Volete conoscere le principali tendenze della pittura italiana contemporanea? Passate da Todi. C'è “De Prospectiva Pingendi”


Recensione della mostra 'De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana' a Todi, Palazzo del Vignola e Palazzo del Popolo, dal 22 aprile al 1° luglio 2018

Il prossimo anno si celebrerà il cinquantesimo anniversario di Autoritratto, il fondamentale saggio col quale Carla Lonzi ha ridefinito i confini del mestiere di critico d’arte, che lei stessa, dopo la pubblicazione di quello scritto, decise d’abbandonare. Il senso delle conversazioni con gli artisti (Lucio Fontana, Enrico Castellani, Pino Pascali, Carla Accardi e altri) che Carla Lonzi aveva raccolto nel suo volume risiedeva nella necessità di far percepire l’opera d’arte “come una possibilità d’incontro, come un invito a partecipare rivolto dagli artisti a ciascuno di noi”: una possibilità che conduce l’artista a essere “richiamato in un altro rapporto con la società, negando il ruolo, e perciò il potere, del critico in quanto controllo repressivo sull’arte e sugli artisti, e soprattutto in quanto ideologia dell’arte e degli artisti in corso nella nostra società”. È da Carla Lonzi che si può partire per cominciare a leggere la mostra De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana, in corso a Todi, nella doppia sede di Palazzo del Vignola e Palazzo del Popolo, fino al 1° luglio. Anche il curatore della rassegna umbra, Massimo Mattioli, preferisce farsi da parte e demandare agli artisti (o meglio: alle opere d’arte) il compito di parlar da sé. “Il curatore migliore è quello che più riesce a mettersi in disparte, lasciando che sia l’arte a presentare se stessa”, sentenzia Mattioli nel suo godibilissimo saggio in catalogo, scritto in forma di racconto.

Lasciare che l’arte presenti se stessa: ma cosa ha da dire l’arte e, segnatamente, la pittura italiana degli anni Duemiladieci? Occorre partire da una premessa: se l’arte è manifesto d’un sentire e d’una conseguente azione che si legano, in maniera quasi simbiotica, al contesto storico, sociale e culturale in cui l’arte stessa viene prodotta (“fra arte e società”, ha scritto Franco Ferrarotti, “corre un rapporto reale, dialettico, vivente”, un rapporto che “non si lascia esprimere, tanto meno imprigionare, negli schemi del formalismo estetizzante e del socialismo ingenuo”, con la conseguenza che l’arte partecipa “ad una esperienza umana concreta, determinata e significativa”), allora in una società liquida ogni centralità e ogni visione sistematica del percorso artistico, suggerisce Fabio De Chirico in catalogo, viene erosa dai mutamenti repentini e continui cui la nostra società va incontro, col risultato che l’attualità dell’arte è contraddistinta “dalla disseminazione, dal deflagrante moltiplicarsi di generi e linguaggi, dall’incessante scorrere fluido delle sperimentazioni tecnologiche”. La frammentarietà è la cifra che marca in maniera più evidente e consistente l’arte dei nostri tempi, in special modo in Italia dove, dai primi anni Novanta in qua, non sono più esistiti gruppi in grado d’accentrare tendenze, modi e idee (questo almeno stando alla visione di Mattioli, che individua nella Transavanguardia, nell’Anacronismo e nella Scuola di San Lorenzo le ultime esperienze corali della pittura italiana). Una frammentarietà che dunque impedisce di fornire una caratterizzazione sicura e stabile all’arte italiana, come viene rilevato in catalogo da Daniele Capra che s’allinea alle posizioni dei tanti che, negli ultimi tempi, si son trovati d’accordo sul fatto che sia difficile, se non impossibile, individuare elementi fondanti (o identitarî, direbbe qualcuno).

Un punto di partenza, parrebbe d’intuire dal titolo della mostra che fa riferimento al celebre trattato di Piero della Francesca, potrebbe tuttavia esser costituito dal recupero della tradizione: già in tempi non sospetti, Giulio Paolini asseriva che tratto prevalente dell’identità artistica italiana è proprio il suo rifarsi alla tradizione. E questi riferimenti non possono che trovare il loro più naturale campo d’azione nella pittura, anche in virtù del fatto che, sottolinea ancora Fabio De Chirico, “la pittura appare oggi come una possibilità di rivincita contro forme di sperimentazione fini a se stesse e ormai isterilite da un sistema di mercificazione esasperato”. In altri termini, sembra di legger tra le righe che proporre un canone dell’arte italiana contemporanea è impresa assai ardua (e Mattioli, nell’affrontarla, s’è dimostrato particolarmente coraggioso, per molte ragioni: perché di collettive stancanti e stantie è pieno il panorama espositivo italiano, perché ogni scelta comporta sempre delle esclusioni, e a Todi ve ne sono d’eccellenti, e perché allestire una mostra del genere equivale ad assumere una precisa e netta presa di posizione). Tuttavia, se tocca cimentarsi in tal compito, la pittura, confortata dal suo essere un medium cui in Italia siamo così fortemente legati, dalla sua costante tensione tra sperimentalismo e tradizione, oltre che dal suo indubbio appeal commerciale, non può che costituire il terreno privilegiato.

