Senza un vero amore per l’arte, che vada anche oltre ciò che la professione di un addetto ai lavori richiede, e talvolta senza uno spirito coraggioso, numerosi capolavori che oggi possiamo ancora ammirare nei nostri musei molto probabilmente non sarebbero più in Italia. È questa la riflessione che chi visita la grande mostra alle Scuderie del Quirinale Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra, in corso fino al 10 aprile 2023, curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli e organizzata dalle Scuderie del Quirinale in collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche, l’ICCD – Istituto Centrale per il catalogo e la Documentazione e l’Archivio Luce - Cinecittà, è inevitabilmente portato a fare. Con quest’importante esposizione le Scuderie del Quirinale intendono ricordare, come dichiara il presidente e amministratore delegato Ales spa Scuderie del Quirinale Mario De Simoni, “l’azione lungimirante dei tanti Soprintendenti e funzionari dell’Amministrazione delle Belle Arti che, nelle tempeste d’acciaio della guerra, trovarono la forza, le idee e i mezzi (di solito scarsi) per affrontare una delle grandi imprese dell’epoca: la salvaguardia dell’immenso patrimonio storico-artistico dell’Italia in guerra. Un patrimonio messo a rischio già prima della guerra dalle esportazioni forzate verso il Terzo Reich, poi in guerra dai bombardamenti alleati, dalle razzie naziste e in genere dal muoversi del fronte lungo il nostro territorio. Con la loro azione, di significato universale, costoro contribuirono ad affermare il valore del patrimonio culturale come elemento fondante di una più completa identità civica e nazionale”. La mostra vuole dunque omaggiare “un gruppo di giovani funzionari dell’amministrazione delle Belle Arti che, coadiuvati da storici dell’arte e rappresentanti delle gerarchie vaticane, furono gli interpreti di una patriottica impresa di salvaguardia condotta con mezzi limitatissimi”.
I visitatori usciranno da questo evento espositivo arricchiti dal racconto che, sezione dopo sezione, verrà loro fornito del corso della Storia, dal sogno del Führer di realizzare in Austria, a Linz, un museo dove riunire capolavori d’arte che esprimessero i valori e i gusti del regime nazista all’attività dei Monuments Men, ma soprattutto delle storie di tutte quelle persone che in Italia diedero il loro fondamentale contributo nel salvare le opere d’arte negli anni del secondo conflitto mondiale, consapevoli dell’universalità del patrimonio artistico e culturale. “Questa è una mostra di storie. Di storie di donne e di uomini, di eroismi difficili e silenziosi, di opere d’arte protette, perse, salvate e infine recuperate”, dichiara De Simoni. La Storia e le storie di questi protagonisti che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò si intrecciano vicendevolmente lungo il percorso espositivo costituito non solo da opere d’arte tra quelle salvate durante il conflitto mondiale (oltre un centinaio) provenienti dai musei che ancora oggi (fortunatamente) le custodiscono, ma anche da fotografie e materiale documentario; il tutto arricchito da esaustivi pannelli esplicativi che narrano le varie vicende e che rendono il succedersi delle sezioni chiaro negli intenti e comprensibile, senza essere pesante nonostante la lunghezza del percorso e la ricchezza di materiali.
