Riceviamo e pubblichiamo la seguente recensione della mostra Caravage à Rome in corso al Musée Jacquemart-André di Parigi.
Nella sua essenzialità, un’esposizione di alto livello. È quanto può dirsi in due parole di Caravage à Rome, a cura di Francesca Cappelletti e Pierre Curie, benché il sottotitolo (Amis et ennemis), che richiama qualcosa di già sentito, dichiari implicitamente come non ci si debba attendere la novità a tutti i costi, in fatto di acquisizioni sul piano scientifico. La mostra, di fatto e anzitutto, trova una delle sue ragioni proprio nell’esporre a Parigi, che dal 1965 non ospitava un evento di oggetto comparabile. Altri tempi: al Louvre, Caravage et la peinture italienne du XVIIe siècle poteva portare al pubblico capolavori di Caravaggio (Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610) oramai inamovibili come i dipinti della cappella Contarelli; e persino la Natività di Palermo, tristemente sottratta di lì a pochi anni.
Stavolta la sede, il Musée Jacquemart-André, risulta meno nota ai più e in parte inaspettata: all’interno delle collezioni è meno rappresentato proprio il periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo (‘vuoto’ cui si può dire che la mostra, in qualche modo, sopperisce). Ma questo poco importa, al di là che gli spazi espositivi sono raccolti e ciò ha un riflesso, più che sulla fruizione, sul numero limitato di opere per sala: talune sezioni sono rappresentate, comunque e sempre efficacemente, anche da un paio di dipinti. Peraltro la disponibilità del Jacquemart-André a farsi sede per l’evento è stata premiata in particolare con tre prestiti importanti (due Caravaggio e un Baglione) da Palazzo Barberini, il quale parallelamente con sei opere dal museo parigino ha allestito la rassegna La stanza di Mantegna.
Ma tornando a Caravage à Rome, essa si caratterizza per essere sviluppata per temi, ben otto: Il teatro delle teste mozzate; Musica e natura morta; Dipingere con il modello d’avanti; I contemporanei; Immagini della meditazione; Volti di Roma agli inizi del Seicento; La Passione di Cristo, un tema caravaggesco; La fuga. Ciò, non di meno, dà occasione di affrontare questioni di cronologia (criterio di presentazione forse più comunemente adottato), a partire dal ‘pezzo’ di apertura. Come (e per certi versi in contrapposizione) con la milanese Dentro Caravaggio, nella prima sala fa bella mostra di sé la Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, qui riproposta al 1600 circa, ritoccando lievemente la datazione tradizionale che la vorrebbe di poco antecedente, ma a Milano assegnata al 1602 secondo un documento che ora è stato più attentamente riletto (aspetto che comunque non è sviscerato in catalogo).
Caravaggio, Giuditta e Oloferne (1602; olio su tela, 145 x 195 cm; Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, Palazzo Barberini) |
Ma al di là di questo, a partire da tale prestito eccezionale parte e si svolge un emozionante viaggio storico-artistico e narrativo, tra capolavori più o meno noti e visti. Fra questi ultimi, vale la pena citare il magnifico San Giovanni Battista di Bartolomeo Manfredi (Ostiano, 1582 - Roma, 1622) del Louvre. E sempre dalla stessa sede museale, interessante più per ragioni storiche che per il manufatto in sé, il bozzetto monocromo di Giovanni Baglione (Roma, 1566/1568 - 1643) della perduta (se si eccettuano due brani superstiti) Resurrezione di Cristo dalla Chiesa del Gesù. Un’opera, quest’ultima, che infiammò una rivalità senza pari tra il pittore romano e Merisi, aspetto biografico (e non solo) rilevante nel contesto più generale dei rapporti fra gli artisti del tempo, con la presenza singolare del ‘maestro senza allievi’ Michelangelo Merisi.
Un punto di forza della mostra è l’accostamento ben studiato e pregno di valenze fra alcune opere. Come quello fra il Battista di Baglione e l’analogo soggetto di Caravaggio nella versione capitolina. O ancora fra il San Lorenzo di Cecco del Caravaggio e il San Francesco in meditazione di Cremona del Merisi. Ancora di quest’ultimo, l’Ecce Homo di Genova vicino allo stesso soggetto dipinto da Ludovico Cardi detto il Cigoli ricorda un aneddoto che avrebbe visto una contesa fra i due artisti.
