La vicenda di Fede Galizia, ha scritto Flavio Caroli nella più importante monografia dedicata alla pittrice lombarda d’origini trentine, possiede “un’importanza del tutto singolare, che sarebbe improprio non definire all’avanguardia in tutto il continente”. Nel Ritratto di Milano di Carlo Torre, la prima guida alla città, pubblicata nel 1674, Fede vien definita “mirabile pittoressa”, ed è con tale definizione ch’è stata intitolata la prima mostra monografica a lei dedicata, quella che si tiene al Castello del Buonconsiglio di Trento, a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa con la collaborazione di Luciana Giacomelli. Pittrice d’“avanguardia” e “mirabile pittoressa”: quest’espressioni racchiudono l’essenza più pura dell’arte di Fede Galizia, che per buona parte del Novecento è stata ritenuta, al più, una sorprendente autrice di nature morte (per quanto buona parte di quell’“avanguardia” cui si riferisce Caroli sia da individuare proprio in questo genere, che la vide tra i pionieri in Europa). In realtà, quella di Fede (“nome programmatico per l’Europa della Controriforma”, scrive Agosti nel saggio che apre il catalogo della rassegna trentina) fu figura complessa e riccamente sfaccettata. Fu tra le prime donne in Europa ad avviare una carriera indipendente, fu pittrice riconosciuta, apprezzata e richiesta dai contemporanei, anticipatrice di tendenze, artista colta e attenta, in grado di cimentarsi con esiti di notevole qualità sui generi anche più distanti, talora con attitudine quasi schizofrenica. La mostra del Castello del Buonconsiglio s’è posta, anzitutto, l’obiettivo di restituire al pubblico la varietà multiforme del profilo di Fede Galizia.
Un obiettivo che si può dire pienamente colto, con un progetto scientifico che s’è mosso in varie direzioni: ricerche d’archivio, vaglio delle fonti letterarie, storiche e critiche, puntuale rappresentazione dei contesti entro cui Fede si mosse, e naturalmente messa a punto della più completa ricostruzione della sua vicenda artistica che sia mai stata proposta prima d’ora, anche per il fatto che, contestualmente alla figura di Fede Galizia, è stata condotta un’operazione di ricollocazione del padre, Nunzio Galizia, artista poliedrico ma sinora poco studiato. Tanto che la mostra, precisa Giovanni Agosti in catalogo, dovrebbe esser considerata come dedicata a padre e figlia (“parlare della pittrice, per di più a Trento”, scrive il curatore, “significava mettere a fuoco, un po’ più a fuoco, suo padre Nunzio, che era indiscutibilmente trentino e che era uno degli artefici della Milano del lusso tra Cinque e Seicento”). Estendere il discorso anche a Nunzio vuol dire, peraltro, stringere ulteriormente le relazioni col territorio che ospita la mostra, dacché la carriera di Fede Galizia è legata per lo più a Milano, città dove l’artista verosimilmente nacque (Nunzio è documentato a Milano dal 1573, e sebbene la data di nascita di Fede non si conosca, è plausibile collocarla attorno alla metà degli anni Settanta). Esiste però almeno un’occasione in cui l’artista dichiara le sue origini trentine, sappiamo che Nunzio ebbe legami con Trento per quanto la famiglia fosse d’origini cremonesi, sappiamo che alcuni suoi parenti sono attestati in Trentino. Non è un caso che la prima biografia moderna dei due artisti, quella compilata nel 1898 da Gino Fogolari, li identifichi come “artisti trentini”.
Per Fede (e per Nunzio) è dunque una prima volta, di altissimo livello ma anche d’ampio respiro: l’arte della pittrice milanese è posta a dialogo, anzitutto, con le opere d’altre artiste donne del tempo, cui spetta il compito d’aprire la mostra (con una sezione che prende il titolo in prestito da Anna Banti: “Quando anche le donne si misero a dipingere”), per dar conto al visitatore del livello che la creatività femminile di fine Cinquecento seppe toccare. E Fede fu comunque tra le prime. E poi, come detto, coi contesti: ai curatori va riconosciuto, tra i tanti meriti, anche quello d’aver congegnato un percorso in grado di trasportare il pubblico nella temperie culturale del tempo, tra Lombardia e Trentino, e d’averlo fatto con un numero non elevatissimo di pezzi esposti (l’esposizione si compone d’un’ottantina d’opere in tutto, suddivise nelle nove sezioni che compongono l’itinerario di visita), ma che sono in grado di dar vita a una trama, tessuta tra i punti cardinali di Milano e Trento, che fa segnare l’apice del processo di rivalutazione della figura di Fede Galizia inquadrando con cura e dovizia i suoi riferimenti culturali, i suoi rapporti con l’arte coeva, la sua posizione nelle vicende artistiche del tempo.
