Da una prospettiva privilegiata per una suggestiva vista su tutta Firenze, Villa Bardini ha riaperto le sue porte ai visitatori dopo due anni di chiusura a causa della pandemia con una grande mostra dedicata a uno dei suoi cittadini più illustri che seppe mantenere un rapporto con le sue origini ma che, spinto da uno spirito innovativo e moderno, ebbe la forza soprattutto di guardare oltre l’Italia per confrontarsi con le tendenze più in auge in ambito europeo e con i maggiori artisti che meglio rappresentavano quell’onda di rinnovamento che investì e ispirò tutta l’arte europea di quel tempo. Una mostra che Firenze dedica a Galileo Chini (Firenze, 1873 – 1956), un omaggio che il capoluogo toscano ha voluto compiere al pittore, illustratore e ceramista fiorentino che fu all’epoca uno degli artisti italiani più noti in Europa, guardato con ammirazione da grandi interpreti dell’arte del Novecento come Umberto Boccioni, e che intrattenne rapporti con i maggiori artisti europei a lui contemporanei.
Curata da Fabio Benzi e visitabile fino al 25 aprile 2022, la mostra dal titolo Galileo Chini e il Simbolismo Europeo, da cui si evince la visione aperta sul panorama internazionale come tratto caratteristico dell’artista che fu tra i maggiori esponenti europei del modernismo Liberty e del Simbolismo (uno sguardo aperto sul mondo come quello che il visitatore compie sulla città di Firenze se si affaccia dal Belvedere della Villa), si focalizza sui primi vent’anni della sua carriera, dal 1895 al 1914, ovvero dalla prima maturità fino alle soglie del primo conflitto mondiale, in cui Chini aderì al Simbolismo e alle pulsioni moderniste dell’Art Nouveau. Anni caratterizzati da un’enorme vitalità culturale che coinvolgono il Simbolismo francese e mitteleuropeo, le Secessioni, il gusto Liberty, grazie anche a rapporti e scambi culturali con artisti del calibro, per citarne alcuni, di Auguste Rodin, Max Klinger, Ferdinand Hodler, Gustav Klimt, William de Morgan, Odilon Redon, Gaetano Previati, Giovanni Segantini. Lungo il percorso espositivo infatti opere di questi ultimi sono posti in dialogo con i capolavori chiniani: ne è un esempio la sala che espone il Ritratto di Rodin compiuto da Chini nel 1901 con sotto la Danaide in gesso che Rodin donò a Galileo nello stesso anno, il Ritratto della moglie di Chini con l’Autoritratto e il Ritratto della sorella di Fernand Khnopff realizzati tra 1898 e il 1900, le illustrazioni della Divina Commedia Alinari di Galileo Chini in confronto con le incisioni di Max Klinger.
La grande poliedricità di Galileo Chini si manifesta in mostra attraverso opere che appartengono a diversi linguaggi e tecniche: si susseguono nelle sale espositive in un allestimento molto armonico dipinti, disegni e ceramiche che offrono al visitatore continui parallelismi, in linea con il pensiero dominante dell’artista, secondo cui non esisteva divisione tra arti maggiori e arti minori. Seguendo la spinta modernista verso principi di rinnovamento espressivo, in particolare dell’Art Nouveau e delle Secessioni mitteleuropee, Galileo Chini si dedicò insieme alla pittura alla ceramica, di cui in quel periodo fu il massimo innovatore in Italia, e alla pittura murale, preferendola alla pittura di cavalletto. Ispirato dalle teorie inglesi delle arti applicate Arts and crafts di Walter Crane, Chini diffuse il concetto di opera d’arte di produzione industriale: le sue ceramiche prodotte su grandi numeri portano nelle case della borghesia italiana il gusto Art Nouveau e le sue decorazioni murali si diffondono in ambienti pubblici. È del 1917 il Manifesto Rinnovando rinnoviamoci, in cui proponeva l’abolizione delle Accademie di Belle Arti promotrici di un’ inaccettabile distinzione tra arti maggiori, quindi pittura, scultura, architettura, e arti minori, come la ceramica, per l’istituzione di “Scuole artistiche industriali atte a rinnovare tutte le forme delle arti applicate”.
