Il 15 febbraio del 1997, Federico Zeri scriveva una lettera al collezionista che aveva acquistato uno splendido Ratto delle Sabine, assegnato a Sebastiano Ricci in un’asta da Sotheby’s a Monaco qualche tempo prima. “Il dipinto qui esaminato”, commentava il grande connoisseur e storico dell’arte, “è sorretto dal ritmo quasi frenetico con cui si svolge la narrazione, e che è tipico del Magnasco: Ricci non ha mai spinto sino a questo diapason le sue sequenze”. Secondo Zeri, il Ratto delle Sabine è un capolavoro di Alessandro Magnasco, e fu semmai Sebastiano Ricci a recepire elementi formali dal genovese. Oggi, l’attribuzione di questo singolare dipinto rimane disputata, ma va riconosciuto a Federico Zeri il merito d’averne saputo inquadrare il contesto, ovvero “quella speciale e ancora per molti versi elusiva congiuntura di fine Seicento-inizio Settecento”, scrive Andrea Bacchi, “nel corso della quale si incontrarono, prima a Milano e quindi a Firenze, il genovese Magnasco e il veneto Ricci e di cui diede conto per primo Carlo Giuseppe Ratti”.
L’episodio del Ratto delle Sabine è uno dei tanti esempî delle intuizioni dello storico dell’arte romano che punteggiano la mostra Giorno per giorno nella pittura. Federico Zeri e Milano, la mostra, a cura di Andrea Bacchi e Andrea Di Lorenzo, che il Museo Poldi Pezzoli, cui Zeri fu legatissimo al punto da donare all’istituto due opere della propria raccolta, gli dedica nel centenario della nascita, e che chiude il 7 marzo. Viene spontaneo domandarsi donde gli derivasse quella capacità, formidabile a un segno tale da esser divenuta quasi leggendaria e da averlo portato a diventare consigliere fidato di grandi collezionisti, di riconoscere la mano celata dietro un dipinto. Quello che conta è l’“occhio”, diceva Zeri. Letteralmente: all’inizio della mostra scorrono le immagini d’un documentario che a un certo punto propone una conversazione informale tra lui e Pierre Rosenberg. Ed è questa la versione che Zeri rende allo storico direttore del Louvre: conta l’occhio. E per “occhio” non s’intende una particolare dote innata, per quanto una certa predisposizione possa naturalmente agevolare il lavoro del connoisseur: è, semmai, l’esercizio d’un insieme di capacità e conoscenze. Una prima impressione generale e le conseguenti deduzioni, anzitutto. La valutazione dello stato conservativo dell’opera. L’analisi della tecnica adoperata dal pittore. La propensione a mettere in discussione ogni singolo elemento del dipinto per comprendere quanto possa essere coerente con lo stile d’un artista, ovvero quello spirito critico che Zeri considerava l’“anima della ricerca”. Naturalmente occorre una buona memoria, che Zeri teneva in costante allenamento con la sua sconfinata fototeca, lasciata poi all’Università di Bologna: quasi trecentomila fotografie che ne fanno l’archivio privato di pittura italiana più grande al mondo. Si tratta, per la più parte, d’immagini in bianco e nero: Federico Zeri difficilmente lavorava sulle immagini a colori. Le tecnologie del suo tempo spesso non garantivano una resa fedele del colore, e un colore non veritiero confonde le idee. Sarebbe interessante sapere se, con le immagini ad alta risoluzione odierne, avrebbe avuto idee diverse.
La mostra che sta per concludersi a Milano è dunque, anzitutto, una sorta di piccola collezione di alcuni casi in cui l’occhio di Federico Zeri è stato determinante. Ma è anche un’occasione per conoscere i suoi interessi, per comprendere come la figura del connoisseur sia distinta da quella dello storico dell’arte pur serbando dei tratti in comune (secondo Zeri, uno storico dell’arte deve essere necessariamente anche un conoscitore, ma un connoisseur può non essere uno storico dell’arte), per entrare nel vivo di alcune delle più importanti questioni storico-artistiche sulle quali Federico Zeri è entrato, spesso in modo decisivo. E, non da ultimo, è occasione per conoscere quello stretto legame che ha unito Federico Zeri al Poldi Pezzoli anche dopo la sua scomparsa, oltre che a Milano in senso più ampio.