Il percorso s’apre, come detto, con le opere d’alcune donne artiste: sfilano dunque, nella sala della Cappella Vecchia, opere notevoli di Plautilla Nelli, Lavinia Fontana, Barbara Longhi, Sofonisba Anguissola, sistemate entro il primo degli eccentrici padiglioni studiati appositamente per la mostra dalla giovane scenografa Alice De Bortoli. Sono grandi spazi circolari o a forma d’ovale allungato con tende argentate a specchio, che fanno molto Pop Art e Hollywood (ma anche un po’ tendone da circo), e han già fatto storcere il naso a molti: la ratio dell’allestimento, così stridente in una mostra d’opere del Cinque-Seicento e in una sede come il Castello del Buonconsiglio, batte sull’idea del voler suscitare nel visitatore d’oggi quel senso di meraviglia, stupore e in certi casi anche fastidio che la vista d’un’opera d’arte generata da una mano femminile doveva sollevare nell’animo dell’osservatore di quattro secoli fa, non abituato alla creatività muliebre. Una sorta di provocazione, insomma, che letta sotto questo profilo non può che dirsi ben riuscita e anche lodevole. Lo stesso leit-motiv, dunque, prosegue nelle sale successive, a cominciare dalla seconda, che introduce il pubblico alla Trento di fine Cinquecento, centro di notevole fermento anche in quanto sede del Concilio, tra il 1545 e il 1563: la città si trovò dunque a ospitare, per quasi un ventennio, legazioni da ogni parte d’Europa. A una così massiccia presenza internazionale non fece però seguito un ambiente artistico altrettanto vivace: i principi vescovi Cristoforo, Ludovico e Carlo Gaudenzio Madruzzo s’adoperarono, spiega Luciana Giacomelli, per rinnovare la città dal punto di vista urbanistico affinché fosse pronta per l’appuntamento col Concilio, non riuscendo però a sollevarla da quella “cultura attardata” che univa “elementi desunti dall’ambiente nordico a modi più prettamente veneti, veronesi (Paolo Farinati o Felice Brusasorci) o veneziani”. Tra i pezzi più interessanti che rievocano quest’ambiente figura un dipinto, una sorta d’instantanea della congregazione generale del Concilio nella chiesa di Santa Maria Maggiore, in passato attribuito a Fede Galizia: un’assegnazione già stroncata nel 1992 da Giacomo Berra per la bassa qualità dell’opera, ma interessante perché è un’ulteriore testimonianza (per quanto non sia stato possibile risalire all’origine del riferimento a Fede Galizia per questo dipinto) del rapporto tra la pittrice e Trento, esattamente come il bulino di Giovanni Pietro Stefanoni raffigurante un Simonino da Trento che deriva da un prototipo di Fede.
Da Trento s’arriva a Milano e si comincia a prender confidenza con l’arte di Nunzio, che nel capoluogo lombardo s’impegnò in varie attività: fu miniatore, incisore, scenografo, e si misurò anche con la singolare attività della microscultura in pasta muschiata, una bizzarra forma d’arte ch’ebbe un certo sviluppo in un’epoca in cui le corti europee amavano l’inconsueto e il sorprendente. Erano piccole sculture realizzate con le secrezioni d’un raro artiodattilo asiatico, il mosco, in grado di produrre dalle sue ghiandole una sostanza densa e profumata, il muschio, che veniva all’epoca ridotta in pasta utile per realizzare statuine da decorare poi con oro e gemme preziose. In mostra non ci sono esempî di questo tipo di produzione (un rammarico dei curatori per loro stessa ammissione), ma il pubblico può osservare l’unico esemplare di mosco tassidermizzato che esista in una collezione pubblica italiana, quella del Museo di Storia Naturale di Novara. L’attività di Nunzio Galizia è testimoniata da una delle più interessanti opere del suo repertorio, una ben nota Veduta prospettica di Milano dopo la peste, eseguita dopo la peste di San Carlo del 1578, che introdusse diverse innovazioni tecniche per l’epoca e rappresenta una delle più eloquenti testimonianze del suo ingegno tanto vario, e dal suo impegno per il teatro, richiamato dai figurini ricreati dalle scenografe Federisa Santoro e Michela Negretto a partire dai modelli cartacei, da uno splendido disegno con Costume per mascherata di Giuseppe Arcimboldo (che, ipotizza Agostino Allegri in catalogo, probabilmente si fece anche carico della promozione di artisti come Fede Galizia, dato