Lui stesso fondò nel 1896 con Vittorio Giunti e Giovanni Montelatici l’Arte della Ceramica, in via del Ghirlandaio a Firenze, con l’obiettivo di rinnovare la ceramica italiana e di renderla degna d’appartenere alle arti belle, facendola rinascere al modo degli antichi e portandola alle più alte manifestazioni. La sua prima produzione s’ispira alle figure botticelliane di donna, ai temi mitologici di stampo preraffaellita e a figure fitomorfe e zoomorfe, con pavoni, pesci, fiori, frutta e foglie. Chini guardò anche a William de Morgan, tra i maggiori artisti degli Arts and crafts, che aveva lavorato per molto tempo a Firenze alla ditta Cantagalli: è esposto a Villa Bardini un albarello (forma tradizionale della maiolica medioevale e rinascimentale) con pavoni che quest’ultimo realizzò nel 1890 circa per Cantagalli, simbolo dell’Art nouveau perché una forma tradizionale viene reinventata con figure moderne. Chini si ispira a queste sperimentazioni quando, sulla forma tradizionale dell’albarello, realizza un disegno tipicamente Art nouveau, di stampo preraffaellita, con volti di donna. Sono affiancati in una vetrina vasi chiniani con volti muliebri del 1898 circa, un disco con volto di donna dello stesso periodo e bozzetti per vasi con profilo femminile e fiori e con pavoni. Il gusto per le figure femminili botticelliane, con una Flora in stile Liberty, in linea con l’arte mitteleuropea modernista di Alphonse Mucha, si rivela già dal manifesto della mostra fiorentina di Attilio Formilli del 1896, Festa dell’Arte dei Fiori, che costituisce il primo esordio pubblico di Galileo: vi parteciparono giovani artisti che volevano rompere con la tradizione accademica imperante in città e che seguivano un ideale di rinnovamento non solo nella pittura ma anche nelle arti applicate, diffuso da riviste moderne come The Studio, veicolo principale di diffusione del preraffaellismo. Tuttavia, a breve, volgerà anche lo sguardo a un giapponismo dagli smalti iridescenti e monocromi a colatura, riferendosi ai bronzi e alle porcellane Edo, e all’illustrazione Nabis che testimonia la conoscenza di Pierre Bonnard e della Revue Blanche (in mostra con litografie).
Come è nell’intento della rassegna e come il visitatore percepisce dall’inizio del percorso espositivo, i primi vent’anni della produzione di Chini, più propriamente simbolista, sono un continuo dialogo con le tendenze più innovative dell’Europa del tempo e con gli esponenti più di spicco, sempre nell’ambito di un contesto di ampio respiro, ma comunque mantenendo una personalità inconfondibile e indipendente. Una volontà che si rende nota fin dalla grande lunetta a pastello che raffigura un’Allegoria della pittura databile intorno al 1895, con cui il pubblico di Villa Bardini viene accolto dopo le iniziali ceramiche a cui si trova di fronte appena salite le scale che conducono al secondo piano dell’edificio, nonché al primo dei due piani in cui si sviluppa l’esposizione chiniana. La lunetta presenta già infatti un distacco dai riferimenti neorinascimentali del suo maestro e decoratore Augusto Burchi, presso cui Galileo fece il suo apprendistato, e un avvicinamento alla tecnica divisionista con riferimento all’esempio di Giovanni Segantini (con l’aggiunta dei già presenti pavoni che diventeranno uno dei soggetti più frequenti nell’arte di Chini, soprattutto quella ceramica, nonché molto diffuso nell’Art nouveau). Di poco successivo è invece il Ritratto della sorella Pia (1896-1897), dove si avverte chiaramente un rimando al preraffaellismo, di cui si parlava prima, attraverso una giovane fanciulla in abiti medievali immersa in un giardino pieno di gigli. L’esperienza divisionista, sviluppata con l’amico Plinio Nomellini, si unisce a una pennellata densa e veloce di derivazione francese per creare sfondi ricchi di bagliori, come quelli in due dipinti in mostra, ovvero il Ritratto di Elvira del 1899-1900, più rossastri, e l’Autoritratto del 1901, in cui Chini si ritrae con tavolozza in mano sulla spiaggia e un cielo di nuvole dalle quali s’intravedono bagliori di sole. È un cielo nebbioso dalle tinte marrone-grigio e allo stesso tempo con bagliori luminosi quello invece rappresentato ne La fabbrica del 1901, allegoria della Fabbrica che tiene in mano un giglio, simbolo di Firenze, e che con l’altra protesa in avanti regge una statuetta con una vittoria alata, a indicare il successo dell’Arte della Ceramica che da piccoli ambienti si trasferisce nella nuova e più ampia sede a Fontebuoni. Il bacio della Sirena, capolavoro di Max Klinger, si pone invece in diretto confronto con Il mare rosso al tramonto di Galileo Chini: in entrambi infatti le onde del mare riflettono la luce e i colori del cielo.
Prima esposizione in Italia che riunì quei giovani artisti desiderosi di rinnovamento in opposizione alle mostre ufficiali e accademiche fu quella di Palazzo Corsini del 1904, organizzata dallo stesso Chini, da Giovanni Papini e da Ludovico Tommasi: durante il discorso di inaugurazione, il secondo diede addirittura delle “scimmie” agli accademici della Società di Belle Arti. A Palazzo Corsini Chini portò alcuni dipinti che sono esposte alla mostra di Villa Bardini, come il già citato Autoritratto, Gli Eguali, Le Frodi. Gli Eguali rimandano al macabro di Franz von Stuck e di Arnold Böcklin con queste figure dal volto oscuro quasi in processione, mentre ne Le Frodi sono raffigurate tre figure femminili avvolte nei loro mantelli che cercano di nascondere i loro volti allontanandosi dall’uomo in piedi, autoritratto del pittore, a sottolineare come il pittore alla ricerca della verità cacci via le frodi, ovvero gli stratagemmi per ottenere fama. In questo senso il dipinto diventa quasi un manifesto della mostra di Palazzo Corsini che vuole promuovere un’arte autentica, vera e simbolica contro le falsità accademiche.