L’inizio della mostra è affidato al Discobolo Lancellotti proveniente dal Palazzo Massimo alle Terme di Roma, copia romana da un originale di Mirone: la scultura era infatti tra quelle che Hitler desiderava per il suo museo di Linz, attraverso cui voleva celebrare la grandezza del Terzo Reich. Non solo arte tedesca quindi, ma anche tutte quelle opere in grado di rappresentare i valori della classicità e della perfezione ariana espressi dalla civiltà europea fin dall’antichità classica. Come ricorda Gianluca Scroccu nel suo saggio, dove delinea la biografia di Hitler in relazione alle sue ambizioni artistiche (persino come artista), dalla visita in Italia del 1938 vennero incrementate le richieste di prestiti di opere famose da parte del governo nazista e il nostro Paese venne considerato un vero tesoro a cui accedere con voracità, sfruttando le relazioni tra le due potenze dell’Asse. La commissione per l’acquisto delle opere d’arte era diretta dal principe Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, che nel 1938 richiese il permesso per la cessione a Hitler del Discobolo Lancellotti, sotto vincolo dal 1909, e, come ricorda il curatore Luigi Gallo, attuale direttore della Galleria Nazionale delle Marche, nel suo saggio, in cui delinea una storia della tutela negli anni del secondo conflitto mondiale, l’opera venne concessa, nonostante il parere negativo del Consiglio Superiore delle Scienze e delle Arti, "per diretto interessamento del Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano e il 9 giugno 1938 prende posto nella Glyptothek di Monaco di Baviera come dono del Führer al popolo tedesco". Il Discobolo, insieme a un nucleo di opere esportate illegalmente dai nazisti prima dell’8 settembre, fece il suo ritorno in Italia nel novembre 1948. È emblema quindi di quelle opere che uscirono dall’Italia solo per compiacere il Führer e i suoi gerarchi e che poi vennero recuperate dopo il conflitto.
Viene poi raccontato in mostra come il ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai, a seguito dell’invasione tedesca della Polonia nel settembre 1939, intuì che presto l’Italia sarebbe entrata in guerra e, temendo le incursioni aeree, si preoccupò dell’immenso patrimonio artistico italiano, che doveva essere salvato come le famiglie e le case, e ordinò di mettere in sicurezza i monumenti, i quali erano stati segnalati con un segno distintivo sui tetti, e di elaborare gli spostamenti delle opere, suddivise per categoria d’importanza. Già nel 1938 il Ministro aveva infatti inviato una circolare alle Soprintendenze per provvedere a classificare e a elencare tutto il materiale da sottoporre a protezione in caso di guerra in tre gruppi distinti: i “beni di maggior pregio” da trasferire nei rifugi, i “beni di alto pregio” inamovibili per fragilità e dimensioni da proteggere in situ, e “beni di secondaria importanza” anch’essi da proteggere sul posto. La mostra, pur ribadendo il ruolo di Bottai nella salvaguardia del patrimonio durante la guerra, nel percorso espositivo non accenna però alle responsabilità che lo stesso ministro ebbe sui fatti raccontati verso la conclusione (di cui si parlerà dunque più avanti), ovvero la spoliazione dei beni degli ebrei a seguito delle leggi razziali, che Bottai (firmatario peraltro del Manifesto della Razza), in quanto ministro dell’Educazione, fece applicare con rigore nel suo ambito, e che portarono ad alcuni provvedimenti direttamente firmati del ministro, come le circolari sulla “difesa del patrimonio artistico nazionale in mano di ebrei”, attraverso le quali Bottai istruiva i funzionari ministeriali a ostacolare (attraverso veti e aumenti di tasse) la fuoriuscita di beni di notevole interesse artistico in possesso degli ebrei che, colpiti dalla persecuzione anche economica messa in atto dal regime, cercavano di portare fuori dai confini nazionali.
