Hokusai a Pisa, tanti capolavori e qualche incertezza


Anche quest’anno la mostra di Palazzo Blu si è posta come un appuntamento di grande richiamo grazie ai capolavori del genio giapponese, provenienti dal Museo d’Arte Orientale Chiossone di Genova e dal Museo d’Arte Orientale di Venezia.

È ormai prossima alla chiusura la mostra Hokusai che si è aperta a Palazzo Blu a Pisa il 24 ottobre 2024 e sarà visitabile fino al 23 febbraio 2025. Anche questa volta il palazzo patrizio che si affaccia sull’Arno ha proposto nel periodo autunnale-invernale, una grande mostra, legata a un nome fondamentale della storia dell’arte e di grande richiamo. Fa parte di una lungimirante strategia espositiva che ha ritagliato per Palazzo Blu un ruolo di primo piano nel panorama culturale italiano, portando le sue mostre ad essere un appuntamento immancabile. I riscontri anche stavolta non tardano ad arrivare, con gli organizzatori che hanno annunciato di aver abbondantemente passato la barriera degli oltre 75mila visitatori, e con una previsione finale che si dovrebbe attestare intorno ai 100 mila visitatori, e per raggiungere l’obiettivo prefissato, per tutti i weekend di febbraio gli orari di mostra sono allungati fino alle 23.

Ormai non è raro imbattersi in Italia in mostre dedicate all’arte giapponese e in particolare Hokusai, ma la rassegna pisana ha l’indubbio merito di essere stata costruita su capolavori di grande qualità: espone infatti oltre 200 opere provenienti dal Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova e dal Museo d’Arte Orientale di Venezia, e poche altre afferenti a collezioni private italiane e giapponesi, in un progetto che è stato curato da Rossella Menegazzo, docente di Storia dell’arte dell’Asia orientale all’Università degli Studi di Milano. La fama di Katsushika Hokusai è talmente vasta anche nel grande pubblico da aver reso l’artista il simbolo (probabilmente a sproposito) di tutta l’arte del Sol Levante, e in qualche maniera perfino di quella asiatica. Pittore e incisore, Hokusai nasceva nel 1760 a Edo, oggi Tokyo, per morirvi dopo una lunga vita costellata di successi nel 1849. La sua celebrità, in particolare in Occidente, è legata alla grafica, mentre in patria seppe raccogliere notevoli consensi per tutta la sua produzione, anche quella pittorica, che lo portò a distinguersi in concorsi e sfide artistiche, dove si mise in luce per un carattere eccentrico e creativo. Tra i molti aneddoti che sfiorano quasi l’agiografia, viene spesso menzionata la realizzazione nel 1804 di un ritratto di Daruma, patriarca divinizzato del buddhismo zen, su una superficie di circa 200 metri quadrati di carta. L’opera, realizzata in una sorta di happening, fu acclamata dal pubblico, esattamente come lo fu una di segno opposto, in cui dipinse un uccello in volo su un chicco di riso. Sempre nel 1804, invitato a una gara pittorica a cui presenziava lo shōgun Tokugawa Ienari, su una porta scorrevole smontata, pare dipingesse dei tratti sinuosi di color blu, per poi prendere una gallina e intingervi le zampe nel pigmento rosso, lasciandola infine zampettare sul dipinto. Una volta rimessa in posizione la porta ecco palesarsi il fiume Tatsuta su cui volteggiano le foglie di acero rosso, rifacendosi a un’immagine di una celebre poesia.

Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai
Allestimenti della mostra Hokusai

