von Simon zu Trient di Albrecht Kunne (Duderstadt, 1435 circa - ?, post 1520), presente con una riproduzione dei quattordici fogli che la compongono (l’incunabolo originale si trova alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera) e che raccontano tutta la storia di Simonino, fornisce un interessante esempio dell’abilità di Hinderbach nel porre la stampa a servizio della sua causa. La Historie di Kunne fu stampata a Trento il 6 settembre del 1475, è una semplice narrazione della successione degli eventi (il rapimento, l’omicidio rituale, l’occultamento del cadavere, il rinvenimento, le atroci condanne degli ebrei) ed era parte della strategia di diffusione elaborata da Hinderbach, che aveva pensato a contenuti variamente indirizzati: un trattato De Simone puero tridentino, elaborato da Giovanni Mattia Tiberino e destinato al pubblico colto, il libello di Kunne che invece era rivolto a un pubblico più vasto, e i testi di argomento giuridico che avevano lo scopo di sostenere la causa della canonizzazione di Simonino presso gli ambienti pontifici.
L’azione di Hinderbach si dipanò anche sul piano politico: in questo senso, la tattica era quella di ostacolare l’operato del commissario pontificio, il domenicano Giovanni Battista de’ Giudici, vescovo di Ventimiglia, inviato da Roma per indagare sul corretto svolgimento del processo. Hinderbach lo accolse con tutti gli onori, ma ben presto Giudici si accorse che tutta la città era contro di lui, e fu costretto a registrare, nelle relazioni, calunnie nei suoi confronti, a lavorare in un clima di sospetto (lo stesso che, peraltro, lui coltivava nei confronti di Hinderbach, avendone intuito il ruolo nella vicenda: era convinto che i testimoni del processo fossero condizionati dalla sua posizione), a lottare contro il principe vescovo che continuava a scrivere a Roma fornendo numerose giustificazioni per sottolineare la regolarità del processo, e che seguitava a sottoporre Giudici a un rigido controllo, tanto che il vescovo di Ventimiglia dovette trasferirsi a Rovereto, all’epoca sotto la giurisdizione di Venezia, per lavorare più tranquillo. Il 20 giugno del 1478 una bolla pontificia, Facit nos pietas, dichiarava regolare il processo e apponeva dunque la parola “fine” al caso.
Non sappiamo con certezza quali furono i motivi di tanto impegno da parte del principe vescovo. Si è ipotizzato che Hinderbach mirasse ai beni degli ebrei (che furono effettivamente confiscati), ma i retroscena sono molto più complessi: “le ragioni che spinsero Hinderbach a convincersi della colpevolezza della comunità ebraica trentina e della santità del piccolo Simone”, scrive lo studioso Matteo Fadini, “sono probabilmente insondabili e sicuramente vi si intrecciano diversi fattori (culturali, politici, religiosi)”. Fattori esplicitati in certo modo da Daniela Rando, che parla di Hinderbach come di un “vescovo preoccupato per la sorte individuale, incline a leggere nei proprî tempi calamitosi i segni della fine del mondo e dell’arrivo dell’Anticristo”, ma anche come di un uomo affascinato dal modello del "prelato patrono delle arti, che nel mecenatismo e nella celebrazione del ‘suo’ santo intravedeva la possibilità di celebrare i ‘suoi’ tempi e il ‘suo’ episcopato”. Per questa ragione dobbiamo immaginarci un Hinderbach molto attivo nel cercare di ottenere la canonizzazione per Simonino: il principe vescovo non riuscì però nel suo intento, e Simonino fu beatificato solo nel 1588. La sezione successiva della mostra dà conto della fortuna del culto, soprattutto nel Novecento, e della sua fine: sono esposti oggetti liturgici connessi alle celebrazioni del beato (il suo reliquiario, le immagini delle processioni dove la partecipazione dei bambini era altissima: non di rado, in queste occasioni a Trento i bambini erano vestiti come Simonino), i documenti dell’Italia delle leggi razziali nella quale si torna a parlare del presunto martirio del piccolo di Trento, e infine gli articoli che accompagnarono, negli anni Sessanta, il lavoro di Iginio Rogger, Willehad Eckert e Gemma Volli, le cui ricerche svelarono l’insussistenza di un culto basato sugli esiti di un processo farsa, condizionato dai pregiudizi, capace di estorcere confessioni mediante l’uso scriteriato della tortura e di destare molti dubbî anche tra i contemporanei. Decisiva fu la perizia di Eckert, basata sui documenti del processo: fu inviata a Roma, alla Congregazione dei Riti, e finalmente, nel maggio del 1965, il culto fu abolito.