Giorno per giorno nella pittura. Federico Zeri e Milano è nettamente divisa in due parti: nella prima sala il pubblico incontrerà alcuni dipinti che meglio esemplificano i suoi interessi e meglio dànno conto dei suoi metodi. La seconda sala racchiude invece due nuclei che rievocano due vicende che appassionarono lo studioso, ovvero quella di Donato de’ Bardi e quella di Johannes Hispanus. Nel mezzo, a far da legante, le due tavole che Zeri lasciò in eredità al Poldi Pezzoli, e il richiamo alla sua relazione con la città di Milano. L’avvio spetta a un trittico ad ante mobili di Giovanni di Corraduccio, del 1410 circa: scriveva nel 1976 Zeri pubblicando l’opera (ottima, peraltro, l’idea di affidare parte della narrazione della mostra agli stralci dei saggi dello studioso, che accompagnano le didascalie) che in questo trittico “curiosissima è la distribuzione delle storie nella tavola centrale”, poiché “l’indifferenza per l’effettivo svolgersi del testo evangelico è clamorosa, per cui l’Ultima cena risulta spostata in modo inesplicabile”. Zeri giustificava l’anomalia sulla base di una personale e misticheggiante interpretazione del testo evangelico da parte dell’autore. Il nucleo di arte tardogotica, verso la quale Zeri nutrì un interesse costante, è completato da una Crocifissione di Zanino di Pietro, che Zeri portò nel 1962 all’attenzione della critica inquadrando l’autore e il contesto in cui fu realizzata, e da due tavole del Maestro del Giudizio di Paride al Bargello, un San Giovanni Battista e una Santa Margherita d’Antiochia, che all’epoca dell’attribuzione da parte di Zeri rappresentarono due importanti aggiunte al catalogo dell’anonimo maestro il cui namepiece è un desco conservato al Bargello.
Un prestito decisamente significativo, tanto da esser riprodotto sulla copertina del catalogo, è il Ritratto di giovane di Ercole de’ Roberti, dipinto anche sul verso con un Ritratto femminile: la ritrattistica rinascimentale fu ambito in cui Zeri ebbe modo di distinguersi, e il nucleo espositivo è completato al Poldi Pezzoli da un Ritratto di fra’ Michele da Brescia di Giovanni Battista Moroni, che come il ritratto di De’ Roberti è di collezione privata. Quest’ultimo è opera d’ambito bentivogliesco (i due giovani potrebbero essere Annibale Bentivoglio e Ginevra Sforza Bentivoglio): la definitiva attribuzione al grande maestro ferrarese si deve a Zeri, che confermò uno spunto di Roberto Longhi dopo che il dipinto, nel 1992, passò in asta da Sotheby’s con un generico riferimento alla scuola bolognese. È curioso rilevare che a confortare l’ipotesi che il soggetto raffigurato sia Annibale Bentivoglio hanno contribuito le analisi tecniche agli ultravioletti e agli infrarossi, che hanno permesso di scoprire la scritta “annibale bentivolio” sopra al profilo femminile: Zeri era convinto che l’“occhio” avesse la precedenza sulle analisi di laboratorio, tanto da arrivare talvolta a contraddire i risultati delle indagini. Nel caso del ritratto di Ercole de’ Roberti tuttavia le analisi davano sostegno a un’identificazione di cui anche lui era piuttosto convinto. Della pagina rinascimentale della mostra fa parte anche una Madonna con Bambino e santi di Andrea Previtali, pubblicata da Zeri nel 1956, fin da subito inquadrata giustamente come opera che segna il massimo avvicinamento del suo autore a Lorenzo Lotto, il cui ascendente si rileva segnatamente nelle immagini dei santi, mentre la Madonna col Bambino deriva da soluzioni belliniane.