Tornando invece alla protezione degli edifici in vista della guerra, chiese e monumenti vennero puntellati con sostegni in muratura e imbottiti con sacchi di sabbia, come si vedere nelle foto d’archivio esposte lungo il percorso, affreschi, statue e fontane protette da armature in legno, mentre dipinti e sculture trasferiti in luoghi ritenuti sicuri. Di quest’ultimo punto divenne personaggio di riferimento Pasquale Rotondi, protagonista della seconda e terza sezione della mostra. Dal 1939 Soprintendente alle Gallerie e alle Opere d’Arte delle Marche, Rotondi venne incaricato dal ministro Bottai di trasportare e custodire un alto numero di opere nel Palazzo Ducale di Urbino, considerato sicuro per la sua posizione decentrata, ma egli si rese conto che la città poteva essere un bersaglio militare per via di un arsenale dell’aeronautica nascosto in un tunnel di una collina urbinate. Depositò quindi le opere di Palazzo Ducale, delle chiese e dei musei civici marchigiani nella rocca di Sassocorvaro, progettata nella seconda metà del Quattrocento da Francesco di Giorgio. Tra le centinaia di opere trasferite a Sassocorvaro, figura, per fare un esempio, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, che la Galleria Nazionale delle Marche ha dato in prestito alla mostra delle Scuderie del Quirinale per omaggiare il ricordo dell’impresa di Pasquale Rotondi, ma anche il Salvator Mundi di Bartolomeo della Gatta (dato un tempo a Melozzo da Forlì). Restarono invece a Urbino le opere di Giovanni Santi (sono qui esposti Tobiolo e l’angelo e il San Rocco) e i capolavori di Federico Barocci, rappresentati in mostra dal bozzetto del Perdono di Assisi e dall’Immacolata Concezione. Tra i capolavori giunti invece dai musei civici marchigiani a Sassocorvaro figurano invece la Testa di Giovanni Battista di Giovanni Bellini (che adesso però non è più visibile in mostra essendosi spostata nel frattempo alla rassegna su Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa a Ferrara), la predella con le Storie della Vergine di Paolo Veneziano e il Cristo deposto sorretto da due angeli di Marco Zoppo, da Pesaro, il Secondo Trittico di Valle Castellana di Carlo Crivelli e la Santa Francesca Romana di Carlo Maratta, da Ascoli Piceno, la Dormitio Virginis di Olivuccio di Ciccarello e la Santa Palazia di Guercino, da Ancona, e la Visitazione e l’Annuciazione di Lorenzo Lotto da Jesi. Tutti generosamente prestati in mostra alle Scuderie del Quirinale. Con l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, giungono nella Rocca anche opere dal Veneto, in particolare dalle Gallerie dell’Accademia e dalla Ca’ d’Oro. Le richieste di ricovero per le opere d’arte si moltiplicarono, da tutta la penisola: alla rocca di Sassocorvaro si aggiunse quindi nell’aprile 1943 il palazzo dei principi Falconieri a Carpegna. Arrivarono qui capolavori da Roma, Milano, Venezia.
Dopo l’armistizio del settembre 1943, la situazione si fece più complicata, anche per le missioni del Kunstschutz, l’ente tedesco che si occupava di scovare le opere nascoste durante i conflitti armati. In seguito alla perquisizione dei soldati tedeschi a Carpegna nell’ottobre 1943 (aprirono solo una cassa contenente spartiti di Rossini; alle altre casse Rotondi aveva tolto previdentemente i cartellini), il soprintendente decise di far rientrare le casse a Urbino, nei sotterranei del Palazzo Ducale: si racconta che opere più piccole e preziose come la Tempesta di Giorgione o il San Giorgio di Mantegna vennero caricate direttamente in macchina e nascoste nella tenuta dove Rotondi e la moglie Zea Bernardini, anche lei storica dell’arte, trascorsero l’autunno, custodendole in camera da letto. Una curiosità che non si trova certo sui libri di storia, e che la mostra ha invece il merito di raccontare e di far conoscere al pubblico. Sono state importanti per questo aspetto più intimo le pagine di diari e le lettere lasciate dai soprintendenti stessi, che narrano le peripezie ma soprattutto i sentimenti e i pensieri che passavano loro per la testa in questo frangente. L’ultima sezione del primo piano espositivo è dedicata alla figura di Emilio Lavagnino, funzionario della Soprintendenza di Roma messo a riposo, che nel gennaio 1944 diresse la spedizione volta allo svuotamento dei depositi marchigiani per condurre centinaia di casse entro le mura neutrali del Vaticano, guidando di notte a fari spenti sulla sua Topolino. Operazione resa possibile da Giulio Carlo Argan, altra figura fondamentale per il salvataggio delle opere, che ottenne dal cardinal Montini, futuro papa Paolo VI, di poter custodire le opere in Vaticano. Lavagnino aveva già compiuto inoltre il censimento e la salvaguardia dei tesori del Lazio, convincendo vescovi, parroci e sindaci a consegnare le opere per ricoverarle in Vaticano. Tra queste opere sono state date in prestito in mostra quattro dipinti di Antoniazzo Romano, oggi custoditi tra Rieti e Sutri, e un’opera di Cristoforo Scacco dal Duomo di Fondi. Da notare come l’allestimento ricordi spesso il legno delle casse entro cui venivano trasportate le opere d’arte.