Albrecht Kunne, Historie von Simon zu Trient (Geschichte des zu Trient ermordeten Christenkindes) (Trento, 6 settembre 1475; incunabolo; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, 2 Inc s. a. 62) |
Giuseppe Brunner, Urna di Simonino da Trento e bambini vestiti da angioletti (1904; Trento, Archivio della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo) |
Gli articoli degli anni Sessanta che seguirono l’abolizione del culto di Simonino da Trento |
Proprio il culto è protagonista della seconda sezione della rassegna, allestita al piano superiore, introdotta da una pala attribuita all’austriaco Michael Tanner ed eseguita su commissione di Hinderbach, probabilmente per decorarne il monumento funebre (il vescovo vi compare in abisso, sotto alle figure dei santi Pietro e Paolo). La sezione è centrata sulle forme dell’iconografia di Simonino lungo i secoli: la diffusione delle immagini fu un altro dei cardini della propaganda di Hinderbach, malgrado il papa Sisto IV, già nel 1475, avesse inviato un breve a tutti i principi italiani per proibire che circolassero raffigurazioni di Simonino, dacché il culto non era stato approvato dalla Chiesa. Tuttavia, il gran numero d’opere risalenti già all’ultimo quarto del Quattrocento attesta con palmare chiarezza che i divieti del papa non furono rispettati: merito, scrive Valentina Perini, del “potere persuasivo delle immagini” che non era noto solo al principe vescovo, ma anche ai predicatori più accesi e fanatici, nonché agli osservanti francescani, che in quegli anni erano attivi nella fondazione dei monti di pietà ed erano dunque diretti concorrenti degli ebrei nell’attività del prestito di denaro. Nel catalogo, un corposo saggio di Maria Giuseppina Muzzarelli individua nel francescano Bernardino da Feltre (nella prima sezione della mostra si trova una sua immagine dipinta da Vicino da Ferrara) uno dei più attivi divulgatori del culto “abusivo” di Simonino da Trento.
La seconda parte della mostra s’apre dunque con una formidabile e rara xilografia quattrocentesca, in prestito dalla Biblioteca Classense di Ravenna: sono tre frammenti in antico incollati a un codice cartaceo e anacronisticamente adoperati come frontespizio d’un trattato duecentesco. L’opera tramanda la più nota iconografia di Simonino, quella che lo vede raffigurato in forma crucifixi, a richiamare il sacrificio di Gesù Cristo, mentre viene tormentato dagli ebrei disposti ai suoi lati, con i due in alto che gli stringono attorno al collo la sciarpa bianca per strangolarlo (quest’oggetto sarebbe poi divenuto un suo attributo iconografico) e gli altri che gli applicano incisioni sul corpo al fine d’ottenerne il sangue. Uno degli elementi sui quali avrebbero insistito gli artisti del Simonino è la forte carica violenta dell’azione, qui ben sottolineata proprio dal sangue che scorre copioso lungo il corpo del bambino e che l’ignoto xilografo ha reso con accesi tocchi di rosso scarlatto. Una brutalità che emerge anche dall’illustrazione del martirio acclusa al Liber Chronicarum di Hartmann Schedel (Norimberga, 1440 - 1514), medico, umanista e collezionista tedesco di formazione italiana (s’era laureato in medicina a Padova), e autore di questo imponente libro di cronache illustrate pubblicato nel 1493: qui, l’azione si consuma all’interno della casa di Samuele (i nomi degli ebrei sono tutti debitamente indicati) e il piccolo è trattenuto al centro della scena mentre gli viene praticata la circoncisione, con uno dei futuri condannati a morte, Angelo da Verona, che raccoglie in un bacile il fiotto di sangue che sgorga dalle membra di Simonino.