La prima sezione si chiude con un gruppo di opere del Sei-Settecento particolarmente interessanti per conoscere gl’interessi di Zeri, rivolti in special modo alla pittura dell’Italia settentrionale, ed estesi anche ad artisti meno noti, al punto da giungere a interessanti scoperte. Del Ratto delle Sabine di Alessandro Magnasco s’è già detto in apertura, e val la pena dunque soffermarsi su alcune perle che questo capitolo della rassegna del Poldi Pezzoli offre ai suoi visitatori. C’è, anzitutto, una Madonna col Bambino e san Giovannino di Antonio Gherardi, che Zeri considerava uno dei più interessanti capi d’opera del Seicento romano: in una lettera del 1955 si complimentava con l’acquirente che se l’era assicurata. Gherardi è stato uno degli artisti che più hanno mosso le passioni di Federico Zeri: artista originale, aperto al cortonismo e alla pittura veneta, per quanto fosse ritenuto pittore di altissima qualità da Zeri (oltre che da molti altri studiosi del Seicento), che ne auspicava un più esteso riconoscimento critico, è ancor oggi poco o per niente noto al grande pubblico. Ancor meno conosciuto è Giovan Battista Garavotti (o Gallarotti), cui Zeri attribuì due nature morte esposte al Poldi Pezzoli: pittore romano scarsamente documentato, che Zeri riteneva di inserire in una “corrente naturalistica secentesca che non è caravaggesca, ma che è semplicemente spinta dallo studio accurato delle forme naturali”, rimane ancor oggi una sorta d’oggetto misterioso, la cui ricostruzione è stata avviata dallo stesso Zeri e che la mostra milanese potrebbe contribuire a rilanciare. Le nature morte secentesche proseguono poi con una caravaggesca Cesta di vimini e frutta del lucchese Simone del Tintore e con una singolare Allegoria della Primavera, attribuita da Carlo Volpe alla collaborazione tra Carlo Saraceni (per le figure) e l’anonimo Maestro di Hartford (per il brano naturamortistico). È un’opera, scrive Elisabetta Sambo in catalogo, “esemplificatrice del problema Maestro di Hartford”, autore di nature morte la cui identità è ancora di qua dell’essere scoperta: Zeri era convinto del fatto che si trattasse del giovane Caravaggio, un’ipotesi oggi perlopiù caduta, spiega Sambo, “causa non ultima le peculiarità di stile del gruppo [di opere ascrivibili al Maestro di Hartford, nda], abbastanza consistente, che mostra nel suo svolgimento una sostanziale coerenza ma nessuna virata nella direzione di Caravaggio”.