Salendo al secondo piano espositivo, le sezioni dalla quinta all’ottava sono accomunate da titoli simili, che illustrano la situazione nelle diverse città italiane (Milano, Venezia, Torino; Roma; Firenze e Bologna; Genova, Napoli e Palermo) dalla chiusura dei musei nel 1940, e che presentano le figure chiave che si resero protagoniste nella salvaguardia del patrimonio artistico. Nel suo saggio che illustra il fondamentale contributo degli storici dell’arte negli anni del conflitto, i quali scrissero diari o piccoli pamphlet “in cui raccontarono, a volte giorno per giorno, altre per sommi capi, attraverso una selezione delle azioni più eclatanti, i transiti di quadri, di statue, di cornici, di lampadari, di libri, di carte, da un deposito all’altro, passando attraverso posti di blocco, bombardamenti, piogge torrenziali, con mezzi di fortuna mai adatti e a volte pericolosi”, la curatrice Raffaella Morselli ricorda che il 5 giugno 1940 il ministro Bottai ordinò l’attuazione di tutti i provvedimenti stabiliti per la tutela del patrimonio artistico mobile, e soprattutto la chiusura al pubblico di tutti i musei, le gallerie e le collezioni d’arte fino a contraria disposizione. Ed è per queste opere e per questi musei che è necessario ricordare figure come Fernanda Wittgens, Vittorio Moschini, Noemi Gabrielli, Aldo de Rinaldis, Palma Bucarelli, Francesco Arcangeli, Antonio Morassi, Orlando Grosso, Bruno Molajoli, Jole Bovio Marconi: uomini e donne che si impegnarono con le proprie forze, e talvolta mettendo a rischio anche la propria vita, nel salvare il patrimonio monumentale e artistico delle città e di interi territori. Il catalogo dedica ampio spazio alle loro biografie, per dare un quadro completo dei loro ruoli e delle loro coraggiose decisioni. In mostra sono invece visibili, suddivise per singole città, alcune opere che poterono salvarsi grazie al loro operato: giusto a titolo d’esempio, e per citare le più importanti, si vedono il Ritratto di Alessandro Manzoni di Francesco Hayez, la Madonna dei crisantemi di Gaetano Previati, il Ritratto di Battista Morosini di Tintoretto, Diana e Callisto di Sebastiano Ricci, il Santo Stefano di Francesco Francia, il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein il Giovane, Tobiolo e l’angelo di Giovanni Gerolamo Savoldo, l’Adorazione dei Pastori e il Battesimo di Cristo di El Greco.
La mostra si avvia alla conclusione con una sezione dedicata a un “danno incalcolabile per l’Italia tutta, a cui è stato sottratto un patrimonio ineguagliabile e un pezzo fondamentale della propria storia”, come scrive nel suo saggio Serena Di Nepi. Si riferisce alla razzia che venne compiuta sulla biblioteca della Comunità ebraica di Roma nell’ottobre 1943: qui erano conservati testi di epoca medievale e rinascimentale, preziosi manoscritti, incunaboli, la raccolta completa delle stampe ebraiche levantine pubblicate tra Cinque e Seicento nell’Impero Ottomano, e molto altro. Al momento della razzia però, come spiega Di Nepi, mancava un catalogo e mancavano informazioni precise e aggiornate sulla consistenza qualitativa e quantitativa di questa raccolta. Nel 1948, grazie al lavoro della Missione Italiana per le Restituzioni diretta da Rodolfo Siviero vennero recuperate più di cinquanta casse provenienti dalla Biblioteca del Collegio Rabbinico Italiano, ma di tutte quelle provenienti dalla Biblioteca della Comunità non si è più saputo nulla da quell’ottobre del 1943.