Bartolomeo Manfredi, San Giovanni Battista (1613-1615; olio su tela, 148 x 114 cm; Parigi, Louvre). Foto di René-Gabriel Ojéda |
Caravaggio, San Giovanni Battista (1602; olio su tela, 129 x 94 cm; Roma, Musei Capitolini, Pinacoteca Capitolina) |
Giovanni Baglione, La resurrezione di Cristo (1601-1603; olio su tela, 86 x 57 cm; Parigi, Louvre) |
Ma su tutto, il confronto che da solo vale la visita è quello fra le due dibattute Maddalena in estasi: la già nota versione già in collezione Klain, e quella riconosciuta nel 2014 da Mina Gregori presso un privato olandese. Due testi pittorici su cui finalmente si esercita congiuntamente l’occhio del conoscitore (finora, al di fuori del suo caveau svizzero, la nuova tela è stata vista solo a Tokyo). Il dibattito critico è aperto, tanto più che, singolarmente, nel catalogo in sostanza non si prende posizione, anche se per finire la mostra accredita in qualche modo entrambe le redazioni (e così il numero di Caravaggio presenti raggiunge la ragguardevole cifra tonda di venti unità). Sinora, in sede scientifica, ben pochi sono giunti a contrastare l’ipotesi attributiva della Gregori. E non giova davanti a tanta esitazione la mancata riproduzione di un antico cartellino che assegnerebbe la tela a Merisi, specificandone in poche righe, appunto oltre all’autore, soggetto, sede coeva e destinatario ultimo (nome e città).
Un’inaspettata completezza di informazioni che, peraltro, aveva già destato sospetti sull’autenticità del documento. A tale considerazione si vuole qui aggiungere l’osservazione che un teschio come quello (per cromia, se almeno una ‘battuta’ è lecita, più vicino a un pomello di ottone!) appare estraneo alla produzione di Merisi (se non altro a quella nota). A ogni modo, tornando sulle cronologie, per quest’opera è proposto dubitativamente il 1606, pur menzionando il 1610 proposto di recente. Questione non di poco conto, considerato pure che la mostra è dedicata agli anni romani di Caravaggio. Allo stesso tempo il taglio cronologico adottato (che, per Caravaggio, ma non per i suoi seguaci, si arresta al 1606 anno in cui lascia per sempre la Città Eterna) giustifica l’assenza di opere come il San Giovanni Battista Borghese e la Sant’Orsola entrambe del 1610, che sarebbero state senz’altro le più pertinenti per accostamento a confermare (o smentire) una datazione più tarda per la Maddalena.
Caravaggio, Maddalena in estasi nota come Maddalena Klain (post 1606; olio su tela, 106,5 x 91 cm; Roma, collezione privata) |
Caravaggio, Maddalena in estasi (post 1606; olio su tela, 103,5 x 91,5 cm; Olanda, collezione privata) |
Apprezzabile infine il fatto che, in antitesi a logiche movimentiste spesso senza scrupoli che interessano le mostre, i tre Caravaggio del Louvre lì siano rimasti (ma del resto è da vent’anni a questa parte che nessuno di essi si è più assentato dalla Grande Galerie). Chi vorrà vederli potrà sempre recarsi presso il museo che li custodisce, ragione di visita in più e sempre valida in città (e tanto più per i visitatori di Caravage à Rome), la quale in questo momento si trova così a ospitare un numero eccezionale di opere di Merisi.
Si segnala inoltre il convegno Caravaggio. Una vita barocca, manifestazione a latere tenutasi il 9 gennaio scorso, in cui per la prima volta sono state illustrate le indagini scientifiche eseguite sulla Maddalena ‘Gregori’, e confrontate con quelle relative all’altra versione. Last but not least, chi visiterà il Jacquemart-André da qui al 28 gennaio, vi troverà il Suonatore di liuto dell’Ermitage, che si presenta al pubblico per la prima volta dopo un lungo restauro.