Per identificare le mostre curate da Marco Goldin, lo storico dell’arte-imprenditore che da anni macina migliaia di visitatori con le rassegne della sua Linea d’Ombra, qualche anno fa venne coniato un termine molto efficace, “mostre-panettone”, che ben riassume le caratteristiche dei prodotti firmati dal curatore veneto: mostre di scarsa qualità, costruite attorno a pochi dipinti buoni e a tanti riempitivi, calibrate sulle ineffabili “emozioni” che promettono di far provare al pubblico pagante, mostre che lasciano i visitatori esattamente come li hanno trovati e mostre che, nella loro condizione di puri prodotti d’intrattenimento, non fanno avanzare d’una virgola studî e conoscenze. Sono, in pratica, i corrispettivi artistici dei cine-panettoni che imperversano sotto le festività natalizie.
Si sperava, invero molto ingenuamente, che due anni di stop pandemico forzato avessero portato Linea d’Ombra e Goldin a rivedere lo schema assodato: il primo appuntamento post-pandemia, Dai Romantici a Segantini. Storie di lune e poi di sguardi e di montagne, mostra allestita presso l’eccellente Centro San Gaetano di Padova e aperta fino al 5 giugno, conferma al contrario che l’impostazione è sempre la stessa che aveva caratterizzato le sortite precedenti. Su tutte, lo si ricorderà, il Van Gogh tra il grano e il cielo che non s’annovera esattamente tra gli eventi più esaltanti della sua stagione espositiva. Occorreva capirlo fin dal titolo: non tanto l’ormai invasivo “da questo a quell’altro” che ha assalito anche le occasioni più serie (alla fine, nella miglior delle ipotesi si tratta di offrire gli estremi cronologici della mostra, nella peggiore di attirare il pubblico con qualche nome altisonante), quanto il sottotitolo con quel “poi” pleonastico che vorrebbe ammantare d’un’ulteriore vena poetica la triade di temi che dovrebbero costituire la struttura portante della mostra. È una specie di manifesto, insomma. E una dichiarazione di ostilità nei confronti di chi, leggendo il secondo sottotitolo (“Capolavori della Fondazionee Oskar Reinhart”), magari s’aspetterebbe una mostra che parli di collezionismo.
I presupposti, in effetti, ci sarebbero stati. Anche se il modus operandi è sempre quello: Goldin prende in prestito in blocco una parte consistente di un’unica raccolta, e ci ammannisce una mostra intorno. E quando arrivano in blocco pezzi di collezioni da altre parti del mondo le premesse non sono mai delle migliori. Questa volta però un’eventuale mostra scientificamente inappuntabile poteva avere un suo giustificativo nella presentazione delle scelte di Oskar Reinhart, figlio d’un importante imprenditore di Winterthur, in Svizzera, che fin da giovane coltivò un forte interesse per l’arte e già negli anni Venti del Novecento, poco più che trentenne, avviò la sua raccolta per dedicarvisi a tempo pieno a partire dal 1924, quando lasciò l’azienda di famiglia, acquistò la villa “Am Römerholz”, e la fece diventare sede della sua collezione per poi aprirla al pubblico nel 1940. Il nucleo che arriva a Padova, certo, è minimamente rappresentativo: la raccolta di Reinhart annovera centinaia di opere, oggi divise tra il Kunstmuseum di Winterthur (nel 1951 il collezionista lasciò parte delle sue opere alla sua città) e la villa Am Römerholz, dove si trova il grosso della collezione. In Veneto è giunto un gruppo di opere dal Kunstmuseum. Ad ogni modo, anche con un nucleo che si focalizza su di uno solo dei tanti interessi di Reinhart, e peraltro neanche quello che più lo appassionò (le sue preferenze s’orientevano soprattutto verso la pittura francese), sarebbe stata una storia più che valida e più che interessante da raccontare in una mostra italiana: tanto più che è la prima volta che un nucleo così rilevante della collezione Reinhart giunge in Italia.
E invece no: il curatore ha preferito frastornare il pubblico con un vaniloquio su lune, sguardi e ammennicoli assortiti con l’idea di permettere al visitatore, si legge nell’introduzione vergata dallo stesso Goldin, “di orientarsi perfettamente all’interno dell’arte svizzera e tedesca dell’Ottocento”. Ci sarebbe da discorrere a lungo sulla considerazione che Goldin nutre nei confronti del suo visitatore: per fare un esempio, una panoramica completa del Cinquecento fiorentino non si ottiene visitando gli Uffizi. Davvero si può pensare che qui il pubblico sia così sprovveduto da riuscire a bersi la fola del perfetto orientamento nella pittura svizzera e tedesca dell’Ottocento? Stiamo parlando di una selezione di una settantina di opere che coprono quasi centocinquant’anni di storia dell’arte tedesca, dal romanticismo al divisionismo, e che arrivano tutte da una sola collezione. Ci si può aspettare di ricavare una buona mappa per cominciare a muoversi in un paesaggio decisamente vario e articolato, ma niente che possa garantire conoscenze perfette. E infatti se l’obiettivo è questo, la mostra fallisce miseramente, poiché tante e troppe sono le lacune: i Nazareni, che sono una delle più originali espressioni dell’arte tedesca della prima metà del XIX secolo, giusto per avanzare un esempio non vengono neppure menzionati (il che è del tutto ovvio: nella collezione non ci sono).