Sala della mostra De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana
Sala della mostra De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana


Sala della mostra De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana
Sala della mostra De Prospectiva Pingendi. Nuovi scenari della pittura italiana

Il riferimento alla tradizione marca l’avvio del percorso, che ci fa entrare nel primo dei tre ambiti della pittura secondo Piero della Francesca: “la pictura contiene in sé tre parti principali, quali diciamo essere disegno, commensuratio et colorare”. Per “disegno”, la prima delle tre parti, “intendiamo essere profili et contorni che nella cosa se contene”. Ed ecco quindi che nell’avvio del percorso al Palazzo del Vignola si materializzano le spettacolari Atrocità di san Giorgio e compagna, olio su tela di grande formato di Thomas Braida (Gorizia, 1982): il suo crudele san Giorgio che infierisce su di un inerme draghetto sembra uscito da un dipinto di Moreau e innestato su di un paesaggio di Böcklin illuminato dalle atmosfere di Redon, e soprattutto offre al riguardante un racconto che riprende la tradizione a livello formale ma la ribalta, con sarcasmo feroce, sul piano dei contenuti. Il santo di Braida dialoga con Il digiuno di Nicola Samorì (Forlì, 1977), artista pienamente barocco che entra con violenza nell’arte del Seicento per trarne figure (Il digiuno fa venire in mente i santi di Ribera) da scarnificare, da sfregiare, da torturare, da bruciare, da distruggere: forme particolari di vanitas contemporanea, che riflettono sullo stato ultimo dell’opera d’arte, oltre che sul destino della nostra esistenza. Samorì è poi protagonista, nella sala successiva, d’un confronto (straziante) col kitsch ipertamarro di Nicola Verlato (Verona, 1965): stesso formato, antico, quello della pala centinata, per dar corpo al tormentato esistenzialismo di Samorì (San Pietro all’inferno) e al bifolco texano iperrealista di Verlato che s’agita in groppa a un toro imbizzarrito davanti alla torre di perforazione d’un pozzo petrolifero avvolta dalle fiamme. Unico merito del dipinto di Verlato sta nel fatto che la torre richiama quella di Andrea Chiesi (Modena, 1966) esposta sulla parete di fronte: Chaos 2 racconta con cupo distacco il paesaggio postindustriale della sua Emilia (un po’ come facevano i CCCP, coi quali peraltro Chiesi ha collaborato). Chiudono il cerchio le (noiose) figurette di Simone Berti (Adria, 1966) che si diverte, non si comprende bene perché, a conficcare elementi scappati da composizioni costruttiviste sui cranî di compite gentildonne fiamminghe o dame settecentesche.

Si prosegue nelle sale dedicate alla pittura di paesaggio, dove protagonista assoluto è il colore, col quale “intendiamo dare i colori commo nelle cose se dimostrano, chiari et uscuri secondo che i lumi li devariano”. Arrivano i suggestivi dipinti montani di Danilo Buccella (Liestel, Svizzera, 1974), una sorta di Segantini in acido intrappolato dentro atmosfere alla Nolde, e che, nel suo trittico Pastore, Rabdomante e Narciso, come Segantini anela a un’alpina serenità quasi pastorale (benché l’arte di Buccella sia popolata da visioni ben più cupe e inquiete di quelle che il pubblico ha modo d’apprezzare a Todi). L’inutilità delle classificazioni novecentesche d’astrazione e figurazione, “tanto più perché sono intese dai pittori come opzioni stilistiche tra le possibili grammatiche espressive” e non più “categorie che misurano la reale adesione/opposizione al mondo” (così Daniele Capra) emerge osservando opere come quelle di Laura Lambroni (Olbia, 1981), che guarda alla scienza per creare le sue raffinate composizioni che delineano campi elettrici e nebulose (“per indagare ciò che siamo realmente noi paragonati ai campi elettrici o alle atmosfere dense dove nascono le stelle”, suggerisce il curatore, limitandosi però a parafrasare il pensiero dell’artista).