A condurre verso la seconda sezione della mostra sono le due opere che facevano parte della collezione di Federico Zeri e che furono da lui lasciate dopo la sua scomparsa al Poldi Pezzoli: una Santa Elisabetta d’Ungheria che lo storico dell’arte attribuiva a Raffaello (oggi si ritiene che si debba semmai a un suo collaboratore, che ancora stenta a essere identificato: nella letteratura critica mancano da anni nuovi contributi sull’opera, e la questione sull’attribuzione della tavoletta rimane tuttora aperta) e una Pietà di Giovanni de’ Vecchi, opere che son scese al piano terra dalle sale della raccolta permanente per rendere ben evidente il rapporto che legò Federico Zeri al museo. L’ultima sala, come anticipato, è dedicata a due artisti attorno ai quali Zeri profuse grande impegno e concentrazione: Johannes Hispanus e Donato de’ Bardi. I pannelli di sala informano che il caso del primo, che si ritrova menzionato nella letteratura anche come “Giovanni Ispano” o “Giovanni di Siviglia”, è uno dei casi più entusiasmanti per un connoisseur, dal momento che si trattava (e per certi versi si tratta tuttora) non già di aggiungere opere al catalogo di un pittore noto, bensì di risollevare dalle polveri della storia un artista ch’era stato dimenticato e che attendeva d’esser riscoperto. Johannes Hispanus fu pittore errabondo, attivo tra il Quattro e il Cinquecento, presente in mezza Italia, da Firenze al Veneto, da Roma alle Marche e oltre, ed è stato peraltro oggetto di una recente monografia di Stefania Castellana che ha fornito ulteriori elementi per ricostruire la personalità di quel “classicista stralunato” (così Roberto Cara) capace di pescare da una vasta congerie di fonti. A un Zeri appena venticinquenne va riconosciuto il merito d’aver dato il via a tale ricostruzione, con un articolo pubblicato nel 1948 in cui radunava attorno al nome del pittore spagnolo alcune opere collegabili alla Deposizione che il collezionista Alberto Saibene aveva comperato sette anni prima. Longhi riuscì a far da tramite tra Zeri e Saibene permettendo al giovane studioso di conoscere l’opera che, scrive Aldo Galli, “gli permise di far meglio luce, rimpolpandolo oltre tutto col pezzo più bello, su un gruppetto di dipinti capricciosamente sparsi per l’Italia che egli aveva già raccolto sulla scorta di cifre stilistiche peculiari”.
L’enigmatica Deposizione è un’opera complessa, nella quale Zeri leggeva spunti perugineschi che si mescolavano a elementi tratti da Piero di Cosimo, da Boccaccio Boccaccino, dai leonardeschi e financo dall’arte francese: una “singolare mescolanza di verità e di schemi”, puntualizzava lo studioso che continuò per tutta la carriera a dedicarsi allo spagnolo, che anche nel 1998, pochi mesi prima della scomparsa, occupava i suoi pensieri. Era infatti intenzione di Zeri occuparsi dell’identificazione del soggetto dei due dipinti della collezione Groppi di Piacenza (oggi invece in collezione londinese) esposti in mostra: non riuscì a fare in tempo, e il nodo sarebbe stato sciolto solo vent’anni dopo da Alessandra Galizzi che li ha letti come due episodi della novella di Cimone ed Efigenia. Chiude il gruppo di opere di Johannes Hispanus un’altra Deposizione, dalla collezione di Michelangelo Poletti, riemersa sul mercato solo sei anni fa: la mostra è la prima occasione per vedere esposte assieme le due Deposizioni, che stanno tra loro in rapporto di “piena evidenza”, sottolinea Galli.
Altro artista sul quale Federico Zeri ha riversato grande e costante impegno è Donato de’ Bardi, di cui la mostra espone alcuni dipinti che furono a lui ricondotti dallo studioso e che vanno a costituire una piccola mostra nella mostra: si tratta della Presentazione al tempo di collezione privata e delle tavole coi santi Ambrogio, Giovanni Battista, Girolamo e Stefano che erano parti di un polittico smembrato (oggi divise tra collezioni private e la Pinacoteca di Brera), oltre a una Madonna lactans e a una Pentecoste che sono stati poi in seguito espunti dal catalogo del pittore lombardo a lungo attivo in Liguria. Quella che Zeri compì con Donato de’ Bardi, spiegano i curatori in catalogo, fu un’operazione di particolare raffinatezza: la riscoperta di questo artista partì da un trittico del Metropolitan su cui compariva la firma “Donatus” e che fino al 1973 veniva dato al veneto