Basterebbe un solo episodio per dare idea del temperamento di Giovanni Battista Scultori, sfuggente artista che operò nella Mantova di Giulio Romano, lavorando tra stucchi, intagli, disegni, incisioni. È una discussione che Scultori ebbe con un cardinale, Ippolito Capilupi, nunzio apostolico a Venezia nel 1562, anno in cui è documentato un rapporto di lavoro tra l’artista e il prelato. Capilupi gli aveva chiesto due opere, un crocifisso d’argento e una pace, ovvero una tavoletta liturgica adoperata durante la messa. Scultori scrive allora a Capilupi una lettera in cui gli dice d’aver realizzato il crocifisso su modello di un oggetto simile, di proprietà del cardinale Ercole Gonzaga, ma gli fa capire, neanche troppo velatamente, che fare al Cristo “il panno tutto adorato”, cioè il perizoma dorato, non sarebbe stata una grande idea, poiché il cardinale Gonzaga “dise che ogni plebeo lo vol adorato”. In poche parole, Scultori si permetteva di dire al cardinale suo committente che un Cristo col perizoma dorato sarebbe stato roba da cafoni.
La lettera, scritta con una grafia precisissima, chiara, moderna, quasi geometrica, facile da leggere, è conservata all’Archivio di Stato di Mantova ed è tra i pezzi più interessanti che compongono la mostra Giovan Battista Scultori. Intagliator di stampe e scultore eccellente, allestita nelle sale della Rustica nel Palazzo Ducale di Mantova e curata da Stefano L’Occaso, direttore del museo: è la prima rassegna interamente dedicata a questo artista di cui sappiamo abbastanza ma non moltissimo, nonostante la sua longevità (nacque probabilmente nel 1503 e scomparve più che settantenne nel 1575), e nonostante una posizione che dobbiamo immaginare preminente nella Mantova cinquecentesca. Figura poliedrica, dacché fu scultore, incisore, intagliatore, e forse anche editore e imprenditore attivo nel settore dell’oreficeria, Scultori viene citato in un necrologio come “M. Gio. Batta scultore” e in un documento del 1542 come “Io. Bapta Sculptor”, ragion per cui in passato s’è ritenuto che “Scultori” fosse il suo vero cognome, invece che l’indicazione della sua professione (in realtà pare che di cognome facesse Veronesi). Attese alle decorazioni di Palazzo Te come collaboratore di Giulio Romano, fu attivo per qualche tempo come stuccatore al Castello del Buonconsiglio di Trento, venne coinvolto nella realizzazione di alcuni lavori destinati al Duomo di Verona, forse venne impiegato anche nelle decorazioni della Stadtresidenz di Landshut assieme ad altri artisti italiani. Era famoso in tutta Italia e anche fuori dalla penisola. Ebbe qualche problema con l’Inquisizione, date le sue frequentazioni. E per un certo periodo lavorò anche come incisore.
Quella dell’incisione fu tuttavia, per Scultori, una parentesi durata poco: s’impegnò tra lastre, matrici e inchiostri soltanto per quattro anni, per quel che sappiamo a oggi. Dal 1536 al 1540. Anzi, forse neanche, dal momento che quel 1536, desunto da due sole incisioni, potrebbe essere anche un 1538, dato il modo in cui Scultori scriveva il numero 8, simile al 6. Di conseguenza, rarissime sono le sue incisioni. Non esiste un solo museo al mondo che le abbia tutte, e il catalogo completo delle stampe di Scultori, che consta di meno di venti pezzi, si trova ora esposto a Mantova. Perché allora l’interesse di Scultori per l’incisione durò così poco, e cioè meno d’un lustro su di una carriera pluridecennale? Sono state formulate diverse ipotesi: forse questa produzione era legata a una qualche commissione giunta da Federico II Gonzaga, che scomparve il 28 giugno del 1540. Morto il committente, morto il lavoro. Oppure, Scultori aveva deciso d’avviare in proprio un’impresa dedita alla produzione di stampe, e accortosi che non era così redditizia come pensava, l’avrebbe abbandonata senza troppe resipiscenze. O ancora, più semplicemente, dovette venire meno il sodalizio col disegnatore, che la mostra identifica in via ipotetica, ma con argomentazioni più che robuste, nella figura di Giovanni Battista Bertani, altro grande mantovano del tempo: ritiratosi Scultori, il compito di tradurre i disegni di Bertani in incisioni sarebbe toccato a Giorgio Ghisi, “uno dei più esperti incisori del Rinascimento italiano”, come l’ha definito David Landau, “un artigiano le cui abilità probabilmente non avevano paragoni sotto le Alpi durante la seconda metà del sedicesimo secolo”. Quest’ultima è forse l’idea che potrebbe trovare una migliore e più coerente accoglienza con quel che accadde dopo il 1540, dato che nella Mantova gonzaghesca le produzioni incisorie sarebbero continuate per decennî.