Se questi episodi siano veri o in parte ingigantiti poco importa, perché restituiscono l’estro di un uomo che dedicò tutta la vita all’arte, realizzando oltre tremila stampe, e molti dipinti, di cui sono giunti sino a noi almeno un migliaio, duecento libri illustrati, e innumerevoli disegni e schizzi. La sua opera si iscrive nella scuola pittorica giapponese dell’ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante), un filone che si sviluppò durante tutta l’epoca Edo, è cioè dal XVII secolo fino alla fine del XIX. Si tratta di un periodo in cui il Giappone era un Paese sakoku, cioè connotato da una politica di isolamento, e in cui il potere shogunale, a capo di un’organizzazione feudale, che aveva di fatto estromesso l’imperatore, aveva imposto come segno di fedeltà ai propri daimyo di risiedere per lunghi periodi dell’anno a Edo, dove viveva lo shōgun. Questo portò Edo, un piccolo villaggio fortificato, a diventare la megalopoli più popolosa del mondo, teatro delle continue ritualità imposte dal potere. A guadagnarne fu la classe mercantile e artigianale, che si arricchì fornendo i servizi che servivano a questo grande apparato, e contestualmente nacque una cultura comune imperniata sulla convinzione di una vita effimera, che pertanto andava combattuta fuggendo nei piaceri: il teatro, i viaggi, le case del piacere e le bellezze del mondo, come per l’appunto l’arte e la poesia. Le stampe ukiyo-e sono il termometro di questo cambiamento di gusto, che abbandona i temi tradizionali per abbracciare soggetti contemporanei che riguardano i ristoranti, il teatro, le case da tè, le stazioni di posta, e molto altro ancora. Queste stampe generalmente non erano ad appannaggio dell’élite più colta del paese, ma erano pensate per un pubblico massificato. Si trattava di xilografie policrome, che in Giappone raggiunsero un alto grado di perfezione tecnica, che vedeva la collaborazione di artisti, editori, incisori e stampatori. Il disegno fornito dall’artista veniva riportato su matrici di legno, una per ciascuna tinta o dettaglio da inchiostrare, fino a adoperarne addirittura venti. Da qui nasce l’incomprensione dell’Occidente, che ha a lungo pensato che quest’arte fosse espressione di una società aristocratica, e non “figurine vendute a due soldi” come tentò di smitizzare Henri Focillon.

Nella mostra pisana è raccolta una ricca selezione delle stampe che stregarono il mondo, in particolare quelle delle vedute celebri (meishoe) che rappresentano le località più pittoresche del Giappone, da quelle naturali come monti, cascate, fiumi e giardini a quelle artificiali quali ponti, templi, santuari, ristoranti e locande. Sono opere di Hokusai realizzate intorno al 1830 e afferenti alle serie delle Trentasei vedute del monte Fuji, Vedute insolite di famosi ponti giapponesi di tutte le province e Viaggio tra le cascate giapponesi.

Mostrano composizioni di alto naturalismo, dove i fenomeni naturali o le istanze architettoniche sono talvolta protagoniste, altre volte di sfondo a una popolazione impegnata nelle fatiche del quotidiano vivere, mentre assecondano il cambiamento implacabile delle stagioni. Le stampe, sempre connotate da una grande vivacità narrativa, si alternano tra quelle descritte nei più minimi dettagli e quelle affidate a pochi tratti e campiture vaste e rasserenate, come nella stampa Il ponte Kintai nella provincia di Suo. In alcune di queste stampe è inoltre possibile notare l’uso della goffratura, piccole impronte a incavo, che formano delle texture movimentate che donano valori tattili a dettagli, come l’increspatura dell’acqua, pellicce, o scaglie. Ma l’assoluta protagonista di questa produzione è la brillante cromia, talvolta affidata solo al blu, altre volte a più colori.

Katsushika Hokusai, Il ponte Kintai nella provincia di Suo (suo no kuni Kintaibashi), della serie “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi di tutte le province (Shokoku meikyō kiran)” (1833-1834 circa; silografia policroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Il ponte Kintai nella provincia di Suo (suo no kuni Kintaibashi), della serie “Vedute insolite di famosi ponti giapponesi di tutte le province (Shokoku meikyō kiran)” (1833-1834 circa; silografia policroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Kajikazawa nella provincia di Kai (Kōshū Kajikazawa), dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1832 circa; silografia policroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Kajikazawa nella provincia di Kai (Kōshū Kajikazawa), dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1832 circa; silografia policroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, La [grande] onda presso la costa di Kanagawa Kanagawa oki namiura), dalla serie “Trentasei  vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1831 circa; silografia policroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, La [grande] onda presso la costa di Kanagawa Kanagawa oki namiura), dalla serie “Trentasei  vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1831 circa; silografia policroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Giornata limpida con vento del sud [Fuji Rosso] (Gaifu kaisei), dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1832 circa; silografia policroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Giornata limpida con vento del sud [Fuji Rosso] (Gaifu kaisei), dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji (Fugaku sanjūrokkei)” (1830-1832 circa; silografia policroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Il fiume Yodo (Yodogawa), dalla serie Neve luna fiori (1833 circa; silografia policroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Il fiume Yodo (Yodogawa), dalla serie “Neve luna fiori” (1833 circa; silografia policroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova

Le opere più iconiche appartengono alla serie dedicata al Monte Fuji, un rilievo vulcanico talmente sacro per la cultura giapponese da ottenere il titolo onorifico San, che nelle stampe di Hokusai è generalmente posto sullo sfondo e appena visibile, se si eccettua la stampa nota come Fuji rosso, che nella mostra di Palazzo Blu è esposta in tre versioni che presentano diverse gradazioni di colore e brillantezza, e Temporale sotto la cima. A questa serie appartiene anche l’opera più nota di Hokusai, La grande onda di Kanagawa, anche se nei grovigli del mare il monte è appena percettibile. Questo capolavoro di segni grafici e di cromie è forse una delle prime stampe ukiyo-e in cui viene adottato appieno l’uso del blu di Prussia, scoperto in Europa e importato in Giappone intorno al 1829, tramite navi olandesi, dimostrando come l’isolamento del paese nipponico non fosse proprio a tenuta stagna. La grande onda che, come tutte le opere giapponesi, va letta da destra verso sinistra, è stata spesso vista dagli europei in ottica romantica, come una natura matrigna che giganteggia sull’uomo. Hokusai voleva invece fermare un fenomeno effimero per eccellenza, e nel contempo mostrare la dura vita dei pescatori, che però trovano quasi una comunione col creato. La stampa presente a Pisa è testimonianza del grande successo che ebbe, tanto da essere stampata in migliaia di copie, sebbene evidentemente siano le prime quelle di miglior qualità: quella qui esposta mostra già un’usura avanzata della matrice riscontrabile nel tratto discontinuo dell’onda sulla destra, così come nel sigillo sulla sinistra, e da una più fioca brillantezza del blu.

“Il vecchio pazzo per la pittura”, come si definì Hokusai, fu anche promotore di una scuola con diversi allievi, e nel corso della sua vita realizzò numerosi manuali di disegno, tra cui i Manga, che iniziati a pubblicare nel 1814 furono conclusi con il quindicesimo volume, pubblicato postumo nel 1878. Presenti anche in mostra in alcune copie, sono splendidi volumi, campionari inesauribili di immagini, in cui si evince la passione e la curiosità di Hokusai per ogni genere di forma, oggetto, animale o uomo. Queste furono le prime illustrazioni con cui gli europei conobbero l’arte giapponese: si racconta che i Manga furono usati come carta di imballaggio per le porcellane e furono così scoperti dagli artisti francesi.

Una piccola sezione espone anche l’impegno dell’artista nel genere degli Shunga (immagini di primavera), illustrazioni di stampo erotico, a cui gli artisti si prestavano volentieri perché garantivano una sicura rendita economica. Per scampare alla censura le copertine erano corredate di disegni ammiccanti ma non espliciti, mentre all’interno si sviluppano sfrenate scene di sesso, dove gli attributi intimi sono esacerbati: in un’attitudine piuttosto estranea all’Occidente, queste immagini, per quanto sconvenienti, non peccavano di qualità compositiva e disegnativa.

La mostra continua con la produzione più raffinata e diretta ad un pubblico colto ed elitario: a questo genere appartengono i Surimono (cose stampate), commissionati da privati per occasioni speciali, come biglietti augurali per la fine dell’anno, calendari o inviti. Diffusi nei circoli poetici, univano con grande maestria illustrazioni più libere nell’inventiva e calligrafia, in un connubio, quello tra parola e arte, piuttosto comune in Giappone. Componimenti poetici si fondono e si completano con le immagini, i soggetti si epurano dalla contemporaneità per abbeverarsi a un’iconografia antica, tratti dalla tradizione, dalla mitologia e dal sacro. Poiché pensati per una committenza altolocata, le cromie seppur più delicate sono ottenute con i migliori pigmenti e le carte più pregiate sono spesso decorate con polvere d’oro, d’argento o di rame. Benché la loro tiratura fosse assolutamente limitata, ben più rari sono invece i dipinti portati in mostra realizzati su rotoli di seta, di stoffa o carta.

Queste opere mostrano i continui sforzi e l’abnegazione di Hokusai nel migliorare il proprio stile: egli si augurava infatti di approfondire in vecchiaia il senso recondito delle cose, e di riuscire a infondere vita propria perfino ad un punto e una linea. Senza il limite della traduzione del disegno in stampa, qui si esprime la sua grande forza espressiva fatta di contorni fluidi, come se fossero stati tracciati dalla penna di un calligrafico. Vari sono i dipinti di beltà, dedicati a donne o giovani, che pur rinunciando a una precisa connotazione fisiognomica vantano tratti di grande verismo, come nel ritratto di una donna partoriente realizzato nel 1817. Dell’anno successivo è l’opera Tigre fra i bambù che guarda la luna piena che, nonostante tradisca una non conoscenza dell’animale, si denota per una vividezza che ricorda le migliori opere del Doganiere Rousseau o del nostro Ligabue. Qui presenti anche alcuni saggi degli allievi che portarono avanti la sua tradizione, tra cui la figlia Ōi, che collaborò frequentemente con il padre. Sono esposte inoltre alcune opere di artisti contemporanei, che dovrebbero testimoniare l’influenza che l’arte di Hokusai ha ancora nell’arte dei nostri giorni, ma lasciano la sensazione di essere solo mere citazioni in chiave pop.