Le prime due sale della mostra sono quelle meglio congegnate, anche se con una decina di opere si pretende di coprire tutta la pittura di paesaggio in Svizzera dalla fine del Settecento fino agli anni Sessanta dell’Ottocento. Ad ogni modo, per sommi capi, la prima sezione tiene: da una parte le opere di Caspar Wolf, che accolgono il visitatore, e dall’altra quelle di Alexandre Calame e Barthélemy Menn, mostrano uno sviluppo che parte dall’idea del sublime, attraversa la pittura francese di Corot e giunge a esperienze più avanzate come quelle di Robert Zünd, Rudolf Koller e Frank Buchser, con opere sistemate in una saletta che introduce alla seconda sezione.
Si torna indietro ai primi dell’Ottocento ma con un passaggio logico che ancora può reggere, dato che il tema del Sublime che s’incontra nella prima sezione non può che condurre a un breve affondo sulla pittura romantica, dove si concentra il meglio della mostra, ovvero i cinque dipinti di Caspar David Friedrich, su tutti le Bianche scogliere di Rügen che sono tra i pezzi più interessanti dell’esposizione. Non si comprende con quale criterio, proprio nel mezzo dell’infilata di opere di Friedrich, sia stata piazzata anche una piccola tela di Johan Christian Dahl che confonde il pubblico (probabilmente per attinenza di temi e di formato), ma non è la prima stonatura di un allestimento che, come si vedrà, costringe i visitatori a giri e prilli tortuosi e innaturali. Da notare come tutta la comunicazione della mostra non scalfisca mai la superficie: sappiamo dunque che Friedrich, “in modo poetico e toccante” (così il pannello di sala), “coniuga l’osservazione talvolta microscopica con la vasta contemplazione, trascorrendo quindi dall’elemento soltanto legato al vedere fisico a quello psicologico”, ma non ci viene detto perché lo faccia. Sappiamo che “le figure che ci volgono la schiena e guardano il paesaggio fanno acquisire allo spazio una identità sacra” e che “in questo senso, Friedrich ha dipinto quadri nei quali si attua una fusione piena tra figure, su un limite che si fa presto illimite”, ma la presenza del pittore arriva come un’epifania dopo la pittura di paesaggio e non come la continuazione di un percorso storico: manca, in questa mostra, qualunque tentativo anche minimo di contestualizzazione. È comprensibile, dato che con la selezione proposta da Goldin è impresa pressoché impossibile ricostruire un secolo di pittura tedesca in maniera precisa e compiuta, ma non è giustificabile se lo scopo della mostra è fornire una bussola al pubblico. Ci s’accontenti di vedere Friedrich come il nume tutelare della rassegna, ruolo implicitamente dichiarato fin dall’ingresso, dov’è riprodotto un estratto, dedicato ai cieli del pittore tedesco, dell’ultimo libro di Goldin. Vale la pena riportarne un passaggio per dare un’idea: “Cieli che sono l’apparizione e l’incanto, sono un volo di corvi come sarà per Van Gogh alla fine dei suoi giorni. Cieli che sono un viaggio senza fine e senza possibilità di soluzioni. Cieli”.
Tutti i nessi saltano a partire dalla terza sezione: a partire dalla sala dedicata ad Arnold Böcklin viene meno ogni senso logico. Si salta dunque a piè pari dal romanticismo al simbolismo, dove Böcklin viene presentato come un pittore “molto particolare sulla scena europea della seconda metà del XIX secolo” e come “campione di un simbolismo piuttosto eccentrico” (a proposito di perfetto orientamento), che “ebbe negli ideali e nelle raffigurazioni del mondo classico il suo punto di supremo interesse”. Le opere di Anselm Feuerbach e Hans von Marées sono qui allineate giusto perché i due furono amici di Böcklin, ma non c’è modo di avere una profilazione più chiara del loro contributo alla pittura tedesca del XIX secolo. Sulla parete attigua della sala compaiono invece così, all’improvviso, senza senso e senza che nessuno li abbia mai chiamati in causa o citati, dipinti di Carl Blechen e di Christian Morgenstern, paesaggisti della generazione precedente che ovviamente non hanno niente a che vedere con Böcklin e colleghi. Sull’altro lato della sala Goldin compone un’ulteriore sezione, dal sussiegoso titolo Lo sguardo e il mistero del silenzio: una serie di ritratti di Ferdinand Hodler e Albert Anker che vorrebbero offrire una panoramica sulla ritrattistica in Svizzera. Quindi in una stessa sala si hanno da una parte i temi del mito rielaborati dai simbolisti tedeschi, sulla parete di fronte i ritratti di due pittori svizzeri, e su quella a fianco vedute dei pionieri del paesaggio realista in Germania, mai menzionate in alcun pannello.