La mostra non è allestita secondo un ordine cronologico, ma segue piuttosto un itinerario tematico: soggetti religiosi, soggetti biblici, soggetti mitologici, soldati, battaglie. Ed è proprio in due incisioni raffiguranti soldati (un Capitano di bandiera a piedi, singolare ritratto d’un lanzichenecco abbigliato però con l’armatura d’un soldato romano, e una stampa con Teste di soldati che indossano elmi all’antica, quest’ultima peraltro acquistata dal Palazzo Ducale di Mantova proprio in occasione della mostra) che si può trovare la data “1536” (che forse in realtà, come anticipato, potrebbe essere un 1538), e cioè la più antica tra quelle che compaiono nelle stampe di Scultori. È però attorno alla sigla IBM, ovvero “Iohannes Baptista Mantuanus”, “Giovanni Battista mantovano”, che si sono concentrate le discussioni degli studiosi, data l’ambiguità dell’iscrizione che si può osservare in tutte le stampe di Scultori. C’è chi ha pensato che potrebbe trattarsi della firma di Scultori: poco probabile, dal momento che, se l’incisione recava un’unica firma, era solitamente quella dell’inventor, del disegnatore, e non quella dell’esecutore. E Scultori, come disegnatore, non era un granché: lo attesta bene la pace del 1562, prestata dal Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova, esposta al centro della seconda delle due sale della mostra, accanto a uno schizzo per la sua composizione, alla lettera inviata a Capilupi, e a un inedito crocifisso in bronzo argentato, attribuito a Guglielmo della Porta, esposto per richiamare l’oggetto che il cardinale aveva commissionato a Scultori. E allora occorre trovare un Giovanni Battista, di origini mantovane, che potrebbe aver fornito i disegni per le incisioni: l’ipotesi, fondata, di Stefano L’Occaso è che i disegni delle stampe di Scultori si debbano non già a Giulio Romano, come s’è a lungo pensato, bensì a Giovanni Battista Bertani, ex allievo di Giulio, all’epoca poco più che ventenne ma già artista indipendente, e che proprio grazie a queste incisioni potrebbe essersi messo in luce alla corte mantovana, data la sua nomina a Prefetto delle fabbriche ducali arrivatagli nel 1549 senza che si conoscano sue rilevanti imprese precedenti. Le stampe di Scultori, sotto il profilo formale, sono prive di qualunque morbidezza, sono convulse, risultano dall’incrocio spesso ardito di più piani, e sono lavorate, scrive L’Occaso, “con un ampio repertorio di segni, puntini, virgolette e tratti incrociati, che contribuiscono a creare forti effetti chiaroscurali e una tesa drammaticità”. Quanto ai contenuti, queste incisioni “sono il prodotto di una corte che osserva l’antico con occhi educati da Giulio Romano, il quale non si limitò alla pedissequa ripresa, ma creò un antico alternativo e diede nuova vita al materiale archeologico”. Tanto la forma quanto la sostanza rimandano ai modi, alle invenzioni e all’atteggiamento di Giovanni Battista Bertani. La prova principale, offerta per la prima volta in questa mostra, è un disegno di Bertani raffigurante Marte con Venere che allatta Cupido, giunto in prestito dalla Graphische Sammlung di Monaco di Baviera, a lungo ritenuto copia di un’incisione di Scultori (in mostra un esemplare dei Musei Civici di Pavia), al fianco della quale il foglio è esposto. Al di là della stranezza d’una eventuale copia rovesciata, quale sarebbe il disegno di Bertani ammettendo che derivasse da Scultori (estremamente più probabile, invece, che si tratti semplicemente del foglio preparatorio proprio perché l’immagine è in controparte rispetto alla stampa), si tratta di un’idea con evidenti differenze rispetto alla stampa, segno che l’artista dovette intervenire in seguito con ulteriori modifiche, e poi ci sono difformità nelle proporzioni (un copista si sarebbe limitato a offrire una riproduzione fedele, pedissequa, dell’immagine originale), e qualora si dovesse accogliere una datazione avanzata del foglio, come quella in passato proposta, occorrerebbe domandarsi perché Bertani avrebbe dovuto copiare una vecchia stampa di Scultori, e senza grosse variazioni, quand’era già prefetto delle fabbriche ducali.