Volendo poi proseguire il percorso tra le opere dal carattere più marcatamente sanguinolento e raccapricciante, impossibile non notare la tavola votiva di Ludwig Klingkhamer, opera d’un anonimo pittore tirolese, dove a chiedere la protezione di Simonino è un cavaliere (la cui identita è nota dall’iscrizione che scorre nel registro inferiore) colto mentre torna mutilato e ancora sanguinante da una battaglia contro i veneziani, combattuta vicino Trento: il dipinto è interessante anche perché vi scorgiamo un altro tipo iconografico, con il Simonino trionfante, capace di diffondersi in diversi contesti, al pari dell’iconografia del supplizio che fu agevolmente divulgata dalle opere che s’osservavano nelle chiese del territorio. Qui, Simonino è nudo, regge con una mano lo scudo con i segni della sua “passione” (gli spilloni, il bacile, il coltellaccio e la tenaglia) e con l’altra il vessillo con la croce. È un tipo più tardo (l’archetipo è una perduta statuetta argentea del 1479), ma capace di diffondersi anche oltre il territorio trentino (se ne hanno attestazioni persino in Umbria). Lo schema era poi solitamente completato dalla sciarpa attorno al collo: non è il caso della tavola del cavaliere Klingkhamer, ma vediamo Simonino dipinto col suo attributo in un dittico che giunge in prestito da Bressanone (dove il piccolo indossa anche un mantello rosso che evoca la passione di Cristo), oppure in una delle più belle opere quattrocentesche che lo vedono protagonista, il trittico di Jacopo Parisati (Montagnana, documentato dal 1458 - Padova, 1499) dipinto per la chiesa di Santa Maria dei Servi a Padova, dove Simonino è in piedi, con le mani giunte in preghiera, nudo sotto alla Vergine della Misericordia. Il dipinto è un eloquente testimone della diffusione del culto di Simonino in area veneta: nella stessa chiesa dei Servi di Padova esisteva un altare a lui dedicato, benché non fosse quello per il quale la pala di Jacopo da Montagnana era stata eseguita. Per le opere del XV secolo occorre infine segnalare un unicum rappresentato da un busto marmoreo (non presente in mostra: c’è però un video che integra l’assenza) raffigurante un santo bambino che regge la palma del martirio e che, sulla base di tracce d’un antica policromia che farebbero pensare alle macchie di sangue, è stato riconosciuto come un Simonino, e che in occasione della mostra del Museo Diocesano Tridentino è stato per la prima volta ricondotto allo scultore lombardo Antonio Rizzo (Osteno, 1430 circa - Cesena, 1499 circa) da Francesco Caglioti.
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Michael Tanner (?), Madonna in trono con il Bambino tra i santi Girolamo, Giovanni Battista, Pietro e Paolo, il principe vescovo Johannes Hinderbach e il suo cappellano (Trento, Museo Diocesano Tridentino) |
Xilografo dell’Italia nord orientale, Martirio di Simonino da Trento (1475-1485 circa; xilografia colorata, 125 x 145 mm; Ravenna, Biblioteca Classense, inv. n. 22) |
Hartmann Schedel, Liber Chronicarum (Norimberga, Anton Kberger, 23 dicembre 1493; Trento, Biblioteca Comunale, G 1 a 21) |
Pittore tirolese (Ludwig Konraiter?), Tavola votiva di Ludwig Klingkhamer con la Madonna e Simonino da Trento trionfante (1487; tempera e olio su tavola, 60 x 34,8 cm; Innsbruck, Prämonstratenser Chorherrenstift Wilten) |
Pittori tirolesi, Santa Elisabetta d’Ungheria e Simonino da Trento (1480-1490 circa; tempera su tavola, 76,1 x 48,5 cm; Bressanone, Hofburg) |
La sezione dedicata al Cinquecento comincia con un Simonino da Trento di Altobello Melone (Cremona, 1491 - 1547), del 1521, che vede il bambino in piedi su di un piedistallo, ancora nudo, con la sciarpa che invece di stringergli il collo è mollemente adagiata sulle spalle, e con gli spilloni tra le mani: non sappiamo per quale motivo Melone, che non ebbe contatti con Trento, abbia realizzato questa tavola (forse, come ha ipotizzato Marco Tanzi, l’incarico è da ricondurre al diplomatico cremonese Andrea Borgo che, al contrario, aveva interessi in città), ma certo è che si tratta d’un Simonino di gran qualità e che, scrive Valentina Perini, “si discosta dalla tradizione per l’assenza, sul corpo ben tornito, delle consuete ferite”, demandando l’evocazione del martirio “all’esibizione di due acuminati punzoni tenuti in mano dal fanciullo e agli aghi ordinatamente appoggiati sulla base del piedistallo”: una scelta da mettere necessariamente in relazione all’iconografia già proposta da Jacopo da Montagnana. Sempre del XVI secolo è uno dei pezzi più interessanti della mostra: si tratta di un Compianto sul corpo morto di Simonino da Trento, una scultura in legno tagliato parte dell’antico altare della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Trento (da dove proviene anche il Martirio di Simonino del Museo Diocesano Tridentino, che in mostra viene esposto a fianco), ovvero il principale “tempio” del culto di Simonino in antico, dove si trovava la cappella dedicata al presunto martire (ne parla Domizio Cattoi in un ricco saggio nel catalogo). Il Compianto, che ci pone dinnanzi a un tipo iconografico la cui volontà d’instaurare un paragone con la morte di Cristo è quanto mai flagrante, è stato riconosciuto come parte dell’altare (una complessa macchina di cui oggi rimangono solo tre elementi noti) nel 2012 grazie al lavoro di Laura Dal Prà, Giovanni Dellantonio e Valentina Perini, e la rassegna rappresenta la prima occasione d’esposizione al pubblico della scultura, dal momento che uscì dalla chiesa a fine Ottocento e da allora ha continuato a viaggiare per collezioni private (ancora oggi è proprietà d’un privato).