La chiusura del percorso espositivo è invece affidata al capitolo delle restituzioni e delle attività di recupero, a cominciare dai Monuments Men, che tuttora dal 1943 s’impegnano nel salvare il patrimonio artistico-culturale e nella restituzione ai legittimi proprietari delle opere d’arte disperse, per giungere alla figura di Rodolfo Siviero, nominato capo dell’Ufficio interministeriale per il recupero delle opere d’arte, nonché inviato a dirigere la missione diplomatica italiana presso il Governo Militare Alleato in Germania. Nel 1947 egli ottenne la restituzione dei beni artistici trafugati dopo l’8 settembre 1943, e nel 1948 la restituzione delle opere acquistate dai gerarchi nazisti e illegalmente esportate in Germania, come il Discobolo Lancellotti. Vennero organizzate anche mostre per celebrare il ritorno delle opere d’arte in Italia, tra cui quella nei saloni della Farnesina tra il 1947 e il 1948 e quelle a Palazzo Venezia nel 1948 e nel 1950. Tra le opere esposte alla prima Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania, allestita nel 1947 alla Farnesina, vi era la Danae di Tiziano, che Hermann Göring (il principale luogotenente di Hitler) aveva appeso nella sua stanza da letto e che ora è esposta alle Scuderie del Quirinale come opera simbolo di quegli eventi.
Si conclude così una mostra che chi scrive ha trovato istruttiva e ben strutturata, che dovrebbe essere visitata da quante più persone possibili, soprattutto dalle scuole. Perché questa mostra ha il merito di mettere in campo un momento drammatico della Storia, accompagnandone però il corso attraverso lo sguardo di chi ha fatto tanto per lottare contro questo terribile mostro che è la guerra e la distruzione che porta con sé. Ha il pregio di far conoscere aspetti che non si trovano sui libri di storia e di far vedere tramite foto d’archivio come sono stati protetti monumenti e città in quel passato. Forse si sarebbe dovuto sviluppare maggiormente il tema della penultima sezione, quello del patrimonio librario della comunità ebraica, per riflettere sul fatto che quest’ultimo, al contrario di quanto è stato compiuto dal ministro Bottai per la salvaguardia delle opere, non è stato salvato ed è perciò andato perduto. Per quanto riguarda le opere, si è notato inoltre che sia in mostra che nel catalogo manca un apparato descrittivo, ma è un aspetto che, secondo chi scrive, non stona in merito a questo tipo di mostra.
L’esposizione punta (riuscendoci) a condurre i visitatori in una importante riflessione sulla tutela dei beni culturali, tema fondamentale nel presente perché il non prendersi cura dei monumenti, delle opere e dei tesori artistico-culturali tutti significa non comprenderne il valore, così come nel passato, quando il secondo conflitto bellico li ha messi seriamente in pericolo e, se non fosse stato per donne e uomini che si sono battuti per proteggerli, oggi cosa ne sarebbe rimasto?
“Quella che abbiamo qui raccontato è una storia di cui l’Italia deve andar fiera, che speriamo di far emergere in tutta la sua importanza, e che deve essere considerata un passaggio decisivo nella formazione della contemporanea coscienza nazionale della tutela dei beni culturali”, ha sottolineato il presidente e amministratore delegato Ales spa Scuderie del Quirinale, Mario De Simoni. “Un risultato che dobbiamo alle donne e agli uomini di cui abbiamo parlato”. E a questi va tutta la nostra gratitudine.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.