Ascrivibile a Bertani è poi la vicinanza alla grafica nordica (Dürer, Altdorfer e via dicendo), che serpeggia in pressoché tutte le stampe esposte a Palazzo Ducale, a cominciare dalle prime due che il pubblico trova lungo l’itinerario di visita, la Madonna che allatta il Bambino che parrebbe derivare da un’omologa opera di Albrecht Dürer, e l’Immacolata con Gesù Bambino e due angeli reggicortina che segue la tradizione della Mondsichelmadonna, l’immagine della Vergine col Bambino in piedi sulla falce lunare, tipica dell’arte dell’Europa del nord. Altre immagini guardano invece a modelli italiani: se ne ha un saggio nella prima sala, dove si trova una rilettura a stampa della Giove e Olimpiade che Giulio Romano aveva affrescato nella Camera di Psiche in Palazzo Te, soggetto di cui si conosce anche una versione censurata da Scultori, che copre con un gioco d’ombre il fallo del padre degli dèi (in mostra è esposto invece l’esemplare, non censurato, della Pinacoteca Nazionale di Bologna). Tangenze col Giulio Romano di Palazzo Te, e proprio con la Camera di Psiche, possono essere parimenti ravvisate nell’Allegoria del fiume Po che ricorda il Polifemo dipinto sulle pareti della residenza gonzaghesca, le cui decorazioni evidentemente fornirono a Scultori un costante repertorio per approfondire quel vivace interesse per l’antico coltivato da tutto il milieu artistico mantovano di metà Cinquecento. Parimenti giuliesche sono le stampe col Cupido che richiama il Giove infante della National Gallery di Londra, o la più impegnativa Resurrezione che celebra anche Raffaello, in particolare nella figura del soldato a terra, citazione dalla Cacciata di Eliodoro dell’Urbinate (ma forse anche nella stessa figura del Cristo che riprende la Trasfigurazione della Pinacoteca Vaticana).
Subito dopo, nella sala successiva, il pubblico ha modo d’ammirare l’incisione considerata il capolavoro di Scultori, esposta a fianco della sua matrice: è la concitatissima Battaglia navale del 1538, in prestito dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, opera forse d’ispirazione mitologica (potrebbe essere un’idea derivata dalle vicende degli argonauti oppure dagli scontri della guerra di Troia), e lodata da Gian Paolo Lomazzo che esaltò la “seria intelligenza mirabile in tale composizione”. Ricordata spesso dalle fonti coeve, la Battaglia navale è una delle opere di massimo impegno dell’accoppiata Bertani-Scultori, opera dalla composizione complessa ed elaborata, frutto d’un sapiente e articolato lavoro sui piani, chiara espressione di quell’horror vacui che invade ogni stampa di Scultori, dov’è difficile trovare un millimetro quadrato che non sia lavorato. È forse il massimo compendio degli elementi che contraddistinguono i lavori di Scultori su disegno di Bertani: l’affollamento nervoso, l’asprezza del disegno, gli effetti di chiaroscuro quasi violenti, l’utilizzo di più punti di fuga e la negazione della prospettiva scientifica rinascimentale, nei confronti della quale Bertani s’era dimostrato polemico perché la trovava un mero espediente geometrico, in quanto non in grado d’offrire una realistica traduzione della visione binoculare propria dell’essere umano. Le stesse caratteristiche, si noterà, sono ravvisabili nelle stampe di Giorgio Ghisi con cui la mostra si chiude: composizioni funamboliche come Il greco Sinone inganna i troiani, la Caduta di Troia e, in misura minore, La visione di Ezechiele e il Giudizio di Paride, offrono un’utile misura dell’eredità che Scultori lasciò al più giovane collega, capace d’avviare con Bertani un sodalizio altrettanto proficuo. Sul finale, la mostra si congeda con un’opera di Diana Scultori, figlia di Giovanni Battista (una Deposizione di Cristo dalla croce) e con un bulino, Prigionieri, tradizionalmente attribuito a Giovanni Battista ma che per la qualità decisamente più bassa rispetto agli altri suoi lavori e per alcune divergenze formali sarebbe forse da assegnare al figlio Adamo, che proseguì l’attività paterna senza però raggiungere le vette toccate dal genitore.