Il percorso espositivo si chiude con le immagini di Simonino che presero a diffondersi dopo la beatificazione del 1588 e la susseguente conferma ufficiale del culto. Una delle opere più significative è un Simonino da Trento con due fanciulli, opera d’un pittore dell’Italia settentrionale (forse cremonese), in prestito dalla Pinacoteca Nazionale di Ferrara: vi si riscontra un’ulteriore iconografia, che vede il bambino in trionfo, col solito vessillo, gli strumenti del suo martirio (il bacile, il coltello, la tenaglia, la sciarpa, gli spilli, che Simonino tiene in mano), e però vestito con una tunica rossa stretta in vita da una cintola, un grembiule bianco, una piccola gorgiera secondo la moda del Seicento a rievocare la fascia attorno al collo, e un paio di scarpe con fiocco. I due bambini ai lati rappresentano un unicum e, ipotizzano Cattoi e Perini che dedicano un saggio a questa variante iconografica diffusasi a inizio Seicento con alcuni testi di gran rilevanza, potrebbero “sottendere un ammonimento rivolto ai fedeli di giovane età affinché diffidino degli sconosciuti per evitare il rischio di condividere la sorte toccata al Simonino” (uno dei due infatti indica il piccolo e l’altro si rivolge direttamente, con un gesto di monito, al riguardante). I due studiosi, in questa sede, formulano l’ipotesi che tale iconografia sia stata divulgata da un qualche dipinto oggi non noto ed eseguito dal veronese Jacopo Ligozzi (Verona, 1547 - Firenze, 1627): ci rimane infatti un suo disegno, conservato agli Uffizi ed esposto alla mostra trentina, con una testa di Simonino del tutto simile alle raffigurazioni dell’infante in tale nuova iconografia.
Infine, tra le opere più tarde, spiccano un Martirio di Simonino da Trento di Giuseppe Alberti (Tesero, 1640 - Cavalese, 1716), opera del 1677 che figura tra i capolavori dell’artista nonché tra le più popolari immagini di Simonino dal momento che era oggetto dell’adorazione dei fedeli il giorno della processione del Corpus Domini, e il settecentesco ciclo processionale delle storie e dei miracoli di Simonino, che in occasione della mostra ha subito uno slittamento in avanti della datazione (al 1775 circa, posteriore di cent’anni rispetto alla cronologia fissata in precedenza: il restauro eseguito in vista della mostra è stato rivelatore). Composto da dodici tele, è il più ricco ciclo unitario dedicato a Simonino che si conosca, si trovava nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ed era esposto nelle processioni dedicate al beato: il racconto include sei diverse tappe della vicenda (il consiglio degli ebrei, il rapimento di Simonino, il tormento, il martirio, i festeggiamenti della Pasqua ebraica, l’occultamento del cadavere) e sei miracoli attribuiti a Simonino. Pur trattandosi d’opere di qualità tutt’altro che eccelsa, “risultano di indubbio interesse”, scrive Maddalena Ferrari, “sia per l’immediatezza con cui esprimono, mediante i gesti e le pose dei personaggi, il miracolo avvenuto di volta in volta, un po’ come nel caso degli ex voto, sia per l’ambientazione che accomuna tre di essi, nei quali il malato ottiene la guarigione proprio davanti all’altare del Simonino, nella omonima cappella della chiesa di San Pietro”.