Thomas Braida, Le atrocità di san Giorgio e compagna (2012; olio su tela, 211 x 399 cm)
Thomas Braida, Le atrocità di san Giorgio e compagna (2012; olio su tela, 211 x 399 cm)


Thomas Braida, Le atrocità di san Giorgio e compagna, dettaglio
Thomas Braida, Le atrocità di san Giorgio e compagna, dettaglio


Nicola Samorì, Il digiuno (2014; olio su rame, 100 x 100 cm)
Nicola Samorì, Il digiuno (2014; olio su rame, 100 x 100 cm)


A sinistra Nicola Samorì, San Pietro all'inferno (2016; olio su lino, 300 x 175 cm). A destra Nicola Verlato, Beauty of failure (2009; olio su tela, 312 x 152 cm)
A sinistra Nicola Samorì, San Pietro all’inferno (2016; olio su lino, 300 x 175 cm). A destra Nicola Verlato, Beauty of failure (2009; olio su tela, 312 x 152 cm)


Nicola Samorì, San Pietro all'inferno, dettaglio
Nicola Samorì, San Pietro all’inferno, dettaglio


Andrea Chiesi, Chaos 2 (2010; olio su tela, 140 x 200 cm)
Andrea Chiesi, Chaos 2 (2010; olio su tela, 140 x 200 cm)


Simone Berti, Carolina Murat (2017; tecnica mista su tela, 80 x 60 cm)
Simone Berti, Carolina Murat (2017; tecnica mista su tela, 80 x 60 cm)


Il trittico di Danilo Buccella. A sinistra Il rabdomante, al centro Il pastore, a destra Il Narciso (tutti 2017; olio su tela, 190 x 160 cm)
Il trittico di Danilo Buccella. A sinistra Il rabdomante, al centro Il pastore, a destra Il Narciso (tutti 2017; olio su tela, 190 x 160 cm)


Danilo Buccella, Il Narciso (2017; olio su tela, 190 x 160 cm)
Danilo Buccella, Il Narciso (2017; olio su tela, 190 x 160 cm)


Laura Lambroni, Nebulosa rosetta (2016; tecnica mista su ferro, 60 x 40 cm)
Laura Lambroni, Nebulosa rosetta (2016; tecnica mista su ferro, 60 x 40 cm)

Si possono quindi superare senza troppi indugî gli altri artisti che fondano il proprio linguaggio espressivo sul colore. Angelo Bellobono (Nettuno, 1964) ha prodotto opere ben più interessanti di quelle che il pubblico trova alla rassegna umbra, Antonio Bardino (Alghero, 1973), non va oltre le sue brumose e ripetitive jungle romantico-impressioniste, e Silvia Mei (Cagliari, 1985), propone figurette che taluni dotati di forte senso dell’umorismo accostano con invereconda sfrontatezza alle opere del gruppo Co.Br.A., e talaltri forniti di fervida fantasia si spingono a definire “neo-espressioniste”. Ci si può tuttavia fermare più a lungo dinnanzi alle opere di Alessandro Cannistrà (Roma, 1975), che sonda le possibilità estreme del colore con composizioni create segnando la carta con il fumo: ne sortiscono visioni che la materia aerea dispone in modo quasi casuale, con procedimenti simili a quelli che metteva in atto qualche decennio fa Burri, il cui ricordo nell’arte di Cannistrà s’impregna d’una sensibilità romantica che individua la natura stessa tra le pieghe delle tracce lasciate dal fumo.

Gli ultimi quattro dei quindici artisti che Mattioli ha radunato a Todi, con le loro ricerche geometriche, dànno corpo alla “commensuratio”, con la quale “diciamo essere essi profili e contorni proportionalmente posti nei luoghi loro”. La prima opera che s’incontra è Giardini (Israele) di Marco Neri (Forlì, 1968), un dipinto che propone all’osservatore la cifra stilistica più tipica dell’artista romagnolo: campiture uniformi su cui s’innestano elementi geometrici semplici che vanno a comporre motivi ricorrenti su spazî bidimensionali e organizzano paesaggi e architetture che rispondono più a un ricordo o a una visione che a una veduta (“Israele” si riferisce al padiglione nazionale della Biennale di Venezia del 2001: l’opera fa parte d’un ciclo che rievoca quell’edizione della Biennale, nella quale Neri ebbe un ruolo da protagonista). Poets di Mario Consiglio (Maglie, 1968), col suo linguaggio ironico e minimale, apre l’ultima sala dove, oltre alle realizzazioni di alcuni dei summenzionati pittori “del colore”, il visitatore incontra dapprima i sorprendenti paesaggi di Giuseppe Adamo (Alcamo, 1982), che coi suoi colori acrilici riesce a creare superficî incredibilmente illusorie, che paiono fuoriuscire dai limiti fisici del supporto (e più d’un visitatore si chiedeva se quella superficie fosse davvero liscia: lo è), e infine le costruzioni di Gioacchino Pontrelli (Salerno, 1966), pittore la cui purezza si riflette tutta sulle sue tele: Senza titolo, per esempio, è una surreale prospettiva dove s’incontrano onirico e razionale.