Se la mostra raggiunge qui il culmine della confusione, nella sala seguente, Il racconto della vita, il visitatore è chiamato a districarsi tra una congerie di dipinti parimenti eterogenea ma che il curatore tenta di tenere assieme per il fatto che tutti i pittori (dieci, per venti opere), che coprono un arco di tempo che va oltre ogni lunghezza gestibile per una singola sala da cui si voglia ricavare un discorso lineare (si va da Carl Spitzweg a Max Slevogt: il secondo nasce sessant’anni dopo il primo), affrontano situazioni che hanno a che fare con la “vita”, come da titolo della sezione. E infatti nella sala c’è di tutto: si parte coi paesaggi di Waldmüller accostati a quelli di Menzel, dopodiché, se si vuole provare a seguire un filo, occorre girarsi di centottanta gradi e ritrovarsi dinnanzi al Pittore in giardino di Spitzweg accostato al Parco giochi di Liebermann (sfugge il motivo del confronto: forse per l’ambientazione simile). Ecco poi paesaggi di Hans Thoma e Wilhelm Trübner che assieme restituiscono un accattivamente accostamento cromatico. Si imbocca poi la sala in diagonale e si guardano le opere di Franz von Uhde. Figure, in questo caso: la Sorella maggiore e la Ragazza che legge fino ad arrivare all’Autoritratto di Lovis Corinth. Si esce lasciandosi sfilare di fianco la Via alla scuola a Edam di Max Liebermann e lo Stabilmento balneare sull’Havel di Max Slevogt. L’ultima parte della mostra è dedicata alla montagna: si apre con il miglior pezzo della mostra, il Paesaggio alpino con donna alla fontana di Segantini, e prosegue con opere di Giovanni Giacometti, di Cuno Amiet e di Ferdinand Hodler (una saletta è tutta dedicata ai suoi paesaggi alpini) per arrivare poi al finale con lo Sguardo verso l’infinito dello stesso Hodler. Che con la neve e le montagne non c’entra assolutamente niente, ma consente la chiusura a effetto tipica delle mostre di Goldin.
Andrà rilevato che Dai Romantici a Segantini è il primo d’una serie di appuntamenti che si pone l’obiettivo di restituire al pubblico un affresco della situazione della pittura in Europa lungo tutto l’Ottocento e parte del Novecento. C’è anche il titolo di questo mega-progetto in più tappe: Geografie dell’Europa. La trama della pittura fra Ottocento e Novecento. Se si è voluto cominciare con un disastro simile sulla pittura svizzera e tedesca, il proposito di Goldin suona più come una minaccia: c’è pertanto da augurarsi che la partitura cambi con i prossimi appuntamenti. Volendo mitigare il giudizio su di una mostra priva di una struttura credibile e di un percorso logico, si potrebbe tutt’al più dire che Dai Romantici a Segantini è, nella migliore delle ipotesi, un’occasione persa per parlare di una collezione: in tutto il percorso non c’è una riga che parli di Reinhart e delle vicende della sua raccolta. Si concede il beneficio del dubbio all’audioguida, della quale non si è avvalso lo scrivente: ad ogni modo l’audioguida non dovrebbe essere sostitutiva dei pannelli in sala (e infatti lo strumento contiene un racconto della mostra di Goldin e dunque, almeno in teoria, non dovrebbe togliere niente a chi non se ne avvale, anche perché l’esborso per il noleggio dell’apparecchio è notevole: 6 euro e 50, da aggiungere a ben 15 euro per la mostra, cifre molto elevate per il prodotto che viene offerto, e per di più col divieto assoluto di scattare foto, pure ai pannelli).
È un peccato che tocchi parlare di occasione persa perché, peraltro, da questo punto di vista il catalogo si rivela uno strumento interessante, con un lungo saggio di Goldin dedicato proprio alla formazione della collezione di Reinhart. È la prima pubblicazione in italiano sulla collezione Reinhart: di questo occorre dare atto, anche perché apre uno spiraglio di novità sul cliché della mostra-panettone. Merita infine una nota a favore l’allestimento, riposante e con un’illuminazione pressoché perfetta: per chi voglia vedere una selezione di pittura svizzera e tedesca in ottime condizioni di luce, le sale sono ideali. Catalogo e allestimento però da soli non rendono sufficiente la mostra. E se l’unico motivo valido per andare di persona a vedere la mostra è perché Padova è più facilmente raggiungibile di Winterthur, di sicuro c’è qualcosa che non va.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).