Altobello Melone, Simonino da Trento (1523; olio su tavola, 98 x 47 cm; Trento, Castello del Buonconsiglio, inv. MN 1381) |
Bottega di Daniel Mauch, Compianto sul corpo morto di Simonino da Trento (primo-secondo decennio del XVI secolo; legno intagliato, dipinto e dorato, 65,5 x 61 x 12 cm; Mülheim an der Ruhr, Collezione Andrea Ohnhaus) |
Bottega di Daniel Mauch, Martirio di Simonino da Trento (primo-secondo decennio del XVI secolo; legno intagliato e dipinto 81 x 110 x 24 cm; Trento, Museo Diocesano Tridentino, inv. 3016) |
Pittore dell’Italia settentrionale, Simonino da Trento con due fanciulli (inizi del XVII secolo; olio su tela, 150 x 90 cm; Ferrara, Collezione Fondazione Estense, in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara) |
Jacopo Ligozzi, Volto di Simonino da Trento (Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) |
Giuseppe Alberti, Martirio di Simonino da Trento (1677; olio su tela, 195 x 130 cm; Trento, Castello del Buonconsiglio, inv. MN 837) |
Le tele processionali con le storie e i miracoli di Simonino da Trento |
È opportuno rilevare come la mostra del Museo Diocesano Tridentino sia fondatata su criterî metodologici e progettuali decisamente moderni. Accanto a un percorso costruito con impeccabile rigore filologico e che si configura come il risultato di un lungo lavoro di studio (lo dimostra il denso e consistente catalogo, una sorta di summa delle conoscenze che abbiamo sul caso di Simonino, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista artistico: l’unico difetto è che non tutte le opere esposte sono schedate), i curatori hanno creato apparati che fanno largo uso della multimedialità: pregevole la sala “immersiva” che fa uso di touchscreen per costruire un racconto della vicenda narrato da attori che ne impersonano i protagonisti (i testi sono basati sui veri documenti del processo), di grande efficacia e di notevole impatto gli schermi che proiettano senza sosta commenti antisemiti e più in generale razzisti tratti da veri messaggi pubblicati su diversi social network negli ultimi mesi, utile l’idea di distribuire ai visitatori, a fine percorso oppure online, un questionario che non ha fini scientifici ma che si è rivelato interessante per ricavare dati sulla conoscenza del caso di Simonino, sulle aspettative del pubblico, su quanto s’è tratto dalla rassegna.
E i visitatori hanno dimostrato d’aver colto molte similitudini con l’attualità: tessere fili capaci di legare al presente la vicenda quattrocentesca era, del resto, uno degli obiettivi dei curatori. Molti si sono sorpresi nel constatare come la potenza delle fake news e dei falsi fosse ben nota e artatamente sfruttata anche all’epoca (in quei tempi la capacità distruttrice delle notizie inventate ad arte era devastante), come la propaganda, grazie all’intelligenza e alle intuizioni del grande manipolatore, Johannes Hinderbach, abbia fatto subito utilizzo della stampa inventata pochi anni prima per raggiungere il maggior numero di persone possibili, come molti tratti del sentimento antisemita si siano mantenuti invariati sino ai giorni nostri, come molte delle pagine più tetre della storia abbiano affondato le radici in processi di deliberata costruzione del nemico del tutto simili a quelli che si consumarono a Trento alla fine del Quattrocento.
In un’epoca in cui il dibattito sulle fake news e sulla postverità è diventato centrale, in un’epoca in cui certa politica continua a costruire miti per guadagnare consenso, la mostra di Trento si rivela necessaria non solo per garantire una “prima” a una vicenda che finora non era mai stata affrontata con un singolo approfondimento in un museo (le ricerche del 1965 hanno ristabilito la verità storica, una verità che viene oggi diffusa dal Museo Diocesano Tridentino in un’Italia che negli ultimi tempi ha conosciuto una recrudescenza degli episodî di antisemitismo), ma anche per gettare uno sguardo lenticolare sui meccanismi della propaganda e per stabilire, ancora una volta, come la ricerca e la corretta informazione rappresentino gli strumenti indispensabili per giungere all’affermazione della verità.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).