Tappa fondamentale nella carriera di Galileo Chini fu la decorazione della Sala del Sogno alla Biennale del 1907, ideata insieme a Nomellini, dove eseguì un grande affresco dai richiami segantiniani e previateschi, con putti molto simili a quelli che realizzò tre anni prima nel salone delle feste del Grand Hotel La Pace di Montecatini, questi ultimi considerati tra i primi capolavori murali dell’artista. Si fa sentire molto dunque in queste occasioni l’influsso di Gaetano Previati e di Giovanni Segantini, tra i massimi esponenti del divisionismo. In mostra la Sala del Sogno è ricordata dal pannello con Putti con nastri e ghirlande, dal San Giovanni decollato che richiama Gustave Moureau, dal Giogo e dall’Icaro d’ispirazione previatesca in cui i bagliori dorati e argentei del cielo e nell’acqua creano un’atmosfera di grande suggestione facendo da sfondo alla caduta della figura umana rappresentata sulla tela un attimo prima di precipitare nel mare. Nella stessa rientranza dove sono collocati l’Icaro e il Giogo, il visitatore rimane affascinato dal grande pannello de La primavera classica, che Chini presentò per la Sala Meštrovi? della Biennale del 1914: qui l’artista volle richiamare la Secessione viennese, primo su tutti Gustav Klimt, attraverso pannelli definiti appunto klimtiani dalla critica, per esprimere la Primavera, la forza generatrice della natura e quindi dell’arte. Una sezione espositiva dunque che intende mostrare l’apporto che Chini diede alle Biennali di Venezia con quelle due meravigliose sale che lo resero ulteriormente celebre per la grande forza interpretativa del rinnovamento degli ultimi anni.
Il secondo piano della mostra conduce il pubblico in un’ampia sala dove è raccontato il soggiorno siamese di Chini: il pittore si imbarcò infatti a Genova nel giugno 1911 sul piroscafo Princess Alice diretto a Bangkok. Re Rama V commissionò all’artista di affrescare la Sala del Trono (in mostra uno studio per le decorazioni del Palazzo con Costumi siamesi), suggestionato dalla Sala del Sogno del 1907 che vide in occasione del suo ultimo viaggio in Europa. Durante il viaggio in nave si mostrò davanti ai suoi occhi una massa di nuvole scure attraversata dal sole che trovò la sua trasposizione sulla tela nel Tifone (qui accostato a La grande nuvola di Vallotton), paesaggio di forte impatto che provoca una potente emozione anche nell’osservatore; un sentimento nato da un fenomeno naturale che sostituisce un simbolismo di stampo esoterico e teosofico. Si osservano poi capolavori come La Bisca del Gran Cinese a Bangkok, Nel Wat e Il mio amico Mandarino, immagini di un mondo lontano ricche di bagliori dorati e intrise di forte pathos emotivo che presentano somiglianze con i dipinti di interni di Bonnard e di altri pittori ex-Nabis: ne è un esempio il Nudo allo specchio di Pierre Bonnard del 1931, esposto nella stessa sala.
La rassegna si chiude infine con un piccolo focus sull’ultimo periodo chiniano in cui la sua visione segue un sentimento più bonnardiano: entrambi provenienti da esperienze simboliste, approdano poi nell’impressionismo psicologico, più intimo e introspettivo, con una preferenza per gli interni caratterizzati da figure sfocate e tinte tra il rosso, l’arancione e il viola. Emblematica la Natura morta con maschera siamese che Galileo Chini compie nel 1939, in cui il pittore esprime un senso di nostalgia attraverso quel souvenir orientale che aveva portato con sé dal Siam.
Attraverso più di duecento opere, la mostra di Villa Bardini ripercorre i primi vent’anni della carriera dell’artista fiorentino che seppe farsi spazio ed essere ampiamente riconosciuto in Europa grazie al suo istinto innovatore e controcorrente. Il visitatore ha l’opportunità, grazie ai continui rimandi e confronti, di comprendere il contesto di ampio respiro dentro il quale l’arte di Chini si è mossa dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino alla metà degli anni Dieci del Novecento, ovvero il suo periodo simbolista che successivamente si evolverà in un impressionismo carico di valenze interiori e psicologiche.
Il tutto in un allestimento armonico e piacevole, grazie all’alternanza di dipinti, illustrazioni e ceramiche che confermano la stessa dignità tra le cosiddette arti maggiori e arti minori, come nei principi dell’artista. Il ricco catalogo offre contributi di vari studiosi, oltre che del curatore, sugli aspetti che hanno caratterizzato quei vent’anni, quali la decorazione ambientale, le esposizioni internazionali e l’opera grafica nell’ambito dell’esperienza simbolista internazionale; sono presenti inoltre opere non esposte in mostra ma utili per ulteriori confronti e parallelismi. Il primo omaggio espositivo a Galileo Chini nella sua città natale si è fatto anche troppo attendere e ora merita tutta l’attenzione possibile.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.