Si può dunque lasciare il Palazzo del Vignola per recarsi a Palazzo del Popolo dove, nella monumentale Sala delle Pietre, si dispiegano le opere di grande formato di alcuni dei quindici artisti in mostra, a tessere di nuovo il filo tracciato (invero in maniera un po’ più convincente e con confronti più puntuali) nella prima sede. Tra le opere più interessanti, i Clangori di Braida che ci accolgono subito dopo l’ingresso con la loro fragorosa battaglia combattuta però da armature vuote, oppure la Mamma di Pontrelli coi suoi tessuti sgargianti inquadrati entro forme geometriche che si squagliano in rivoli di colore, o l’ordinatissima analisi del Centro abitato di Neri, una grande installazione di trentacinque acrilici su carta: trentacinque grandi finestre che compongono un frammento d’un contesto urbano contraddistinto da grande rigore geometrico, ma anche da vita (perché le tapparelle sono alzate o abbassate ad altezze diverse, segno che c’è una storia dietro ognuna di quelle finestre).

Angelo Bellobono, Terre sparse (2017; acrilico, suolo e olio su tela, 200 x 200 cm)
Angelo Bellobono, Terre sparse (2017; acrilico, suolo e olio su tela, 200 x 200 cm)


Antonio Bardino, Senza titolo (2013; olio su tela, 30 x 30 cm)
Antonio Bardino, Senza titolo (2013; olio su tela, 30 x 30 cm)


Silvia Mei, Bracciateste e veste rossa (2014; acrilico e tecnica mista su carta intelaiata, 242 x 150 cm)
Silvia Mei, Bracciateste e veste rossa (2014; acrilico e tecnica mista su carta intelaiata, 242 x 150 cm)


Alessandro Cannistrà, Progetto #15 (08) (2017; fumo su carta, 120 x 120 cm)
Alessandro Cannistrà, Progetto #15 (08) (2017; fumo su carta, 120 x 120 cm)


Giuseppe Adamo, Sulcus 2 (2016; acrilico su tela, 100 x 80 cm)
Giuseppe Adamo, Sulcus 2 (2016; acrilico su tela, 100 x 80 cm)


Mario Consiglio, POETS (2018; smalti e vinavil su PVC, 140 x 400 cm)
Mario Consiglio, POETS (2018; smalti e vinavil su PVC, 140 x 400 cm)


Marco Neri, Giardini (Israele) (2010; acrilico su lino, 80 x 100 cm)
Marco Neri, Giardini (Israele) (2010; acrilico su lino, 80 x 100 cm)


Gioacchino Pontrelli, Senza titolo (2003; tecnica mista su tela, 200 x 240 cm)
Gioacchino Pontrelli, Senza titolo (2003; tecnica mista su tela, 200 x 240 cm)


Thomas Braida, Clangori (2016; olio su tela, 215 x 235 cm)
Thomas Braida, Clangori (2016; olio su tela, 215 x 235 cm)


Gioacchino Pontrelli, Mamma (2016; tecnica mista su tela, 380 x 210 cm)
Gioacchino Pontrelli, Mamma (2016; tecnica mista su tela, 380 x 210 cm)


Marco Neri, Centro abitato (2015; 35 elementi in acrilico su carta, 42 x 29 cm ciascuno, dimensioni variabili)
Marco Neri, Centro abitato (2015; 35 elementi in acrilico su carta, 42 x 29 cm ciascuno, dimensioni variabili)

Se De Prospectiva Pingendi deve certificare qualcosa, allora il primo assunto è che la pittura, data per spacciata a più riprese, è un mezzo quanto mai vitale. Il secondo, è che lo “scenario” su cui si muove gran parte della pittura attuale in Italia è quello del confronto con l’antico (un confronto che del resto ha sempre contraddistinto l’arte italiana, anche nei momenti di più feroce rottura: anche le fratture nascono da un confronto), in base all’idea che la lettura della tradizione costituisce base necessaria per la sperimentazione. Il terzo è che, nonostante tali premesse, paiono non esserci tendenze catalizzatrici nella pittura italiana degli anni Duemiladieci: secondo Mattioli, l’unica regola che accomuna i pittori italiani odierni è “l’essere cresciuti con una specie di individualismo forzato” che li ha portati “a spingere in avanti la propria pittura arrivando in certi casi a rinnegarla per poi riprenderla su un livello più avanzato”. Super-pittura, azzarda il curatore: cancellare per affermare. Una lettura faticosa. Ma sulla quale si può ragionare.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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