che in una fonte del tempo viene ricordato di come il pittore milanese si fosse attivato per far arrivare a Rodolfo II d’Asburgo alcune opere della giovane collega), oltre che da un disegno, anche questo con tutta probabilità per un costume da festa, eseguito da Fede verso il 1600 (è la sua prima opera che s’incontra in mostra). Non manca, come detto, la ricostruzione del contesto, con prestiti di opere di Figino, Sadeler, Lomazzo, dello stesso Arcimboldo (in quest’ultimo caso anche per esplicitare i rapporti tra Milano e Vienna): ne emerge il profilo d’una città vivace e stimolante oltre che, se non cosmopolita, di sicuro accostumata ai rapporti internazionali tra uomini di cultura. Un’intera sezione, la quarta della mostra, è dedicata alle miniature di Nunzio, genere in cui il padre di Fede seppe eccellere e che, sul finire del Cinquecento, si stava avviando verso il suo tramonto. In Lombardia era però tradizione vivissima e praticata dagli artisti più illustri (lo attestano, per esempio, i due capilettera di Bartholomäus Spranger), ed era tradizione cui non si sottrassero neppure Nunzio e Fede. Anzi: un doppio ritrattino, quello del giurista pavese Jacopo Menochio e di sua moglie Margherita Candiani, eseguito da padre e figlia in collaborazione (probabilmente per promuovere il lavoro di lei), è uno dei migliori pezzi in mostra, e per l’occasione ne è stata studiata la storia collezionistica. Meritano poi una menzione le stampe di Nunzio (la mostra è preziosa occasione per vederne tante radunate in un’unica sala) e i due ritratti settecenteschi di Nunzio e Fede eseguiti da Giovanni Bagatti per le illustrazioni delle Memorie per servire alla Storia de’ Pittori, Scultori e Architetti Milanesi di Antonio Francesco Albuzzi, dei quali però non conosciamo gli originali autografi da cui furono tratti.
La rassegna entra nel vivo con la sezione sulle Giuditte, tema che l’artista affronterà spesso nella sua produzione a partire almeno dal 1596, data alla quale risale la più antica delle Giuditte a noi note (quella conservata al Ringling Museum di Sarasota, in Florida), e che verrà poi replicato con poche varianti (decorazioni, gioielli e simili) lasciando inalterato lo schema di base: la Giuditta di Fede è una donna avvenente, elegante, che ben salda impugna con la mano destra la spada e con la sinistra afferra la testa di Oloferne, senza perdere un grammo della propria raffinata femminilità. Di fianco a lei, la vecchia serva Abra, defilata, che regge il piatto su cui è poggiata la testa del generale assiro (una licenza iconografica rispetto al testo biblico molto frequente nell’arte del tempo: Giuditta nascose infatti la testa di Oloferne in una borsa, il piatto era semmai quello su cui Salomè fece posare la testa del Battista, ma è una contaminazione che conta innumerevoli casi). L’abbigliamento di Giuditta, in tutte le varianti, è sempre lo stesso: una camicia bianca aperta con ampia scollatura, un corpetto di broccato dorato chiuso da lacci rossi, una cintura d’oro ornata di pietre preziose, il diadema, la collana di perle a filo doppio, il braccialetto con perle, rubini e smeraldi, gli orecchini di perle a goccia. Al di là delle scontate letture ideologiche che son state date sul dipinto, come sempre accade quando il soggetto è una Giuditta e l’autrice è una donna, i curatori convengono (giustamente) sul fatto che è semmai molto più interessante la “componente sartoriale” del dipinto, da leggere in relazione alle attività teatrali condotte da Nunzio e Fede. Le Giuditte consentono poi al lettore di farsi un’idea sui riferimenti di Fede: nella Milano di fine Cinquecento, l’artista, scrive Jacopo Stoppa, vive in un “mondo un po’ fiabesco, ma non nel senso imbambolato del termine”, bensì da intendersi come “distante dai giochi turpi e violenti della triade Cerano-Morazzone-Procaccini”, e semmai più vicino all’altro Procaccini, Camillo (da cui Fede riprende, per esempio, l’idea del contrasto forte tra la bellezza della Giuditta e l’aspetto grottesco della serva), motivato dal fatto che il bolognese era appena arrivato a Milano quando Fede probabilmente cominciava la propria attività (e curiosamente nell’anno in cui l’artista è attestata per la prima volta, il 1587).