Donato Bragadin. Sarebbe stato Zeri a ricondurre l’opera a Donato de’ Bardi, su base stilistica, riconoscendo che non poteva essere opera di cultura veneta (nonostante lui stesso in precedenza avesse sostenuto l’assegnazione a Donato Bragadin), e che andava ricollocata nell’ambito di quella lombardo-ligure. Prima degli studî di Federico Zeri, del pittore si sapeva molto poco e gli s’attribuiva un’unica opera, la Crocifissione della Pinacoteca Civica di Savona. Il cambio d’attribuzione del trittico newyorkese diede il via alla ricostruzione della fisionomia di Donato de’ Bardi: seguirono a stretto giro l’attribuzione della Presentazione esposta al Poldi Pezzoli (per la prima volta al pubblico), di cui non si può non rimarcare l’architettura tipicamente ligure, coi blocchi di marmo bianchi e neri, che caratterizza il tempio dove si svolge la scena e, nel 1976, l’assegnazione a Donato delle quattro tavole che il pubblico può vedere in mostra assieme. In questi santi, scriveva Zeri, andava riscontrato “l’ammirevole, sottile accordo tra forma e luce” che “si realizza secondo una formula per la quale la suggestione di un Foppa ante litteram si impone con insistenza” e in cui “ritorna quel sapore nordico, fiammingo, che risalta ad ogni lettura della Crocifissione di Savona”. Se la Madonna lactans è stata ricondotta nel 1989 all’attività di Ambrogio Bergognone, trovando oggi accoglienza unanime, per la Pentecoste, altra opera esposta per la prima volta al pubblico al Poldi Pezzoli, è invece ancora difficile trovare un nome, poiché palesa evidenti affinità con l’arte di Donato de’ Bardi, ma senza toccare la qualità delle opere del maestro.
La mostra è completata da una sezione dedicata al “tavolo del conoscitore”: una teca che raccoglie una ventina di fotografie, in bianco e nero (s’è detto di come Zeri prediligesse la fotografia priva di colori), con le annotazioni dello studioso, per offrire al pubblico un minuscolo esempio della sterminata mole d’immagini che Federico Zeri raccolse per tutta la sua carriera, strumento imprescindibile per aiutarlo nel suo lavoro di connoisseur, palestra di esercizio quotidiano, collezione a sua volta di fotografie tratte dalle fonti più disparate. A Milano ne compare un gruppo collegato alla ricostruzione della personalità di Donato de’ Bardi. “Comincio col guardare ripetutamente le innumerevoli fotografie che mi vengono recapitate”, ha scritto Federico Zeri nella sua autobiografia Confesso che ho sbagliato del 1995, “esaminandole dapprima nell’insieme e poi, con una lente, nei dettagli. [...] In seguito viene l’identificazione del soggetto, che è parte integrante del quadro, indissolubile dalla forma [...]. Proseguendo cerco di stabilire la regione, la data e la mano dell’artista, basandomi sui dati stilistici”.
Nelle sale al pian terreno del Museo Poldi Pezzoli è stata ordinata una mostra che, con poche opere (una ventina circa), peraltro quasi tutte di difficile accesso poiché serbate in collezioni private, e con l’utilizzo di strumenti efficaci (un gradevolissimo documentario di venti minuti che introduce il pubblico alla mostra, apparati ampî, chiari ed esaustivi, le citazioni ad accompagnare in modo costante l’itinerario di visita), costituisce una validissima occasione d’approfondimento sia per il grande pubblico, che grazie a questa intelligente rassegna può quasi entrare nello studio di Federico Zeri e vedere il connoisseur al lavoro, conoscere gli argomenti che più lo affascinarono e osservare il tangibile risultato del suo operato (e viene peraltro incuriosito ad approfondire ulteriormente), sia per gli addetti ai lavori che hanno avuto la rara occasione di vedere assieme diverse opere spesso uscite dai radar della critica. Con, in più, un catalogo agile che consente di fare il punto della situazione su quanto esposto (magari per un rilancio di ciò su cui da tempo la letteratura non conosce avanzamenti) e che contiene anche ricordi di chi ha lavorato con Federico Zeri. Una vera opportunità di conoscenza, nella città italiana che Zeri amava e frequentava di più dopo la sua Roma, e nelle sale di quel “museo d’eccezione”, come lui stesso aveva definito il Poldi Pezzoli sulla rivista di Alitalia, poiché esempio d’istituto privato gestito con sapienza e lungimiranza.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).