La rassegna è accompagnata da un approfondito catalogo che fa il punto su quanto è dato sapere oggi al riguardo dell’attività di Giovanni Battista Scultori, proponendosi come uno strumento aggiornato e utile non soltanto per conoscere la sua opera, ma anche perché in grado d’offrire uno sguardo attento sulla cultura antiquaria della Mantova cinquecentesca, uno dei temi salienti dell’esposizione di Palazzo Ducale. Giovanni Battista Scultori. Intagliator di stampe e scultore eccellente è una mostra curiosa, fine, intelligente, rara, che fa conoscere al pubblico una delle figure più affascinanti tra le tante che lavorarono a Mantova all’epoca di Giulio Romano e approfondisce un contesto vivace e animato, un momento storico di grande fortuna per la corte gonzaghesca, un periodo durante il quale ciò che veniva ideato sulle rive del Mincio s’irradiava altrove, in Italia e fuori: Mantova era diventata un fiorente centro di sperimentazioni che passarono anche attraverso il mezzo della stampa. Anzi: la stampa era funzionale, scrive Giorgio Marini in catalogo, al “progetto programmatico di diffusione e condivisione delle invenzioni figurative di Giulio [Romano] attraverso tutte le declinazioni del ‘disegno’, contribuendo a fare di Mantova un nuovo centro dell’arte moderna”.
Converrà infine rilevare due ulteriori peculiarità della mostra di Palazzo Ducale: da un lato l’utilità d’una mostra di ricerca, dai costi peraltro decisamente contenuti, e che prosegue lungo l’indirizzo dato dalla direzione di Stefano L’Occaso, ovvero occasioni espositive tese ad approfondire aspetti e protagonisti della storia dell’arte mantovana, secondo una linea che già da alcuni anni contraddistingue l’offerta del museo (solo nell’ultimo anno e mezzo andranno ricordate le mostre sul Pisanello, su Rubens, sul Grechetto e via dicendo), e che in quest’occasione ha portato anche a dei lasciti duraturi che non sono soltanto immateriali, ma anche materiali, dato che Palazzo Ducale ha acquistato, sempre con una spesa contenuta, alcune importanti stampe di Scultori, che fanno parte del percorso espositivo. Dall’altro, la sorprendente disinvoltura con cui la rassegna curata da L’Occaso abbatte il luogo comune che vuole le mostre di grafica meno interessanti rispetto a quelle di dipinti o sculture: lo stereotipo è superato grazie a un racconto che non lascia mai da solo il visitatore, neanche su di un singolo pezzo, e che il pubblico troverà non soltanto approfondito, ma anche vivace, piacevole, serrato, calibrato su di una ragionevole durata della visita e valorizzato da un allestimento affine a quello delle mostre di pittura, con le tavole esposte come fossero quadri, illuminate in maniera impeccabile, con gli spazî gestiti in maniera corretta. Insomma: ricerca sì, ma in grado di parlare anche al grande pubblico. Chi lavora con la grafica vada a visitare la mostra di Palazzo Ducale e prenda appunti.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).