Dalla sesta sezione della mostra emerge con chiarezza quanto Fede guardasse all’Emilia, e in particolare alla pittura del Correggio e del Parmigianino, che furono artisti per lei discretamente rilevanti. Fede avrebbe studiato con costanza e assiduità le opere di Antonio Allegri, al punto d’eseguirne diverse copie (in mostra s’ammira l’Orazione nell’orto in arrivo dal Museo Diocesano di Milano) e in maniera tale da far supporre una sua attività di copista seriale (e probabilmente di gran successo) del Correggio e, in generale, degli artisti di scuola parmense. Prassi seriale che comunque, scrive Allegri, Fede adotta “indipendentemente dal genere pittorico con cui si misura, sia esso ritratto, natura morta o composizione sacra”. Un delizioso foglio con un Angioletto seduto su una cornice, in prestito dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, dà conto di come Fede fosse anche in grado d’interpretare il linguaggio correggesco declinandolo secondo le istanze della nascente pittura barocca. Proseguendo il percorso, s’inizia a familiarizzare con una Fede Galizia più “pubblica” per così dire, ovvero la Fede ritrattista (Una ritrattista famosa s’intitola programmaticamente questa sezione della rassegna): spiccano in particolare il ritratto a stampa del poeta Gherardo Borgogni, del 1592 (è il più antico ritratto di Fede conosciuto, anche se è del tutto probabile che l’artista abbia cominciato, come soleva accadere per le pittrici, ritraendo se stessa e i familiari: fu così anche per Sofonisba Anguissola, peraltro presente in mostra, nella sezione sulla miniatura, proprio con un autoritratto), quello del frate Paolo Morigia che rivela, oltre alla ben nota propensione alla resa dei dettagli da parte di Fede, anche un buon grado d’introspezione psicologica, e quello sorprendente del grande Federico Zuccari, a lungo ritenuto un autoritratto del pittore marchigiano, e poi restituito a Fede negli anni Settanta da Silvia Meloni Trkulja sulla base d’un’iscrizione apposta sul retro (sebbene in molte occasioni il dipinto sia stato ripetutamente presentato, anche in seguito, come un autoritratto).
La penultima sezione della mostra è invece dedicata alla pittura sacra di Fede: questo filone della sua produzione viene affrontato con tre opere. La prima che s’incontra è il San Carlo in estasi davanti alla croce con il Sacro Chiodo, opera del 1611 che Fede dipinse per la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli (era la chiesa di riferimento della comunità lombarda che viveva in città) e che oggi è invece in San Carlo alle Mortelle, e opera che si colloca nel solco del manierismo di Figino. Lo stesso santo è protagonista della pala esposta di fronte, il San Carlo in processione con il Sacro Chiodo, eseguita per la chiesa di Sant’Antonio Abate a Milano, alla quale Fede fu molto legata (vi si conservano alcune sue opere: l’artista partecipò infatti alle decorazioni) e a cui lasciò anche alcuni dei suoi beni. Protagonista della sezione è però il Noli me tangere al centro, dipinto firmato e datato 1616: un’opera di grande raffinatezza (s’osservino i tessuti per coglierla) e che sfugge a ogni classificazione, poiché qui, scrive Federico Maria Giani, Fede “non sembra uniformarsi a nessuna delle esperienze in voga in quel momento a Milano”, e propone dunque un dipinto dal “tono come congelato, molto distante dal tipo di pittura e di sentimenti coltivati dalla generazione dei ‘pestanti’, e più prossimo invece a esperienze di manierismo internazionale, tra Denijs Calvaert e Bartholomeus Spränger”.
Conclusione affidata, nella Sala degli Specchi, a un godibilissimo padiglione circolare che accoglie la sezione delle nature morte, il genere per cui Fede è più celebre. Rimonta al 1602 l’opera più antica tra quelle note (che è anche la più antica natura morta lombarda della quale si conosca la data): è un’Alzata metallica con foglie di vite, prugne, pere e una rosa, di collezione privata: una “immagine realizzata con ascetico rigore”, scrivono Agosti e Stoppa, “e, verrebbe da dire, povertà di mezzi: la preparazione è sottilissima”, e con una “impaginazione severa e quasi astratta di forme naturali (frutta e fiori), con una struttura metallica verticale che fa da baricentro all’immagine”, che verrà poi usata anche in altre opere simili, per esempio la natura morta della collezione Claudio e Doriana Marzocco di Montecarlo, anch’essa presente in mostra. L’essenzialità, quasi astratta e geometrica, di queste prime prove rimanda a modelli nordici (tedeschi, soprattutto), benché Stoppa in catalogo rilevi come le opere d’area tedesca che meglio si possono accostare a quelle di Fede siano tutte successive: “o immaginiamo una fonte comune, ignota e precedente”, conclude, “o dobbiamo dire che Fede è la capostipite di un modello di natura morta europea che con la composizione che fa capo alla tavoletta del 1602”. Il 1607 sarà poi un anno di svolta: è l’anno in cui è attestata per la prima volta a Milano la Canestra di frutta di Caravaggio, che avrà su Fede un ascendente estremamente significativo, come s’osserva dalle nature morte più naturalistiche posteriori a quella data, come quelle del Museo Civico Ala Ponzone di Cremona (una delle quali con tanto di coniglietto): l’ultima sezione della mostra dà modo di farsi un’idea concreta dell’evoluzioni di Fede come naturamortista.