Katsushika Hokusai, Tigre fra i bambù che guarda la luna piena (1818 circa; rotolo verticale, inchiostro e colori su seta; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Hokusai, Tigre fra i bambù che guarda la luna piena (1818 circa; rotolo verticale, inchiostro e colori su seta; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Oi, Trio di suonatrici di kokyū, koto e shamisen (1818-1830; rotolo verticale, inchiostro e colore su carta; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Katsushika Oi, Trio di suonatrici di kokyū, koto e shamisen (1818-1830; rotolo verticale, inchiostro e colore su carta; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Schizzi di Hokusai (Hokusai manga) (1818-1819, album; silografia monocroma; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Schizzi di Hokusai (Hokusai manga) (1818-1819, album; silografia monocroma; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Totoya Hokkei, Eguchi, dalla serie “Spettacoli Nō per il club Hanazono (Hanazono yōkyoku ban tsuzuki)”, Surimono (1820; silografia policroma, pigmento metallico argento, goffrato; Genova, Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Totoya Hokkei, Eguchi, dalla serie “Spettacoli Nō per il club Hanazono (Hanazono yōkyoku ban tsuzuki)”, Surimono (1820; silografia policroma, pigmento metallico argento, goffrato; Genova, Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone) ©Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone Genova
Simone Legno, Il grande sogno, 2024, Tempera su tela, su concessione dell’Autore Simone Legno
Simone Legno, Il grande sogno (2024; tempera su tela). Su concessione dell’Autore

In conclusione, la mostra di Pisa è un percorso quasi stordente, grazie alla qualità di capolavori, taluni non spesso visibili nelle frequenti mostre che si succedono nella penisola. Restano comunque anche da evidenziare alcuni punti deboli della rassegna. Già abbiamo fatto menzione al confronto con i contemporanei, che non può esaurire in alcun modo il fenomeno del giapponismo, cioè la tendenza degli artisti occidentali a nutrirsi dell’arte del Sol Levante, per superare i limiti della propria cultura e proporre nuove soluzioni e schemi.

La mostra evidentemente non ha alcun interesse a proporre alcuna ricerca o avanzamento negli studi: in linea con la politica espositiva di Palazzo Blu, la rassegna si pone come un evento di grande richiamo mediatico e dal successo sicuro, obiettivo che non mi sento minimamente di demonizzare. Per tale ragione appaiono però poco comprensibili alcune scelte: in primis, quella legata agli apparati esplicativi, che rinunciano a delineare qualsiasi itinerario biografico sull’artista o sul contesto giapponese, coltivando il rischio che il visitatore esca dalla mostra con gli occhi pieni di capolavori ma senza alcuna informazione aggiuntiva sulla straordinaria parabola di Hokusai nel mondo dell’arte.

Forse ancor più imperdonabile, a mio parere, è un’altra omissione: se questa mostra oggi è stata possibile in Italia, la si deve alla lungimiranza di due straordinari personaggi, Edoardo Chiossone ed Enrico di Borbone, che nel XIX secolo, primi fra tanti, compirono dei viaggi funambolici per assicurarsi questi straordinari capolavori. In particolare, Chiossone (a cui appartenne la maggior parte delle opere esposte) che chiamato a lavorare in Giappone al Dipartimento Carte Valori del Ministero delle Finanze vi rimase ventitré anni e qui si spense. Poiché artista e incisore, raccolse con grande sensibilità oltre tremila xilografie e numerose pitture e volumi di rara qualità, per poi destinarli a Genova, sua città natale, dove formarono il museo che ancora oggi porta il suo nome.

Ecco, il debito di gratitudine verso questi personaggi e i loro musei, doveva decisamente essere più evidente. E se forse troppo sarebbe stato pagarlo nel titolo, anche se con musei più patinati è pratica comune, come accaduto nella precedente mostra di Palazzo Blu “Le Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art”, quantomeno sarebbe stato giusto e comunque interessante raccontarne qualche vicenda collezionistica, come del resto si fa nel catalogo. Magari qualcuno tra le migliaia di visitatori che ha affollato l’appuntamento pisano sarebbe stato invogliato a visitare il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova e il Museo d’Arte Orientale di Venezia, di cui troppo di rado si sente parlare. Tuttavia, nel complesso, la mostra Hokusai a Pisa è sicuramente un evento importante, che seppur con alcune sbavature, vale la pena di essere visitato.


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Jacopo Suggi

L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi

Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.



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