Chi in passato ha avuto modo di visitare qualcuna delle mostre curate da Agosti e Stoppa non rimarrà sorpreso dalla gran mole di materiale che la mostra ha radunato e alla quale ha saputo dar forma per avviare una completa ricostruzione della figura di Fede Galizia, che esce dalla mostra del Castello del Buonconsiglio forse come mai s’era conosciuta sinora, ovvero come un’artista poliedrica, fieramente indipendente (spesso la sua firma campeggia nei punti più visibili dei suoi dipinti, come nella Giuditta di Sarasota dove il suo nome scintilla sulla lama della spada), dotata anche d’una certa inclinazione imprenditoriale, fine e attenta alla realtà che la circondava, capace di cogliere gli spunti più disparati, ben inserita negli ambienti artistici e culturali del suo tempo. Andrà poi rilevato come, pur trattandosi d’una mostra su di una donna ed essendo ormai le mostre sulle artiste diventate quasi un genere a sé, Fede Galizia. Mirabile pittoressa ha il merito di non scadere nella retorica. Non che ci fossero dubbî su questo punto, naturalmente, dato come sono abituati a lavorare i due curatori, ma val la pena evidenziare questo aspetto segnatamente per due motivi, ovvero da un lato perché è opportuno ribadire che le mostre serie si costruiscono e si progettano come quella del Castello del Buonconsiglio, e dall’altro per sottolineare come la rassegna trentina non rientri nel genere delle “mostre di donne” alimentato dalle mode del consumo culturale, ma si collochi in quello delle rigorose mostre monografiche di tradizione. E questo non vuol ovviamente dire che non presti attenzione alle sensibilità attuali (gli allestimenti, per le ragioni di cui sopra, ne sono l’attestazione più voluminosa) o agli sviluppi più aggiornati dei gender studies, per quanto questi aspetti non costituiscano il focus principale della rassegna.
Il ponderoso catalogo (ma ponderoso non perché appesantito da saggi fuori contesto: perché il materiale raccolto dai curatori e dalla loro équipe è ampio e frutto di ricerche durate un triennio), in tale senso, è un utile strumento di approfondimento: uscito sì in ritardo rispetto all’apertura della mostra, ma chi è che ha il coraggio di far critiche su questo punto sapendo che gran parte della mostra è stata organizzata nel pieno della pandemia di Covid-19, con tutte le difficoltà del caso? Anzi, conoscendo la situazione il lavoro alle spalle della rassegna trentina diventa ancor più encomiabile, anche perché l’epidemia ha notevolmente diminuito l’occasione di mostre simili, e questa, peraltro, è di sicuro una delle più interessanti dell’anno. Su alcuni fronti le ricerche non hanno ancora dato frutti (per esempio non sono ancora noti data e luogo di nascita), ma la mostra ha avuto anche il merito di risollevare l’attenzione attorno a un’artista che, pur avendo conosciuto un’importante monografia (e di conseguenza non scopriamo oggi la sua importanza) e pur essendo stata oggetto di considerazione in anni recenti (anche se spesso per motivi tangenti), non aveva mai avuto una mostra tutta per sé: è dunque probabile che ulteriori notizie su Fede Galizia arriveranno in un futuro prossimo. S’è detto che Fede Galizia fu particolarmente prolifica nel genere della natura morta, tanto che la sua fortuna novecentesca si deve, come ricordato, per lo più ai suoi dipinti con fiori e frutta: sarà difficile ed è poco plausibile, ma chissà che non venga fuori che sia lei la pittrice che non solo “al naturale somiglia, ma vince mentre imita”, cantata da Giovanni Battista Marino in un componimento dedicato ad alcuni “Frutti di mano d’una Donna”.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).